Isolamento e Breaking Bad

(di Federica Tosadori)

When I heard the learn’d astronomer,

When the proofs, the figures, were ranged in columns before me,

When I was shown the charts and diagrams, to add, divide, and measure them,

When I sitting heard the astronomer where he lectured with much applause in the lecture-room,

How soon unaccountable I became tired and sick,

Till rising and gliding out I wander’d off by myself,

In the mystical moist night-air, and from time to time,

Look’d up in perfect silence at the stars.

Walt Whitman

 

Mio fratello mi ha sempre parlato di Breaking Bad come del telefilm più bello di sempre – seguito subito dopo da The Walking Dead; io ho iniziato a guardare B.B. decisamente controvoglia e spinta più che dalla curiosità, dalle sollecitazioni del mio ragazzo; così, solo a seguito di una frequentazione costante, ho potuto finalmente capire e apprezzare tutte le forme e i dettagli della sua bellezza. Più o meno ciò che accade quando ci si innamora.

Le puntate sono andate in onda dal 2008 al 2013, quindi so benissimo di essere in ritardo con queste mie riflessioni, ma i classici si prestano sempre a letture critiche di vario genere no? Sono atemporali per definizione. Non starò a riassumerne la trama, perché chi sta leggendo questo articolo ne sarà già certamente al corrente – chi invece non ne sapesse nulla potrebbe incappare in qualche spoiler; posso solo dire che si tratta della storia di un uomo che, dopo aver scoperto di essere gravemente malato – ma questo fatto in fondo è quasi secondario – decide di intraprendere la strada della delinquenza. La sua espressa giustificazione resta sempre la stessa fino all’ultima puntata dell’ultima stagione, in cui finalmente riesce a essere sincero soprattutto con se stesso, svelando la vera motivazione delle sue azioni illegali.

Perché lo fai Walt? Perché da pacato insegnante di chimica del liceo, e saltuario dipendente di un autolavaggio, da un giorno all’altro ti metti in affari con un tuo ex-studente sbandato e inizi con lui a cucinare e a vendere metanfetamina, con tutti i rischi che questo comporta, tra i quali macchiarti in tempo zero di omicidio? Perché lo fai Walt? O per lo meno, perché non ti fermi subito, perché non torni indietro non appena ti trovi di fronte alla problematica di dover far sparire un corpo? Per la famiglia. Fino a dieci minuti dalla fine risponderai sempre “per la famiglia”, a costo di risultare stucchevole, di essere considerato bugiardo, a costo di perdere quella stessa famiglia per cui stai mettendo ogni cosa a repentaglio, fino a quando questa risposta diventa del tutto ridicola, perfino comica.

Breaking Bad mette in scena la clamorosa capacità degli esseri umani di mentire a se stessi; di recitare fino all’età di 50 anni una parte che non può che stare stretta. Walter H. White aveva avuto la possibilità di percorrere una brillante carriera nella ricerca, nella chimica, guadagnarsi una montagna di soldi – puliti – soprattutto essere davvero soddisfatto della propria vita. Tutto questo non succede. Perché Walt? Perché non è accaduto? E soprattutto, sarebbe stato diverso veramente? Avresti rinunciato alla montagna di soldi sporchi se ne avessi avuti di puliti? Riconoscimento sociale e orgoglio personale: una lunga e disperata ricerca, una bramosia che probabilmente non avrebbe avuto mai fine, poiché ci sarebbe sempre stata una moglie da accontentare e da rispettare, delle amicizie da mantenere, e perfino dei nemici da abbattere. Continuamente. Qualunque scelta avresti fatto Walt, ti avrebbe portato a confrontarti con questi radicati e radicali bisogni: riconoscimento sociale e orgoglio personale.

Dunque, non è ciò che fai che determina ciò che sei. Il punto della questione è uno solo: qual è la tua vera natura Walt? Qual è la tua vera natura Jesse Pinkman, giovane, adorabile, scapestrato e insicuro socio, tuo malgrado? In sostanza, sono abbastanza sicura di poter affermare che B.B. non sia la storia di un cambiamento, di una “caduta” o di una “salita”, a seconda dei punti di vista, di una svolta, di una decisione sbagliata. Walter White non cambia; semplicemente, finalmente, svela quella che è la sua verità più profonda, qualcosa e qualcuno che è sempre stato: un uomo ambizioso, potente, coraggioso, malvagio, intelligente, senza scrupoli, geniale, anaffettivo e passionale contemporaneamente. Heisenberg – il nome che sceglie per se stesso – è un essere sfaccettato, come tutti gli altri personaggi di questa serie. Da un inizio in cui sembrava che ognuno di loro avesse un ruolo ben preciso, che i tratti di ogni partecipante di queste vicende fossero ben delineati e la loro superficialità un dato di fatto, lentamente, attraverso le loro azioni e i loro modi di essere si fanno tridimensionali, profondi. Tutte, dalla prima all’ultima, maschili e quelle poche stralunate femminili, le figure che girano intorno a Walt e Jesse diventano sempre più umane, degne di affetto e odio a momenti alterni; non si può mai sapere quale sarà il nemico nella prossima puntata, chi sarà meritevole di una fine onorevole, chi si spegnerà per un errore, in silenzio, senza aiuto. Ma chi soprattutto verrà inevitabilmente odiato o amato: sicuramente l’indifferenza non vale per nessuno. Solo sentimenti impegnativi sono stati riservati agli spettatori di Breaking Bad.

In poco tempo – circa due anni – e in un luogo ristretto – Albuquerque e poco intorno – implode un universo. Nasce e muore un mondo intero. All’inizio, una famiglia, due sorelle e i rispettivi mariti, un figlio adolescente e una bambina in arrivo. C’è affetto, nonostante le piccole ipocrisie e le incomprensioni fisiologiche che tutti i nuclei familiari per statuto presentano. In fondo ne fanno parte allo stesso tempo un delinquente e un poliziotto, una guardia e un ladro, due forze uguali e contrarie, pronte a tutto per raggiungere i propri discordanti obiettivi. I protagonisti sembrano soli, insieme, delle monadi che vivono vicine senza raggiungersi veramente. Forse è solo alla fine che si incontrano davvero, poco prima che l’intera famiglia si disgreghi, si disfi, venga cancellata; qualche attimo prima che questo disastro annunciato avvenga, risulta evidente la tragedia: ogni gruppo familiare non può che essere bacato al proprio interno, ma è più doloroso viverci in mezzo oppure non averlo, o peggio, esserne il distruttore?

Tutti i personaggi sono soli, quasi nessuno chiede davvero aiuto, preferiscono arrangiarsi, mentirsi – annullarsi da soli? Disperarsi da soli? Salvarsi da soli? Alla malvagità propria e altrui ci si abitua, e i crimini possono generare un piacere fine a se stesso. Essere soli, in tutto questo, rappresenta una forza, più che una debolezza. E così in un certo senso, tutte le figure che girano intorno al chimico Walter White, al cuoco di metanfetamina Heisenberg, risultano compiute solo attraverso la loro lontananza l’una dall’altra: le due sorelle distrutte dal dolore, chiuse in due case diverse, vuote; il poliziotto sottoterra; i nemici-colleghi-soci uccisi, disintegrati o quasi morti. Walter ferito accarezza per l’ultima volta gli strumenti da laboratorio, Jesse – che si meriterebbe un articolo a lui dedicato – suo figlio putativo, scappa lontano, forse unico vero superstite, morto tante volte ma ancora vivo.

Ovviamente ci sarebbero altri mille e più aspetti da valutare, da analizzare, da sviscerare di questa serie meravigliosa e ricca di sfaccettature, colpi di scena e tipi umani, ma chissà come mai, ho dovuto soffermarmi, tra tutti, soprattutto sul tema della famiglia. Probabilmente il motivo è da cercarsi nell’isolamento obbligatorio dettato dalla diffusione di questo nuovo virus, il quale oltre a darmi il tempo di godermi tutte e cinque le stagioni di B.B. in sole cinque settimane, mi ha imposto anche di stare con la mia famiglia per altrettanto tempo. Certo la convivenza forzata offre tante possibilità di avvicinamento, ma allo stesso tempo ne crea altre, e forse anche di più, di allontanamento. Il parallelismo tra la forza centrifuga che spedisce lontanissimo l’uno dall’altro i personaggi di B.B. e quella che allo stesso modo, pur senza cucinare blue meth, può manifestarsi all’interno di un appartamento dal quale non si può uscire, mi è stato inevitabile.

E così, nella narrazione come nella realtà, da una solitudine condivisa e colorata, a tratti perfino consolante e serena anche se ambigua, si giunge a una solitudine personale e oscura, disperata ma sincera. In mezzo c’è lo svolgimento della storia, la vita.

Kiss and Fly

(di Federica Tosadori)

Sarah Brown
Maurice, weep not, I am not here under this pine tree.
The balmy air for spring whispers through the sweet grass,
The stars sparkle, the whippoorwill calls,
But thou grievest, while my soul lies rapturous
In the blest Nirvana of eternal light !
Go to the good heart that is my husband,
Who broods upon what he calls our guilty love : –
Tell him that my love for you, no less than my love for him,
Wrought out my destiny – that thtough the flesh
I won spirit, and through spirit, peace.
There is no marriage in heaven,
but there is love.

Spoon River Anthology – E.L.Masters

 

Siamo quasi in aeroporto. Calcutta canta di tachipirina e paracetamolo alla radio, mi giro verso Diego e gli sorrido. Sento dolore dietro agli occhi, come se mi avessero infilato una lastra di vetro sottile tra il cervello e le pupille. Una tachipirina farebbe bene anche a me in questo momento. Il sorriso che ho fatto a Diego è come una conversazione, come se lo amassi solo adesso che, finalmente, me ne vado.
Che la realtà prenda consistenza giusto nell’allontanamento, era una cosa che avevo già notato. O forse mia sorella me ne aveva parlato, qualche teoria dell’assenza e del distacco. Lei studia filosofia, se ne intende. Diego, anche lui mi sorride. Forse è felice davvero con me, forse è contento che, finalmente, me ne vado, o forse ancora, ipotesi più plausibile, sorride tanto per farlo, un riflesso incondizionato che fa rispondere sorriso a sorriso.
«Cos’ha detto il tuo fidanzatino quando ha saputo che ti accompagnava tuo fratello all’aeroporto?»
Mi chiede dal nulla, mentre Calcutta ascolta un canto di gabbiano dentro la sua mano. Ha preso a chiamare Pietro, “fidanzatino”, con aria dispregiativa, come se non fossi io quella a dover essere disprezzata. Sgualdrina, per la morale comune, ovviamente. Io certo così non mi ci sento. A Diego però piace tanto categorizzare, perfino se stesso. Ci tiene a essere l’amante.
«Mah, niente, ha detto ok. Sembrava un po’ triste, ma sai non lo capisco mai cosa pensa.»
Tralascio il fatto che per salutarci abbia voluto vedermi nuda per l’ultima volta, prima del mio viaggio lungo e lontano, «Così mi stampo in testa quest’immagine, amore mio» ha detto, poco prima che Diego mi passasse a prendere sotto casa di mio fratello, dove fingevo di aspettare il mio passaggio. A Diego dà davvero tanto fastidio quando si rende conto che io con Pietro, ho un rapporto molto sereno, anzi soddisfacente. Per me è normale, ma secondo lui, tra i due, la mia preferenza sarebbe palese. Si sbaglia. La parola “preferenza” non la uso, per via di quel pre davanti che mi ricorda troppo tutti gli altri termini che iniziano allo stesso modo: pregiudizio, precisare, previsione, pretendere…

Partenze. Pazienze. Gli aeroporti mi piacciono da morire. Diego posteggia nella zona verde, quella dei saluti veloci. Degli ultimi baci, o dei primi. Scende e tira fuori dal baule il mio bagaglio: una valigia enorme, rosa, il mio armadio portatile. Poi mi guarda, si avvicina, mi bacia. Io ho osservato tutti i suoi movimenti, come se lo vedessi da fuori, come se non fossi stata lì. Ma al bacio rispondo con gioia.
«Ti amo» dice.
«Anche io.»
«I nostri ultimi dieci minuti insieme… Vuoi che passi anche al ritorno?»
«No, ma va, figurati, viene mio fratello.»
Diego finge una faccia sospettosa, ma si immobilizza davvero, per un attimo.
«È una scusa per dirmi che verrà il tuo amante?»
Rido. Sì. Per questo fa ridere. L’amante dell’amante, per stare alle categorie di Diego, ma io non etichetto. I miei fratelli sono gli unici a saperlo. Certo, mi conoscono da sempre, mi vogliono bene. Forse sono le uniche persone al mondo che mi capiscono veramente. Quando viaggio, per andare a trovare Carlos, si ripresenta sempre il solito problema del chi ti porta e chi ti viene a prendere ecc. Con tre uomini che si propongono è sempre difficile scegliere. Fosse per me non sceglierei, li vorrei tutti. Almeno là, dall’altra parte delle montagne, da quando Sofia è partita per l’Africa, c’è solo Carlos.
«Dài tesoro vai, che sennò paghi.»
Mi dà un altro bacio, sale in auto, clacson, saluto, sorriso, bacio soffiato e via. Non ho mai paura di perderli, i miei amori. Non ho mai paura di lasciarli andare, che mi scoprano, che mi lascino. Sono tranquilla. Perché proprio quando mi allontano da loro so che i miei sentimenti sono veri, verso tutti, che nessuno può dirmi come comportarmi al meglio, impormi una scelta, farmi sentire in colpa. Non mento mai, o comunque lo faccio molto poco, e soltanto per le cose pratiche. Tengo solo nascosta la mia capacità di saper amare più persone contemporaneamente. E mi sento felice per questo, fortunata. Sono gli altri a essere limitati. Per questo mi auguro sempre che Pietro, Diego, Carlos, Sofia, Luca amino qualcun altro oltre a me. Sarebbe triste altrimenti. Sofia per esempio, lei è come me.

Sono ancora nell’area kiss and fly, con il mio bagaglio rosa e il cellulare in mano e un sorriso implicito, incondizionato, come un riflesso.
Da lontano puoi osservare tutto insieme, ogni persona, ogni avvenimento, ogni sentimento, come parte di un’unità. Allontanarsene è come morire. Niente ha più importanza e tutto diventa importante. E in fondo mi sembra che siamo già tutti abbastanza morti, tutti abbastanza dispersi e incorporei. Non credo in effetti che la morte sia molto diversa dalla vita che viviamo, secondo me è solo un’esistenza parallela, anzi di più, perché da quella parte siamo tutti insieme, senza restrizioni e paure e regole… È questo ciò che spaventa tanto i vivi della morte: essere liberi incondizionatamente.
Mi sembra di avere mia sorella, che mi parla nella testa, vorrei che fosse qui. Le mando un cuoricino su WhatsApp, tanto lo so che tempo cinque minuti me ne manda uno più grande.
Mi guardo intorno. C’è un ragazzo con la coda e gli auricolari bianchi e sottili nelle orecchie. Canticchia. Lo faccio anche io. Quest’estate mi piace Calcutta, la sua voce lamentosa che urla di un cuore che va a mille, di call center, di notti al pesto. Tutti si baciano intorno a me. Kiss and fly, che hanno tradotto in italiano con saluta e vai, ma non è la stessa cosa. Ci sono quattro uomini che si abbracciano incrociandosi, e poi pullmini che fanno scendere famiglie intere con intere valigie, ragazze con finti veli da sposa e peni fuxia stampati sulle magliette tutte uguali, e bambini con peluches in mano, che si dimenticano di avere dei genitori preoccupati di perderli, che gli aeroporti sono posti molto pericolosi e confusionari, persone che vanno in vacanza, ma sempre con l’ansia degli orari, delle borse che non arrivano. Ho visto persone piangere di fronte a quella pedana mobile vuota. Valigia perduta, e chissà quante cose con quella: ricordi che solo in quel momento si scoprono fondamentali. E gli aerei cadono, anche. E tutti partono con la speranza di non precipitare. Almeno all’andata, così si fa la vacanza e poi si può anche morire. C’è una donna che ha uno sguardo tristissimo, accanto a me, ha appena salutato il suo compagno. O chiunque quell’uomo fosse. Si sono lasciati lì, nella zona atemporale del saluta e vola. Bacia e vai. Lascia e via. Lontano. Vorrei dirle che da lontano è tutto più bello, ma non lo faccio.
Vibra il cellulare, più di una volta. Carlos che non vede l’ora di vedermi, il cuore di mia sorella e mio fratello che mi chiede se alla fine, ci sono arrivata davvero in aeroporto. Sì, e forse dovrei entrare. Luca mi chiama. «Tutto bene? Arrivata?»
No, non sono arrivata da nessuna parte, ma sono lontano. Saluto e vado. Già mentalmente su quell’aereo, in mezzo alle nuvole, vicino a un cielo che è solo bianco, vuoto, senza occhi. Che non fa preferenze.

 

Sarah Brown
Maurice, non piangere, non sono qui sotto il pino.
L’aria profumata della primavera bisbiglia nell’erba dolce,
le stelle scintillano, la civetta chiama,
ma tu ti affliggi, e la mia anima si estasia
nel nirvana beato della luce eterna!
Va dal cuore buono che è mio marito,
che medita su ciò che lui chiama la nostra colpa d’amore: –
digli che il mio amore per te, e così il mio amore per lui,
hanno foggiato il mio destino – che attraverso la carne,
raggiunsi lo spirito e attraverso lo spirito, pace.
Non ci sono matrimoni in cielo,
ma c’è l’amore.

 

Tu l’hai detto, la storia d’amore tra Ted Hughes e Sylvia Plath

(di Monica Frigerio)

Tu l’hai detto, sesto romanzo dell’autrice olandese Connie Palmen ed edito in Italia da Iperborea (2018), riporta alla ribalta una delle storie d’amore più discusse, straziante e coinvolgente, del Novecento letterario: quella tra il poeta inglese Ted Hughes e la poetessa americana Sylvia Plath.

L’intento è quello di dare voce anche alla versione della storia di Hughes, che dopo la morte della consorte per suicidio nel febbraio del 1963, all’età di soli trent’anni, fu spesso tacciato di essere il mostro e l’assassino colpevole dell’accaduto. Il poeta aveva infatti iniziato nel ’62 una relazione con un’altra donna, la bellissima Assia Wevill, amica di famiglia, evento che, senza bisogno di dirlo, sconvolse i nervi già poco stabili della Plath e trovò testimonianza in alcune delle poesie che compongono la raccolta Ariel, pubblicata postuma nel 1965.

Riguardo questa coppia è stato detto tanto, il pregio di questo libro è saperne parlare tramite un punto di vista assolutamente inedito. Si tratta infatti di un unico, lungo monologo recitato da Ted Hughes, il quale negli anni non fece molto per volere dissipare pettegolezzi e insinuazioni fatti sul conto dei due. Mentre il mondo eleggeva Sylvia Plath a eroina e martire femminista, la voce di Hughes si fece sentire poco, mantenendo egli stesso un basso profilo. Questo libro è il tentativo di restituire equilibrio a una storia spesso distorta da chi poté vederla solo dal di fuori o giudicarla a posteriori. E uno sforzo di toglierlo dall’ombra in cui la morte della sposa l’aveva cacciato, dando il giusto peso anche al suo lavoro, alla sua poesia, al suo amore spesso impotente.

I fatti, non c’è niente di più ostinato dei fatti. E i fatti ci dicono che dopo neanche un anno dalla scoperta da parte della Plath della relazione extra-coniugale del marito e della conseguente separazione dei due, lei decise di porre fine alla sua vita con la morte più dolce che potesse immaginare, quella con il gas. Una mattina presto di un gelido inverno, dopo avere lasciato ai due figli piccoli un bicchiere di latte nella loro stanza chiusa a chiave. Qui però si racconta anche altro, viene ripercorsa la loro relazione fin dagli albori, quando dal primo incontro tra i due, nel 1956, scaturì un amore folle e intenso l’uno per l’altra che li portò a sposarsi di nascosto di lì a poco, si parla del primo tentativo di suicidio della Plath quando era poco più che ragazzina, si parla della passione incontenibile tra loro due non appena conosciuti, delle loro lotte poetiche, delle lotte della mente della Plath alla ricerca della propria Voce e del proprio padre scomparso, si parla dei suoi malumori, della sua energia, della sua femminilità nella quale si alternavano aspetti materni e violenti insieme, di quanto era difficile a volte starle accanto.

Un monologo così ben costruito che spesso ci si dimentica del fatto che non sia stato davvero Ted Hughes a scrivere queste parole, ma qualcun altro, grazie a uno studio fitto e certosino di documenti, diari dei due, delle loro poesie. In particolare la raccolta Birthday Letters, pubblicata nel 1988 poco prima della morte di Hughes e che rappresenta uno dei suoi pochi tentativi di dare davvero risposta al suicidio della Plath. L’unico suo esempio di poesia confessionale per un poeta che ne era sempre rimasto alla larga, al contrario della sua sposa. La sua sposa, come sempre definisce Sylvia Plath in tutto il libro, senza mai chiamarla per nome, come se quest’ultimo fosse già stato usato e abusato troppe volte. O forse per tornare a mettere in primo piano quel grande legame che li univa, perché lei dall’inizio alla fine sarà sempre la sua sposa, nonostante tutto.

Un libro ben scritto, coinvolgente e intenso, proprio come fu la storia d’amore tra i due, due persone che “sottomesse ad abissali anormalità psichiche” non furono capaci di medietà né nella felicità, né nel dolore.

Citazioni dal libro:

“Naturalmente mi rendevo conto anch’io che gli attacchi d’ansia, le guerre silenziose e le crisi di pianto – benché prendessi sul serio la ferita da cui scaturivano ­– erano manipolazioni della mia mente, ma rimasi troppo a lungo attaccato alla meravigliosa idea che lei non potesse fare a meno di me nemmeno per un istante, perché per lei ero troppo importante”

“Il giorno di Venerdì Santo era scesa in cucina dove io stavo dando a mia figlia una ciotola di pappa d’avena. Senza dire una parola, con un enigmatico sorriso, lasciò una poesia davanti a me, prese Nicholas dalla culla e uscì di casa con lui. Dopo aver messo a letto Frieda per il pisolino pomeridiano, lessi Olmo e ricordo che mi si raggrinzì la pelle e mi si rizzarono i capelli in testa, che la lessi e rilessi come se nel farlo potessi cambiarne il significato, placare la tempesta scatenata, smorzare il fragore, ma lì dentro c’era quel che c’era, e lo presi per un addio annunciato. Aveva liberato il suo io poetico, stava nel solco delle sue vecchie mancanze, e conduceva una battaglia solitaria con la Morte”

Omaggio a un poeta

 (di Monica Frigerio)

Spontaneo e intenso, drammatico e spaventoso. Tutti aggettivi che potrebbero descrivere la figura di Boris Ryzhy, poeta molto conosciuto in Russia e poco tradotto in Italia che il 7 maggio del 2001, nel suo ventisettesimo anno di vita, decise di suicidarsi impiccandosi al balcone di casa, lasciandoci questi ultimi versi: «Io ho vissuto qui. Esercitando delle libertà alla morte, all’autunno e alle lacrime. Vi ho amati tutti. E sul serio».

Qui cioè Sverdlovsk (Ekaterinburg dal 1991), dove Ryzhy studiò e crebbe e sviluppò il suo talento poetico, la sua incredibile emotività ed empatia verso le persone che popolavano questo microcosmo nel cuore degli Urali.

La Russia negli anni Settanta e Ottanta del Novecento stava attraversando un momento di cui possiamo leggere in qualsiasi libro di storia con la esse maiuscola. Ryzhy ci parla di un’altra storia, di un altro mondo, che da descrivere, se vogliamo, è molto più complesso del primo tipo di storia, impraticabile se non hai un dono speciale e una relazione privilegiata con la parola.

Quello che maggiormente colpisce – mi colpisce – nel leggere i suoi versi è l’immediatezza che restituiscono e il senso di necessità che li ha creati. Ryzhy mi dà l’impressione di una persona che, sebbene si fosse laureata alla facoltà di Geofisica e Geoecologia dell’Accademia mineraria degli Urali e avesse perseguito con successo quella carriera nei pochi anni che rimase sulla terra, non poteva fare a meno di essere un poeta perché contenere tutta quella sensibilità dentro, non darle una via d’uscita, gli sarebbe stato semplicemente impossibile.

Cresciuto in un ambiente fedele agli ideali sovietici, pronto a vedere maturare i frutti di una guerra fredda (ma bollente) al capitalismo, ad avvalorare quanto promesso nella perestroika, ci racconta di come tutto lasciò spazio invece solo a un futuro incerto e poco seducente, di come molti dei ragazzi con cui crebbe si lasciarono ingoiare dalle maglie della malavita per avere qualche entrata sicura e possibilità di sopravvivenza.

Ryzhy iniziò a scrivere poesie quando aveva quattordici anni e andò avanti a vivere, fisicamente e metaforicamente, finché fu in grado di cantare, di parlare, di mettere in versi il mondo che lo circondava. Finché lo “scalpiccio operoso delle labbra” (nelle parole di Mandel’štam), cioè il processo di scrittura spontanea – qualcosa di simile all’ispirazione ­– non si guastò.

L’esistenza poetica di Boris Ryzhy è stata determinata non da quanto visse, ma dalla quantità (1300 versi) e dalla qualità dell’energia poetica e linguistica presente nei suoi componimenti.

Questa esuberanza di sensibilità divenne forse per lui, negli anni, un peso insostenibile, ma in fondo la definizione di “poeta tragico” non è altro che una tautologia, il poeta stesso è tragedia. Tragedia intesa come sintesi di perniciose antinomie quali uomo-oggetto, vita quotidiana e un’esistenza più alta, la lingua e i suoi usi più prosaici, musica e silenzio, luce e ombre… tutti motivi che ricorrono a più riprese nei suoi versi. In particolare due aggettivi, due colori: il bianco e il blu, sembrano ritornare ossessivamente. Il blu gelido dei suoi occhi legato a un’idea di durezza, di irrigidimento nei confronti dell’esistenza e la purezza del bianco. La purezza dei sentimenti, dell’affetto in cui nonostante la tragicità del tutto, o meglio, proprio in virtù di questa, Ryzhy si lascia annegare. Sembra che le sue parole siano state messe su carta allo scopo preciso di convincere se stesso, in primis, che in mezzo al buio ci sia almeno qualche porto sicuro che possa dissipare la caducità che è in noi.

Ryzhy, come tutti i poeti autentici, rimase sempre dubbioso riguardo l’autenticità della sua poesia, se non addirittura del proprio talento nonostante venisse riconosciuto in importanti pubblicazioni, e questa fu una cosa che lo tormentò fino alla fine dei suoi giorni. Ma – come spiegato da Kazarin, poeta e critico russo contemporaneo – la questione dell’autenticità poetica rimane un nodo insolubile, proprio perché i poeti continuamente vi rimangono impantanati e il loro destino è quello di vivere in uno stato di perenne terrore e insieme perenne gioia, gioia febbricitante, nei confronti di quella cosa ineffabile che viene definita espressione poetica.

L’unica via d’uscita è nel suono, nell’intonazione, nella musica che come disperato grido Ryzhy nomina spessissimo nella sua poesia. Una musica che risuona dentro e fuori di noi, quasi impercettibile nonostante rappresenti tutto ciò che siamo, che è noi, come noi: insignificante, geniale e mortale.

Questa semplice vita privata si abbraccia a una musica eterna. In particolare, anzi, in generale questo gioco si è rivelato essere serio. Io e te moriremo insieme: mi aggrappo a un semplice motivo

 

Sopra case, case e case

Stanno sospese nuvole blu –

E lì resteranno con noi

Nei secoli, nei secoli, nei secoli.

 

Solo vapore, solo bianco nel blu

Sopra mucchi di lapidi…

Non scompariremo mai, da nessuna parte

Siamo più resistenti e più morbidi del granito.

 

Che si frantumino pure i nostri gusci,

geometria della vita terrena –

senti, baciami sulle labbra,

dammi la mano, stai con me.

 

E quando ci lasceremo

Abbandonati sulle tue ali

Solo vapore, solo bianco nell’azzurro

Blu e bianco nell’azz…

 

*

 

7 NOVEMBRE

…Nevosa e fragile sino al dolore

Questa mattina, il cuore sensibile

Si mette in guardia, coglie i suoni.

 

Una distesa bianca oltre la finestra –

Mi ci fiondavo da ragazzo

Dentro al mio cappotto indossato in fretta.

 

Con la mia sciarpa azzurra mangiata dalle tarme

Ho gonfiato palloncini colorati.

… risuonavano slogan e discorsi…

 

Dove sono le vostre canzoni, le bandiere rosse

E voi, ubriachi, bellissimi,

che mi portate sulle spalle?

 

*

 

Che cosa tacciono le pietre grigie?

Perché è sorda al silenzio

La terra? La loro pesantezza mi è così familiare.

E per quanto riguarda il verso –

Nel verso la cosa più importante è il silenzio, –

Se le rime sono giuste, non sono giuste.

Cos’è la parola? Solo l’attesa

Di una quiete eloquente.

Il verso si differenzia dalla prosa

Non solo perché è piccolo e solo.

Io, la mattina presto, dalla pietra

Asciugo le lacrime con una mano calda.

 

*

 

È passata la sbronza, ma il mondo non è cambiato.

È iniziata la musica, sono finite le parole.

Un motivo con un altro si amalgama

(strofa davvero ambiziosa).

 

… Ma forse le parole non servono affatto

per dei tali – che tali? – cretini…

 

Sotto nuvole blu e azzurre

Mi alzo in piedi e allargo stupidamente le braccia

Ricolmo di musica.

 

(Le versioni dal russo sono mie; la citazione di Kazarin nel testo si riferisce a un’introduzione ad alcuni versi di Ryzhy pubblicati sulla rivista Урал 2001, 8)

 

 

Sul senso della storia

(di Andrea Lionetti)

Di fronte alla battaglia di Gaugamela, all’incoronazione di Carlo Magno, alla redazione della Bill of Rights, all’atomica su Hiroshima e a migliaia di altri fatti nessuno avrebbe difficoltà a riconoscervi la storia. Ma alla domanda “che cos’è la storia?”, come spesso accade davanti a quesiti dello stesso tipo, inerenti a parole e concetti che abitualmente usiamo, non c’è studente che non dimostri almeno un minimo di titubanza prima di azzardare una risposta, qualunque essa sia.

Eppure esiste un’altra certezza da cui partire: la storia (e la storiografia) è nata in Grecia, nella seconda metà del V secolo, quando un greco di Alicarnasso decise che “le imprese meravigliose compiute sia dai Greci sia dai barbari” non rimanessero prive di fama.
Che la storia sia un’esposizione di fatti conseguente a una ricerca condotta con una ben precisa serie di metodi è ormai assodato da secoli. Ne era persuaso Erodoto, non da meno furono i suoi successori, in particolare Tucidide, il primo autore della storiografia occidentale a interessarsi di fatti a lui contemporanei, la guerra del Peloponneso.
Basterebbe questa definizione, per quanto esaustiva, a colmare la vastità del problema?
Si provi a rispondere con un’altra domanda: perché questa esigenza di raccontare? Erodoto tace a riguardo, probabilmente non aveva bisogno di pronunciarsi su un argomento ormai chiaro e assimilato da una riflessione secolare posta alle sue spalle. Ciò che gli importava era mettere sul piatto l’obiettivo del suo lavoro (le imprese dei Greci e dei barbari) e i metodi usati nel suo laboratorio di storico.

Nell’incipit delle sue Storie c’è una parola che sfugge alla nostra attenzione, perché piuttosto ovvia ai nostri occhi, e spesso legata a contesti culturali avvilenti: “fama”.

La fama, o la gloria, era per i Greci una cosa seria: nell’Iliade è la forza che tutto muove, nell’epitafio di Tucidide che lo storico attribuisce a Pericle è la ricompensa per aver servito Atene nel migliore dei modi, perdendo la vita, o sacrificandola in battaglia, per meglio dire.
È la morte che la gloria tenta di sconfiggere, senza riuscirci dice Achille ormai cadavere, nell’Ade, in uno dei passi più commoventi dell’Odissea. Nella celebre orazione di Pericle, tutta protesa verso un’immagine idealizzata della democrazia ateniese, l’illusione riprende vita, fino a quando la polis uscirà devastata dallo scontro con Sparta, e umiliata dall’esperienza tirannica dei Trenta.
Ma cosa ha a che fare tutto questo con le ragioni dietro alla ricerca e alla narrazione storica?

La scelta di citare Omero e poi uno storico, Tucidide, non è casuale.

La storia e la poesia hanno la stessa matrice, entrambe sono figlie della presa di coscienza della nostra condizione, della precarietà dell’esistenza che ci ha condannato alla memoria. Come scrisse il Mazzarino: “il pensiero storico dei Greci si connette anche con la loro poesia, in un certo senso è nato come poesia”.

Le imprese su cui si tace muoiono, e questo valeva sia per Omero che per Erodoto. Vogliamo ricordare. Dobbiamo ricordare, perché non c’è scelta. La memoria è lo strumento che poesia epica e storiografia hanno usato fin dal principio per andare contro il tempo, per contrastare la sua opera di corrosione. Lo scorrere del tempo, le trasformazioni che esso implica (il “divenire” dei filosofi), fanno in modo che le cose nascano e tramontino, per sempre. La straziante consapevolezza che tutto ciò implica è per l’Uomo fonte di angoscia e di forza. Non essere indispensabile ma voler vivere, e la ricerca del senso diventa così menzogna o del tutto inutile, a seconda delle prese di posizioni che si tendono a occupare.
Settantamila anni dopo le prime manifestazioni del ricordare, i riti funebri europei del Neanderthal, ingiustamente discriminato per il suo aspetto, capace in realtà di complessi comportamenti simbolici, guardando negli occhi “la catastrophe irrémédiable” ­ – come l’ha definita il filosofo francese Edgar Morin – abbiamo elaborato un nuovo sistema fondato sulla memoria: la narrazione, prima nella forma dell’esametro epico, poi in quella della prosa.
La storia non è quindi un insieme di date e di fatti da memorizzare, non solo quello, almeno, ma è il frutto di un’esigenza profonda, tanto nel tempo quanto nella dimensione umana. Spesso diciamo (e ne siamo convinti) che Dio è morto, che nulla ha più senso, eppure ci ritroviamo sempre qui, alla ricerca di quel senso o di tutto ciò che ne provi l’assenza, secondo la sensibilità di ciascuno. Forse venire al mondo, venire dal nulla, è un atto del tutto casuale e privo di significato, ma una volta qui non ci resta altro da fare che ricercare, “historìai”, appunto.

(L)Ode alla metropolitana

(di Isabella Gavazzi)

Sotto i nostri piedi
Passi silenziosa,
attraversi la citta
portando pendolari,
bambini,
vecchi,
giovani,
turisti,
disoccupati

Insomma:
Porti tutti quelli che entrano.

Sali
Scendi
Spostati
Siediti
Alzati
Prego
Mi scusi
Si figuri
Insulti

Rumori
Tanti rumori
A volte troppi rumori
Metti le cuffie
Le cuffie non bastano
Rispondi al telefono
Urli
Sguardi perplessi dei vicini
Cade la linea
Speriamo non si sia fatta male.

La gente
Una marea di gente
Ci si potrebbe fare uno studio sociologico.
Personaggi caratteristici:
anziana a cui devi lasciare il posto
anziana che si offende se le lasci il posto
Anziano bilioso
Anziano cordiale che vuole parlare con qualcuno che respiri
Madre con quattro figli che piangono
Turisti che sbagliano la fermata
Fattorini con bici annessa
Coppia di innamorati
Coppia di innamorati spudorati
Signora di mezza età che inveisce contro i sopra riportati
Gruppo di giovani ubriachi
Tu che leggi ora
Mendicanti.

Questi ultimi divisi in:
con cane
senza cane
senza arti
con bambini
con strumenti.

Il tempo passato su di te pare infinito:
Devi fare due fermate
E ti trovi nel nulla,
fermo,
senza aria
e pure in ritardo.

Sei convinto che sia il mezzo più veloce
Ma capita uno sciopero.
Così scopri che Missori e Duomo
Distano meno di 200 metri.

Sempre a criticarti:
sei sporca
sei piccola
sei in ritardo
sei calda
sei fredda
ma poi tutti ti usano.

Grazie metro
Grazie per aver temprato i miei timpani
Grazie per aver rinforzato il mio sistema immunitario
Grazie per avermi reso paziente
Grazie per aver ispirato questo breve componimento,
che di sicuro non ti rende il giusto merito.

Grazie Roma…
Pardon, Grazie metro.

(L)Ode alla metropolitana.

Bónus, poesie da supermercato.

(di Monica Frigerio)

I’m all lost in the supermarket cantavano i Clash alla fine degli anni ’70. Chissà cosa direbbero adesso se, per esempio, un sabato pomeriggio si trovassero nella ridente cittadina di Arese a passeggiare per i corridoi del centro commerciale più grande d’Europa…

Purtroppo Joe Strummer non è più in circolazione per raccontarcelo, però a farsi portavoce dell’alienazione da centro commerciale ci ha pensato Andri Snær Magnason, poeta islandese che in realtà in vita sua ha scritto un po’ di tutto, da drammi a romanzi e canzoni.

Nel 1996 ha pubblicato per la prima volta la raccolta di poesie qui presentata, che in Italia è comparsa solo quest’anno per Nottetempo con un titolo a prova di marketing: Bónus (con il 33% di poesie in più).

Bónus è la catena di centri commerciali più famosa in Islanda, ci piacerebbe pensare che in quel paese non ci siano altro che prati e pecore, qualche casetta qua e là, al più dei geyser a ravvivare ogni tanto l’atmosfera, e invece no, i supermercati sono arrivati anche lì e Andri Snær Magnason ha ben pensato di dedicargli una raccolta di poesie che nella loro semplicità e immediatezza trattano in maniera del tutto originale temi legati alla nostra contemporaneità.

L’Islanda è un paese di forti tradizioni culturali, ormai si è scritto poesia su tutto e su tutti, ci dice l’autore nella Prefazione, tant’è che persino la più sperduta delle fattorie è diventata almeno una volta oggetto di un poema. Ancora niente però sui supermercati e le storie che si dipanano tra i loro corridoi, niente sui loro prodotti disposti sugli scaffali come fossimo nella Commedia dantesca, il Paradiso nel reparto frutta e verdura, l’Inferno là dove c’è la macelleria e il Purgatorio tra i prodotti per l’igiene e la pulizia.

Perché, continua l’autore, esistono i succhi Bónus, la coca Bónus, il prosciutto Bónus e così via e non esiste anche una poesia Bónus?

Domanda legittima in questi tempi di capitalismo sfrenato. Ed ecco confezionataci una poesia realista capitalista, per l’appunto, che ci infila nel carrello il meglio dei vizi capitali: gola, lussuria e un pizzico di avarizia.

Ciò che colpisce di più delle poesie di questa raccolta è il fatto che siano poesie a’rebours, che vanno nella direzione opposta di ciò che normalmente si potrebbe considerare poetico, addirittura una vera celebrazione del mercato. Siamo abituati a poeti che si schierano contro, Magnason decide di farne parte, di vendersi. Lui non vive nel glamour di Parigi o New York, non può essere uno-di-quei-poeti, vive in Islanda, ai margini di un parcheggio da cui si intravede l’insegna Bónus, l’unica cosa che può fare è cantare ciò che lo circonda, reclamare la propria terra.

È chiara la lettura ironica di qualcosa così posto, ma il pregio dell’arte è rivoltare le cose più e più volte e, si spera, far sorgere qualche domanda, dunque il sottostrato ironico è indubbio, ma si vuole anche ragionare sulla scontata, a volte supponente, superiorità dell’uomo d’arte rispetto a quello comune. Magnason va dal proprietario della catena Bónus e questo signore, tal mister Jóhannesson, gli fa firmare lo stesso contratto che sottopone ai produttori di succhi di frutta. La poesia diventa anche un momento per interrogarsi, per chiedersi se io, produttore di versi, sono in fondo così diverso o migliore di un produttore di succhi di frutta?

Altra riflessione è sul cambiamento negli anni della relazione tra uomo e natura e come i supermercati siano diventati ormai il medium di tale rapporto. Un tempo la natura forniva all’uomo tutto il necessario nutrimento, gli era indispensabile alla sopravvivenza, ora si trova tutto comodamente tra gli scaffali di un supermercato e ciò fa cadere in fondo ogni ragione davvero sensata dell’uomo di relazionarsi con essa. Giriamo per le campagne, facciamo su e giù da una montagna solo per sport, per intrattenimento, che probabilmente se ci vedessero i nostri bis-bisnonni riderebbero di noi.

L’uomo è ciò che mangia, diceva Feurbach, ai tempi dell’homo consumus Magnason l’ha messa in questo modo:

Nonno era al 70% acqua

Nonno era al 70% il ruscello

Che scorreva dai monti

Accanto a casa

[…]

Io sono al 70% acqua

Tutt’al pù al 17% San Pellegrino

Cui sono mescolati della Coca zero e del caffè

[…]

Si è ciò che si mangia

Sono un mondo in miniatura.

Sono un Bónus in miniatura.