Gatti molto speciali

(di Isabella Gavazzi)

Gatti molto speciali è un libro di Doris Lessing, premio Nobel per la letteratura nel 2007. L’autrice, vissuta in una prima infanzia in Iran, per poi spostarsi con la famiglia nell’allora Rhodesia – ora Zimbabwe – e successivamente a Londra, racconta il rapporto con i gatti che hanno costellato la sua vita, ricordando soprattutto quelli che più le sono rimasti impressi per atteggiamenti e avventure.

Non si tratta di un libro in cui gli animali vengono descritti e sono protagonisti della storia, anzi, in realtà non ha una vera e propria trama: come un diario, essi vengono ricordati dalla Lessing, in un testo-confessione di tutto ciò che nella sua vita ha comportato la parola “gatto”.

È un libro sicuramente diverso da ciò che ci si aspetta mentre ci si accinge ad aprirlo, perché rivela, già dalle sue prime pagine, una crudezza che difficilmente si potrebbe abbinare al tema.
L’autrice, infatti, rivive la quantità di gatti che ha posseduto con la famiglia nella tenuta di campagna in Africa, in cui questi, non sterilizzati e lasciati quasi allo stato selvatico, erano molto diversi dalla nostra immagine di felino domestico.
Questo pullulare di animali era controllato, dalla madre della protagonista – descritta in poche frasi come una donna decisa e austera – attraverso soppressioni di intere cucciolate . Si è riportati, quindi, in un contesto di vita contadina a noi lontana, in cui il gatto non è altro che un predatore per i topi e che, quando la riproduzione è considerata esagerata, deve essere eliminato. Una visione cruda che rispecchia il passato, ma che la donna vive come se fosse una cosa normale, essendo cresciuta in questo clima. I loro gatti non avevano nomi, non erano particolarmente affettuosi e se sparivano era normale farsene una ragione e continuare la vita di tutti i giorni.

Il cambiamento avviene quando si trasferisce nei sobborghi di Londra, dove non mancano i gatti: questi però sono uno o al massimo due, e l’attenzione data loro è completamente diversa, così come il rapporto con gli umani. Sono animali ben tenuti, curati e portati spesso dal veterinario, con i quali la Lessing parla, dialoga e li umanizza.

Sono compagni di casa e di vita che lei descrive come se fossero a tutti gli effetti delle persone: i suoi amici a quattro zampe sono gelosi, educati, vigliacchi come se fossero umani, gli stessi che non compaiono mai direttamente nel libro.

Gatti, solo gatti o al massimo persone che hanno aiutato la vita del gatto, quindi veterinari, il tutto non in toni sdolcinati e mielosi tipici di chi si rapporta con un animale, anzi.
La sua è un’analisi che muove da basi quasi antropologiche, in modo scientifico e analitico. Ogni azione del gatto viene da lei spiegata con fare meticoloso e attento, senza mai lasciarsi andare a sentimenti di tenerezza: è una spettatrice della vita dei suoi amici gatti fin dalla più tenera età e riesce ad interpretare le esigenze e i bisogni dei gatti.

“Durante il giorno sedeva sul marciapiedi, guardando il traffico, oppure entrava e usciva dai negozi: un vecchio gatto di città, un gatto gentile, un gatto senza pretese.”

Solo nel finale si può trovare un lato melanconico e affettuoso, rivolto a un gatto di nome Rufus, trovatello malconcio accolto nella sua casa, curato e accudito per quattro anni:

“Una volta, mentre dormiva, io lo accarezzai per svegliarlo e fargli prendere la medicina, lui emerse dal sonno con quell’affettuoso gorgoglio di saluto, carico di affetto e di fiducia, che i gatti riserbano a coloro che amano, ai gatti che amano. Ma quando si accorse che ero io tornò a essere il se stesso di sempre, educato e pieno di gratitudine, e io mi accorsi che quella era stata la sola volta in cui lo avevo sentito emettere quel verso particolare. È il verso con cui le mamme salutano i loro gattini, e i gattini salutano le loro mamme. Forse aveva sognato di quando era cucciolo? O forse aveva addirittura sognato quegli umani che lo avevano posseduto da gattino o giovane gatto, ma poi se n’erano andati e lo avevano abbandonato. Sentito così, alla fine, quel verso turbava e faceva male, perché non lo aveva mai fatto nemmeno quando faceva le fusa come un motorino, per dimostrare la sua gratitudine. […] La fiducia, l’amore che aveva riposto in qualcuno, una volta erano stati così profondamente traditi, che quel gatto non aveva potuto consentirsi mai più di voler bene di nuovo”.

Un libro intero sull’analisi del gatto in tutte le sue sfaccettature comportamentali, in cui l’autrice non è altro che una spettatrice al pari del lettore: le parti si invertono e l’uomo diventa osservatore silenzioso di un animale con sentimenti che ricordano tutti noi.

Sul senso della storia

(di Andrea Lionetti)

Di fronte alla battaglia di Gaugamela, all’incoronazione di Carlo Magno, alla redazione della Bill of Rights, all’atomica su Hiroshima e a migliaia di altri fatti nessuno avrebbe difficoltà a riconoscervi la storia. Ma alla domanda “che cos’è la storia?”, come spesso accade davanti a quesiti dello stesso tipo, inerenti a parole e concetti che abitualmente usiamo, non c’è studente che non dimostri almeno un minimo di titubanza prima di azzardare una risposta, qualunque essa sia.

Eppure esiste un’altra certezza da cui partire: la storia (e la storiografia) è nata in Grecia, nella seconda metà del V secolo, quando un greco di Alicarnasso decise che “le imprese meravigliose compiute sia dai Greci sia dai barbari” non rimanessero prive di fama.
Che la storia sia un’esposizione di fatti conseguente a una ricerca condotta con una ben precisa serie di metodi è ormai assodato da secoli. Ne era persuaso Erodoto, non da meno furono i suoi successori, in particolare Tucidide, il primo autore della storiografia occidentale a interessarsi di fatti a lui contemporanei, la guerra del Peloponneso.
Basterebbe questa definizione, per quanto esaustiva, a colmare la vastità del problema?
Si provi a rispondere con un’altra domanda: perché questa esigenza di raccontare? Erodoto tace a riguardo, probabilmente non aveva bisogno di pronunciarsi su un argomento ormai chiaro e assimilato da una riflessione secolare posta alle sue spalle. Ciò che gli importava era mettere sul piatto l’obiettivo del suo lavoro (le imprese dei Greci e dei barbari) e i metodi usati nel suo laboratorio di storico.

Nell’incipit delle sue Storie c’è una parola che sfugge alla nostra attenzione, perché piuttosto ovvia ai nostri occhi, e spesso legata a contesti culturali avvilenti: “fama”.

La fama, o la gloria, era per i Greci una cosa seria: nell’Iliade è la forza che tutto muove, nell’epitafio di Tucidide che lo storico attribuisce a Pericle è la ricompensa per aver servito Atene nel migliore dei modi, perdendo la vita, o sacrificandola in battaglia, per meglio dire.
È la morte che la gloria tenta di sconfiggere, senza riuscirci dice Achille ormai cadavere, nell’Ade, in uno dei passi più commoventi dell’Odissea. Nella celebre orazione di Pericle, tutta protesa verso un’immagine idealizzata della democrazia ateniese, l’illusione riprende vita, fino a quando la polis uscirà devastata dallo scontro con Sparta, e umiliata dall’esperienza tirannica dei Trenta.
Ma cosa ha a che fare tutto questo con le ragioni dietro alla ricerca e alla narrazione storica?

La scelta di citare Omero e poi uno storico, Tucidide, non è casuale.

La storia e la poesia hanno la stessa matrice, entrambe sono figlie della presa di coscienza della nostra condizione, della precarietà dell’esistenza che ci ha condannato alla memoria. Come scrisse il Mazzarino: “il pensiero storico dei Greci si connette anche con la loro poesia, in un certo senso è nato come poesia”.

Le imprese su cui si tace muoiono, e questo valeva sia per Omero che per Erodoto. Vogliamo ricordare. Dobbiamo ricordare, perché non c’è scelta. La memoria è lo strumento che poesia epica e storiografia hanno usato fin dal principio per andare contro il tempo, per contrastare la sua opera di corrosione. Lo scorrere del tempo, le trasformazioni che esso implica (il “divenire” dei filosofi), fanno in modo che le cose nascano e tramontino, per sempre. La straziante consapevolezza che tutto ciò implica è per l’Uomo fonte di angoscia e di forza. Non essere indispensabile ma voler vivere, e la ricerca del senso diventa così menzogna o del tutto inutile, a seconda delle prese di posizioni che si tendono a occupare.
Settantamila anni dopo le prime manifestazioni del ricordare, i riti funebri europei del Neanderthal, ingiustamente discriminato per il suo aspetto, capace in realtà di complessi comportamenti simbolici, guardando negli occhi “la catastrophe irrémédiable” ­ – come l’ha definita il filosofo francese Edgar Morin – abbiamo elaborato un nuovo sistema fondato sulla memoria: la narrazione, prima nella forma dell’esametro epico, poi in quella della prosa.
La storia non è quindi un insieme di date e di fatti da memorizzare, non solo quello, almeno, ma è il frutto di un’esigenza profonda, tanto nel tempo quanto nella dimensione umana. Spesso diciamo (e ne siamo convinti) che Dio è morto, che nulla ha più senso, eppure ci ritroviamo sempre qui, alla ricerca di quel senso o di tutto ciò che ne provi l’assenza, secondo la sensibilità di ciascuno. Forse venire al mondo, venire dal nulla, è un atto del tutto casuale e privo di significato, ma una volta qui non ci resta altro da fare che ricercare, “historìai”, appunto.

Ben oltre una partita di calcio

Players from the Italian football team are celebrating after scoring 4:3 against Germany in Mexcio City during the 1970 FIFA World Cup. On the right a disappointed Gerd Mueller, Germany.

(di Luciano Sartirana)

Sarò futile… ma ogni 17 giugno mi viene in mente… che tempi. Il 17 giugno 1970, all’Azteca di Città del Messico, 102.444 spettatori stanno per assistere a Italia-Germania Ovest, la semifinale mondiale. In Europa, quando il peruviano Arturo Yamasaki Maldonado dà il fischio d’inizio, è l’una e un quarto di notte; i tedeschi sono favoriti. Invece all’8’ gli azzurri vanno in vantaggio grazie a un tiraccio di Boninsegna da fuori area dopo un guizzo in coppia con Riva. Da quel momento la partita diventa molto tattica, Albertosi è in gran serata e, a differenza della scacchiera inglese superata dai tedeschi ai quarti, quella italiana tiene. Gli ultimi minuti contengono però più elettricità che non tutta la partita prima. Al 90’ un calcio d’angolo manda la palla sulla testa di Seeler che la gira in porta, ma Albertosi toglie la sfera da sotto la traversa. Altro angolo tedesco, è assedio, Held spara in mezzo, Albertosi esce sui piedi di Müller a tre metri dalla porta. Pallone di nuovo alla West-Deutschland, Grabowski aggira tutta la difesa italiana con un cross al centro… dove si trova il difensore Schnellinger, che non si fa certo pregare… pareggio tedesco al 92’, l’acuto del fato in un copione da Nibelungen. L’incredibile è successo. Tra l’altro, oggi è normale che una partita vada oltre il 90’, ma allora non succedeva praticamente mai. Molta gente, in Italia, vede subito nero e se ne va a dormire sconsolata. Partono i supplementari. Al 4’ del primo supplementare Libuda tira un angolo, Seeler la butta verso la porta, Cera e Albertosi pasticciano sulla linea e Müller ci mette il piede omicida. 1-2. Un altro po’ di Italia con il morale sotto le ciabatte va a dormire. Quattro minuti dopo Rivera depone una palla in area su punizione; Patzke la ferma malissimo di petto e la consegna a Burgnich – uno che è entrato nell’area avversaria sì e no tre volte in carriera – che la scarica dritta nella porta di Maier. 2-2. Chi è andato a letto sente le urla di tutta la sua città e torna di corsa davanti al televisore. Come il gol del terzino interista testimonia, nessuno dei ventidue in campo sta più al suo posto. Non c’è più tattica, non ci sono più marcature, nessuno schema… solo i portieri si ricordano chi sono e non se ne vanno in giro. A un minuto dalla fine del primo tempo supplementare, Rivera in mediana lancia Domenghini, che si fa tutto il campo di corsa e consegna la palla a Riva poco fuori area. Una finta da magister, difesa teutonica mesmerizzata, legnata decisa e palla di nuovo in gol. 3-2. Penisola in delirio. Comincia il secondo supplementare. Al 5’ Albertosi alza miracolosamente sulla traversa un’inzuccata di Seeler. Sul calcio d’angolo la palla arriva ancora al satanasso Müller che infila di nuovo gli azzurri. 3-3. Rivera è sulla linea – appunto, nessuno sapeva più dov’era – ma è preso in controtempo e non riesce a fermare la biglia; Albertosi gliene dice di tutti i colori. Passano meno di 60”… Facchetti a centrocampo lancia Boninsegna come ala sinistra, che se la corre via resistendo con rabbia alla carica del suo marcatore Schulz, arriva quasi sul fondo e butta in mezzo. Lì, a fare il centravanti in una difesa tedesca più aperta di una piazza, c’è Rivera… che consegna quel pallone alla storia battendo di nuovo Maier. 4-3. Una partita da infarto. La sceneggiatura scritta da un gibbone in acido. Fotogrammi allucinati di un scoppio di impossibile. Una delle gare più emozionanti dell’intera storia del calcio. Alle quattro di notte strade e piazze italiane si riempiono di auto impazzite, di fiaschi di vino, di baci, di gighe e di pizzica. La Germania, la grande e terribile Germania, che solo 25 anni prima aveva occupato l’Italia seminandola di massacri (in quel momento, qualsiasi italiano con almeno 30 anni ricorda i tremendi anni della guerra per esperienza diretta) è oggi ridotta a niente grazie a undici giovanotti su un campo di calcio d’oltreoceano. E centinaia di migliaia di immigrati italiani in Germania sono alle finestre delle loro claustrofobiche baracche attorno alla Siemens, alla Bosch, alla Volkswagen, uniti da un immenso gesto dell’ombrello verso il Paese che hanno attorno, ostile e sprezzante nei loro confronti.