Champagne

(un racconto di Andrea Lionetti)

Il volume della televisione è a sessanta. In qualunque stanza ci si sposti la voce di Carlo Conti riesce a penetrarne le pareti, propagandosi ovunque. La madre è seduta in cucina, che è anche il salotto, davanti a una tv che per dimensioni si usa solo in cucina.

Guarda il solito programma delle sette.

D’improvviso le sue parole si fanno più alte di quelle del conduttore: “Marco!! Marco! Corri, presto vieni! Vieni qua!”. Il figlio esce dalla camera preoccupato che sia accaduto qualcosa e la raggiunge . La tavola è apparecchiata: nel mezzo una piccola insalatiera e un pezzo di pane, due bicchieri, due tovaglioli. Sui fornelli una padella e due bistecche.

“Ma stai bene?”, chiede lui.

“Guarda! Certo che sto bene, mai stata meglio.”

La donna si agita e con le dita indica lo schermo, poi continua: “Duecentomila euro! Non ne ha sbagliata una e ha scritto mela. È giovane come te, vedi?”

Il figlio non dice una parola. Sta immobile di fronte a lei.

“Ci siamo ci siamo! Guarda, sta per aprire la busta.”

Silenzio. “La parola di questa sera è…” La madre incrocia le dita, chiude gli occhi, l’udito rapito dalla voce di Conti, le piace la voce di Conti, come quella di Scotti, Lippi, Amadeus, e poi non si ricorda più, ha già dimenticato programmi e personaggi, e tutto diventa una specie di cartella da desktop dove ogni cosa si confonde.

La parola è…mela!”.

A quel punto la donna apre gli occhi e scoppia in un applauso che rimbomba tutt’intorno: “Ce l’ha fatta! Ce l’ha fatta! Marco mio! guarda!”. Dal soffitto dello studio precipitano coriandoli arcobaleno, il concorrente quasi piange. È circondato da vallette alte e inarrivabili. 
Il vincitore parla, è il momento dei saluti; allora ci si sente bene e a nessuno frega più niente del lavoro d’ufficio, del Governissimo, dello Spread, dell’Agenzia dell’Entrate, della guerra in Siria, dei processi Berlusconi.
 La bocca è asciutta. Hanno sete. Fanno lo stesso gesto. 
Lui beve champagne, lei alza il bicchiere d’acqua.

“Cazzo mamma!”, esplode il figlio. Lei sussulta. “La carne! Brucia!”

Ben oltre una partita di calcio

Players from the Italian football team are celebrating after scoring 4:3 against Germany in Mexcio City during the 1970 FIFA World Cup. On the right a disappointed Gerd Mueller, Germany.

(di Luciano Sartirana)

Sarò futile… ma ogni 17 giugno mi viene in mente… che tempi. Il 17 giugno 1970, all’Azteca di Città del Messico, 102.444 spettatori stanno per assistere a Italia-Germania Ovest, la semifinale mondiale. In Europa, quando il peruviano Arturo Yamasaki Maldonado dà il fischio d’inizio, è l’una e un quarto di notte; i tedeschi sono favoriti. Invece all’8’ gli azzurri vanno in vantaggio grazie a un tiraccio di Boninsegna da fuori area dopo un guizzo in coppia con Riva. Da quel momento la partita diventa molto tattica, Albertosi è in gran serata e, a differenza della scacchiera inglese superata dai tedeschi ai quarti, quella italiana tiene. Gli ultimi minuti contengono però più elettricità che non tutta la partita prima. Al 90’ un calcio d’angolo manda la palla sulla testa di Seeler che la gira in porta, ma Albertosi toglie la sfera da sotto la traversa. Altro angolo tedesco, è assedio, Held spara in mezzo, Albertosi esce sui piedi di Müller a tre metri dalla porta. Pallone di nuovo alla West-Deutschland, Grabowski aggira tutta la difesa italiana con un cross al centro… dove si trova il difensore Schnellinger, che non si fa certo pregare… pareggio tedesco al 92’, l’acuto del fato in un copione da Nibelungen. L’incredibile è successo. Tra l’altro, oggi è normale che una partita vada oltre il 90’, ma allora non succedeva praticamente mai. Molta gente, in Italia, vede subito nero e se ne va a dormire sconsolata. Partono i supplementari. Al 4’ del primo supplementare Libuda tira un angolo, Seeler la butta verso la porta, Cera e Albertosi pasticciano sulla linea e Müller ci mette il piede omicida. 1-2. Un altro po’ di Italia con il morale sotto le ciabatte va a dormire. Quattro minuti dopo Rivera depone una palla in area su punizione; Patzke la ferma malissimo di petto e la consegna a Burgnich – uno che è entrato nell’area avversaria sì e no tre volte in carriera – che la scarica dritta nella porta di Maier. 2-2. Chi è andato a letto sente le urla di tutta la sua città e torna di corsa davanti al televisore. Come il gol del terzino interista testimonia, nessuno dei ventidue in campo sta più al suo posto. Non c’è più tattica, non ci sono più marcature, nessuno schema… solo i portieri si ricordano chi sono e non se ne vanno in giro. A un minuto dalla fine del primo tempo supplementare, Rivera in mediana lancia Domenghini, che si fa tutto il campo di corsa e consegna la palla a Riva poco fuori area. Una finta da magister, difesa teutonica mesmerizzata, legnata decisa e palla di nuovo in gol. 3-2. Penisola in delirio. Comincia il secondo supplementare. Al 5’ Albertosi alza miracolosamente sulla traversa un’inzuccata di Seeler. Sul calcio d’angolo la palla arriva ancora al satanasso Müller che infila di nuovo gli azzurri. 3-3. Rivera è sulla linea – appunto, nessuno sapeva più dov’era – ma è preso in controtempo e non riesce a fermare la biglia; Albertosi gliene dice di tutti i colori. Passano meno di 60”… Facchetti a centrocampo lancia Boninsegna come ala sinistra, che se la corre via resistendo con rabbia alla carica del suo marcatore Schulz, arriva quasi sul fondo e butta in mezzo. Lì, a fare il centravanti in una difesa tedesca più aperta di una piazza, c’è Rivera… che consegna quel pallone alla storia battendo di nuovo Maier. 4-3. Una partita da infarto. La sceneggiatura scritta da un gibbone in acido. Fotogrammi allucinati di un scoppio di impossibile. Una delle gare più emozionanti dell’intera storia del calcio. Alle quattro di notte strade e piazze italiane si riempiono di auto impazzite, di fiaschi di vino, di baci, di gighe e di pizzica. La Germania, la grande e terribile Germania, che solo 25 anni prima aveva occupato l’Italia seminandola di massacri (in quel momento, qualsiasi italiano con almeno 30 anni ricorda i tremendi anni della guerra per esperienza diretta) è oggi ridotta a niente grazie a undici giovanotti su un campo di calcio d’oltreoceano. E centinaia di migliaia di immigrati italiani in Germania sono alle finestre delle loro claustrofobiche baracche attorno alla Siemens, alla Bosch, alla Volkswagen, uniti da un immenso gesto dell’ombrello verso il Paese che hanno attorno, ostile e sprezzante nei loro confronti.