Isolamento e Breaking Bad

(di Federica Tosadori)

When I heard the learn’d astronomer,

When the proofs, the figures, were ranged in columns before me,

When I was shown the charts and diagrams, to add, divide, and measure them,

When I sitting heard the astronomer where he lectured with much applause in the lecture-room,

How soon unaccountable I became tired and sick,

Till rising and gliding out I wander’d off by myself,

In the mystical moist night-air, and from time to time,

Look’d up in perfect silence at the stars.

Walt Whitman

 

Mio fratello mi ha sempre parlato di Breaking Bad come del telefilm più bello di sempre – seguito subito dopo da The Walking Dead; io ho iniziato a guardare B.B. decisamente controvoglia e spinta più che dalla curiosità, dalle sollecitazioni del mio ragazzo; così, solo a seguito di una frequentazione costante, ho potuto finalmente capire e apprezzare tutte le forme e i dettagli della sua bellezza. Più o meno ciò che accade quando ci si innamora.

Le puntate sono andate in onda dal 2008 al 2013, quindi so benissimo di essere in ritardo con queste mie riflessioni, ma i classici si prestano sempre a letture critiche di vario genere no? Sono atemporali per definizione. Non starò a riassumerne la trama, perché chi sta leggendo questo articolo ne sarà già certamente al corrente – chi invece non ne sapesse nulla potrebbe incappare in qualche spoiler; posso solo dire che si tratta della storia di un uomo che, dopo aver scoperto di essere gravemente malato – ma questo fatto in fondo è quasi secondario – decide di intraprendere la strada della delinquenza. La sua espressa giustificazione resta sempre la stessa fino all’ultima puntata dell’ultima stagione, in cui finalmente riesce a essere sincero soprattutto con se stesso, svelando la vera motivazione delle sue azioni illegali.

Perché lo fai Walt? Perché da pacato insegnante di chimica del liceo, e saltuario dipendente di un autolavaggio, da un giorno all’altro ti metti in affari con un tuo ex-studente sbandato e inizi con lui a cucinare e a vendere metanfetamina, con tutti i rischi che questo comporta, tra i quali macchiarti in tempo zero di omicidio? Perché lo fai Walt? O per lo meno, perché non ti fermi subito, perché non torni indietro non appena ti trovi di fronte alla problematica di dover far sparire un corpo? Per la famiglia. Fino a dieci minuti dalla fine risponderai sempre “per la famiglia”, a costo di risultare stucchevole, di essere considerato bugiardo, a costo di perdere quella stessa famiglia per cui stai mettendo ogni cosa a repentaglio, fino a quando questa risposta diventa del tutto ridicola, perfino comica.

Breaking Bad mette in scena la clamorosa capacità degli esseri umani di mentire a se stessi; di recitare fino all’età di 50 anni una parte che non può che stare stretta. Walter H. White aveva avuto la possibilità di percorrere una brillante carriera nella ricerca, nella chimica, guadagnarsi una montagna di soldi – puliti – soprattutto essere davvero soddisfatto della propria vita. Tutto questo non succede. Perché Walt? Perché non è accaduto? E soprattutto, sarebbe stato diverso veramente? Avresti rinunciato alla montagna di soldi sporchi se ne avessi avuti di puliti? Riconoscimento sociale e orgoglio personale: una lunga e disperata ricerca, una bramosia che probabilmente non avrebbe avuto mai fine, poiché ci sarebbe sempre stata una moglie da accontentare e da rispettare, delle amicizie da mantenere, e perfino dei nemici da abbattere. Continuamente. Qualunque scelta avresti fatto Walt, ti avrebbe portato a confrontarti con questi radicati e radicali bisogni: riconoscimento sociale e orgoglio personale.

Dunque, non è ciò che fai che determina ciò che sei. Il punto della questione è uno solo: qual è la tua vera natura Walt? Qual è la tua vera natura Jesse Pinkman, giovane, adorabile, scapestrato e insicuro socio, tuo malgrado? In sostanza, sono abbastanza sicura di poter affermare che B.B. non sia la storia di un cambiamento, di una “caduta” o di una “salita”, a seconda dei punti di vista, di una svolta, di una decisione sbagliata. Walter White non cambia; semplicemente, finalmente, svela quella che è la sua verità più profonda, qualcosa e qualcuno che è sempre stato: un uomo ambizioso, potente, coraggioso, malvagio, intelligente, senza scrupoli, geniale, anaffettivo e passionale contemporaneamente. Heisenberg – il nome che sceglie per se stesso – è un essere sfaccettato, come tutti gli altri personaggi di questa serie. Da un inizio in cui sembrava che ognuno di loro avesse un ruolo ben preciso, che i tratti di ogni partecipante di queste vicende fossero ben delineati e la loro superficialità un dato di fatto, lentamente, attraverso le loro azioni e i loro modi di essere si fanno tridimensionali, profondi. Tutte, dalla prima all’ultima, maschili e quelle poche stralunate femminili, le figure che girano intorno a Walt e Jesse diventano sempre più umane, degne di affetto e odio a momenti alterni; non si può mai sapere quale sarà il nemico nella prossima puntata, chi sarà meritevole di una fine onorevole, chi si spegnerà per un errore, in silenzio, senza aiuto. Ma chi soprattutto verrà inevitabilmente odiato o amato: sicuramente l’indifferenza non vale per nessuno. Solo sentimenti impegnativi sono stati riservati agli spettatori di Breaking Bad.

In poco tempo – circa due anni – e in un luogo ristretto – Albuquerque e poco intorno – implode un universo. Nasce e muore un mondo intero. All’inizio, una famiglia, due sorelle e i rispettivi mariti, un figlio adolescente e una bambina in arrivo. C’è affetto, nonostante le piccole ipocrisie e le incomprensioni fisiologiche che tutti i nuclei familiari per statuto presentano. In fondo ne fanno parte allo stesso tempo un delinquente e un poliziotto, una guardia e un ladro, due forze uguali e contrarie, pronte a tutto per raggiungere i propri discordanti obiettivi. I protagonisti sembrano soli, insieme, delle monadi che vivono vicine senza raggiungersi veramente. Forse è solo alla fine che si incontrano davvero, poco prima che l’intera famiglia si disgreghi, si disfi, venga cancellata; qualche attimo prima che questo disastro annunciato avvenga, risulta evidente la tragedia: ogni gruppo familiare non può che essere bacato al proprio interno, ma è più doloroso viverci in mezzo oppure non averlo, o peggio, esserne il distruttore?

Tutti i personaggi sono soli, quasi nessuno chiede davvero aiuto, preferiscono arrangiarsi, mentirsi – annullarsi da soli? Disperarsi da soli? Salvarsi da soli? Alla malvagità propria e altrui ci si abitua, e i crimini possono generare un piacere fine a se stesso. Essere soli, in tutto questo, rappresenta una forza, più che una debolezza. E così in un certo senso, tutte le figure che girano intorno al chimico Walter White, al cuoco di metanfetamina Heisenberg, risultano compiute solo attraverso la loro lontananza l’una dall’altra: le due sorelle distrutte dal dolore, chiuse in due case diverse, vuote; il poliziotto sottoterra; i nemici-colleghi-soci uccisi, disintegrati o quasi morti. Walter ferito accarezza per l’ultima volta gli strumenti da laboratorio, Jesse – che si meriterebbe un articolo a lui dedicato – suo figlio putativo, scappa lontano, forse unico vero superstite, morto tante volte ma ancora vivo.

Ovviamente ci sarebbero altri mille e più aspetti da valutare, da analizzare, da sviscerare di questa serie meravigliosa e ricca di sfaccettature, colpi di scena e tipi umani, ma chissà come mai, ho dovuto soffermarmi, tra tutti, soprattutto sul tema della famiglia. Probabilmente il motivo è da cercarsi nell’isolamento obbligatorio dettato dalla diffusione di questo nuovo virus, il quale oltre a darmi il tempo di godermi tutte e cinque le stagioni di B.B. in sole cinque settimane, mi ha imposto anche di stare con la mia famiglia per altrettanto tempo. Certo la convivenza forzata offre tante possibilità di avvicinamento, ma allo stesso tempo ne crea altre, e forse anche di più, di allontanamento. Il parallelismo tra la forza centrifuga che spedisce lontanissimo l’uno dall’altro i personaggi di B.B. e quella che allo stesso modo, pur senza cucinare blue meth, può manifestarsi all’interno di un appartamento dal quale non si può uscire, mi è stato inevitabile.

E così, nella narrazione come nella realtà, da una solitudine condivisa e colorata, a tratti perfino consolante e serena anche se ambigua, si giunge a una solitudine personale e oscura, disperata ma sincera. In mezzo c’è lo svolgimento della storia, la vita.

L’orologio sul polso balla

(un racconto di Monica Frigerio)

Io e mia figlia andremo in Florida per le vacanze di Natale. Niente di nuovo. Lo facciamo sempre. Il vecchio Lenny Bambace dà una festa e noi ci andiamo ogni anno. Mia madre e mio padre lo conoscono da quando emigrarono qui in un passato che sembra ormai lontano come una stella nana nel cielo. Lo faccio per compiacerli. Da una ventina d’anni a questa parte ho imparato a farlo e in questo ultimo la cosa mi viene tanto bene che ogni volta che me ne rendo conto provo un brivido lungo la schiena e mi pizzicano gli occhi. Ma lascio che tutto finisca lì. Mi costringo. Pratico autodisciplina. Per forza.

Abbiamo deciso di prendere il treno. Io ed Emma amiamo il treno. Amiamo la pizza con tripla mozzarella, ascoltare Miles David, ordinare i libri in casa in maniera maniacale e viaggiare in treno. Ho quarantadue anni, lei tredici, spero di non averle dato fin troppo di me.

«Mamma dammi anche la tua borsa, la porto io sulle scale.»
«No tesoro, non ce n’è bisogno, hai già il tuo zaino.»
«Dammi la borsa.»

È inutile provare a dirle ancora di no, me la strapperebbe con la forza, piccolo coyote selvaggio, la lascio fare, la lascio arrampicare su per le scale in mezzo a centinaia di teste che nemmeno all’inferno. Mi abbandono alla mia stanchezza, alla mia leggerezza. Mi costringo. Per forza.

Quando Emma era più piccola c’è stato un periodo in cui Billy fu trasferito per lavoro in un posto sperduto dell’Ohio. A noi piaceva fare i bagagli quasi ogni fine settimana e andare a trovarlo. Emma è un’attrice nata, si metteva nel mezzo della carrozza e declamava tutto quello che aveva imparato per le recite scolastiche finché non era sazia di complimenti e dolciumi da parte degli altri passeggeri. Mai niente e nessuno poteva farla desistere da questo compito. Ci sono rimasti bei ricordi.

Il medico, poi, dice che mi farà bene spostarmi per un po’ a sud, passare del tempo in famiglia, senza pensieri.
Senza pensieri. Ho sempre il suo numero per le emergenze nel portafoglio.

«Vuoi mangiare qualcosa?» chiedo.
«Sìsìsì!» mi risponde entusiasta, iniziando a frugare nella borsa frigo. Si ferma un attimo, a pensare, smorza subito l’entusiasmo e dice «Magari dopo».
Quante volte questa scena, ogni volta mi fa infuriare, mi detesto, so che non è colpa mia, ma contro qualcuno dovrò pure prendermela.
Non conosco più zone grigie, solo rabbia alternata a stati d’animo in cui mi sento un santone orientale pronto a riversare pace e amore su qualsiasi essere vivente. Non riesco neanche più a schiacciare una zanzara senza provare subdoli sentimenti contraddittori.
«Mangiamo qualcosa quando arriviamo dai nonni, mamma», chiude gli occhi e mi appoggia la testa sulla spalla. Ultimamente il cibo mi dà nausea e ora, guarda un po’, anche a lei. Le stampo un bacio sulla testa, «Va bene Emma».
Intorno gente che parla al telefono, sfoglia il giornale, tossisce, ride.

Mi guardo allo specchio, ho un viso pallido, il mio vestito rosso da occasioni speciali non si intona con i cerchi neri intorno agli occhi, gli orecchini di perla stonano sui miei capelli rarefatti, l’orologio sul polso balla.
Il mio piccolo coyote femmina è dietro la porta a spiarmi, vorrebbe già chiedermi se va tutto bene. Le vado incontro e lascio che le sue braccine energiche mi circondino la vita sottile, mi stringano le ossa, e restiamo così per un po’. Sono pronta, ora, a dire a tutti Buon Natale.

(Nell’immagine Girl in bed di Lucian Freud)

Champagne

(un racconto di Andrea Lionetti)

Il volume della televisione è a sessanta. In qualunque stanza ci si sposti la voce di Carlo Conti riesce a penetrarne le pareti, propagandosi ovunque. La madre è seduta in cucina, che è anche il salotto, davanti a una tv che per dimensioni si usa solo in cucina.

Guarda il solito programma delle sette.

D’improvviso le sue parole si fanno più alte di quelle del conduttore: “Marco!! Marco! Corri, presto vieni! Vieni qua!”. Il figlio esce dalla camera preoccupato che sia accaduto qualcosa e la raggiunge . La tavola è apparecchiata: nel mezzo una piccola insalatiera e un pezzo di pane, due bicchieri, due tovaglioli. Sui fornelli una padella e due bistecche.

“Ma stai bene?”, chiede lui.

“Guarda! Certo che sto bene, mai stata meglio.”

La donna si agita e con le dita indica lo schermo, poi continua: “Duecentomila euro! Non ne ha sbagliata una e ha scritto mela. È giovane come te, vedi?”

Il figlio non dice una parola. Sta immobile di fronte a lei.

“Ci siamo ci siamo! Guarda, sta per aprire la busta.”

Silenzio. “La parola di questa sera è…” La madre incrocia le dita, chiude gli occhi, l’udito rapito dalla voce di Conti, le piace la voce di Conti, come quella di Scotti, Lippi, Amadeus, e poi non si ricorda più, ha già dimenticato programmi e personaggi, e tutto diventa una specie di cartella da desktop dove ogni cosa si confonde.

La parola è…mela!”.

A quel punto la donna apre gli occhi e scoppia in un applauso che rimbomba tutt’intorno: “Ce l’ha fatta! Ce l’ha fatta! Marco mio! guarda!”. Dal soffitto dello studio precipitano coriandoli arcobaleno, il concorrente quasi piange. È circondato da vallette alte e inarrivabili. 
Il vincitore parla, è il momento dei saluti; allora ci si sente bene e a nessuno frega più niente del lavoro d’ufficio, del Governissimo, dello Spread, dell’Agenzia dell’Entrate, della guerra in Siria, dei processi Berlusconi.
 La bocca è asciutta. Hanno sete. Fanno lo stesso gesto. 
Lui beve champagne, lei alza il bicchiere d’acqua.

“Cazzo mamma!”, esplode il figlio. Lei sussulta. “La carne! Brucia!”