L’orologio sul polso balla

(un racconto di Monica Frigerio)

Io e mia figlia andremo in Florida per le vacanze di Natale. Niente di nuovo. Lo facciamo sempre. Il vecchio Lenny Bambace dà una festa e noi ci andiamo ogni anno. Mia madre e mio padre lo conoscono da quando emigrarono qui in un passato che sembra ormai lontano come una stella nana nel cielo. Lo faccio per compiacerli. Da una ventina d’anni a questa parte ho imparato a farlo e in questo ultimo la cosa mi viene tanto bene che ogni volta che me ne rendo conto provo un brivido lungo la schiena e mi pizzicano gli occhi. Ma lascio che tutto finisca lì. Mi costringo. Pratico autodisciplina. Per forza.

Abbiamo deciso di prendere il treno. Io ed Emma amiamo il treno. Amiamo la pizza con tripla mozzarella, ascoltare Miles David, ordinare i libri in casa in maniera maniacale e viaggiare in treno. Ho quarantadue anni, lei tredici, spero di non averle dato fin troppo di me.

«Mamma dammi anche la tua borsa, la porto io sulle scale.»
«No tesoro, non ce n’è bisogno, hai già il tuo zaino.»
«Dammi la borsa.»

È inutile provare a dirle ancora di no, me la strapperebbe con la forza, piccolo coyote selvaggio, la lascio fare, la lascio arrampicare su per le scale in mezzo a centinaia di teste che nemmeno all’inferno. Mi abbandono alla mia stanchezza, alla mia leggerezza. Mi costringo. Per forza.

Quando Emma era più piccola c’è stato un periodo in cui Billy fu trasferito per lavoro in un posto sperduto dell’Ohio. A noi piaceva fare i bagagli quasi ogni fine settimana e andare a trovarlo. Emma è un’attrice nata, si metteva nel mezzo della carrozza e declamava tutto quello che aveva imparato per le recite scolastiche finché non era sazia di complimenti e dolciumi da parte degli altri passeggeri. Mai niente e nessuno poteva farla desistere da questo compito. Ci sono rimasti bei ricordi.

Il medico, poi, dice che mi farà bene spostarmi per un po’ a sud, passare del tempo in famiglia, senza pensieri.
Senza pensieri. Ho sempre il suo numero per le emergenze nel portafoglio.

«Vuoi mangiare qualcosa?» chiedo.
«Sìsìsì!» mi risponde entusiasta, iniziando a frugare nella borsa frigo. Si ferma un attimo, a pensare, smorza subito l’entusiasmo e dice «Magari dopo».
Quante volte questa scena, ogni volta mi fa infuriare, mi detesto, so che non è colpa mia, ma contro qualcuno dovrò pure prendermela.
Non conosco più zone grigie, solo rabbia alternata a stati d’animo in cui mi sento un santone orientale pronto a riversare pace e amore su qualsiasi essere vivente. Non riesco neanche più a schiacciare una zanzara senza provare subdoli sentimenti contraddittori.
«Mangiamo qualcosa quando arriviamo dai nonni, mamma», chiude gli occhi e mi appoggia la testa sulla spalla. Ultimamente il cibo mi dà nausea e ora, guarda un po’, anche a lei. Le stampo un bacio sulla testa, «Va bene Emma».
Intorno gente che parla al telefono, sfoglia il giornale, tossisce, ride.

Mi guardo allo specchio, ho un viso pallido, il mio vestito rosso da occasioni speciali non si intona con i cerchi neri intorno agli occhi, gli orecchini di perla stonano sui miei capelli rarefatti, l’orologio sul polso balla.
Il mio piccolo coyote femmina è dietro la porta a spiarmi, vorrebbe già chiedermi se va tutto bene. Le vado incontro e lascio che le sue braccine energiche mi circondino la vita sottile, mi stringano le ossa, e restiamo così per un po’. Sono pronta, ora, a dire a tutti Buon Natale.

(Nell’immagine Girl in bed di Lucian Freud)

L’essenziale ordine di Svava

(di Luciano Sartirana)

Parlerò di “Tutto in ordine”, un libro in dodici racconti della scrittrice e donna politica islandese Svava Jakobsdóttir (1930-2004). Sono scorci di vita quotidiana, spesso con una donna fuori luogo o che si sente tale come protagonista.
Una donna invita a casa le amiche del circolo femminile per un aperitivo, insieme ai mariti per non far sentire solo il suo, ma fra i due gruppi si crea lontananza. Un’anziana vedova viene a sapere di un’agenzia che organizza feste a domicilio, e stila la lista di chi inviterebbe – defunti compresi – ora che dopo la morte del marito non la va più a trovare nessuno. Una madre riceve dall’ospedale una convocazione urgente per il sospetto di un tumore… vorrebbe dirlo al figlio adolescente – superficiale e abulico – senza riuscirci.
C’è spesso una donna che deve dire una cosa importante, ma le parole a sua disposizione sono superate dal timore di far male, scuotere ricordi, ricevere silenzi. E, in ogni brano, la maestosa quanto incombente natura dell’Islanda suggerisce di non stare troppo fuori dalla soglia, ma pare anche dire: non date la colpa a me, siete voi che non vi parlate.
Due racconti mi hanno colpito in particolare.
In Novella per i figli una madre si fa in otto per la famiglia. Le richieste – in opere e in affetto – arrivano al farle letteralmente perdere parti di sé… resta senza fegato, cuore, cervello, ma prosegue nella sua surreale dedizione a quei congiunti opportunisti.
Il ritorno rievoca l’esperienza toccata durante la Seconda Guerra Mondiale alle giovani “nella Situazione”, un modo di dire che si usava solo fra donne. L’8 luglio 1941, 50.000 marines arrivarono in Islanda dagli Usa in vista di un attacco alla Germania nazista. E “nella Situazione” c’era chi aveva avuto una storia con uno di loro. Un certo numero di ragazze subirono dicerie e ostracismi fino all’aggressione vera e propria; alcune si nascosero, altre esibirono smaccatamente costumi tradizionali o religiosità per allontanare il sospetto; le più trovarono forza nella relazione con altre donne, in una sorta di separatismo del linguaggio e dell’ironia su quanto stava succedendo.
Un libro sottile e coinvolgente, una scrittrice da scoprire.