In qualunque posto mi trovi

(di Federica Tosadori)

In qualunque posto mi trovi
di ELEONORA CICCONI e NOEMI RADICE

Devi essere come lei: solare, sorridente, magra, simpatica, sempre se stessa.
Trailer dello spettacolo

Sul palco solo un’attrice. Sul palco una ragazza, i suoi cuscini e una piena adolescenza: troppe cose da rinchiudere in una stanza. Il mondo fuori ci entra solo attraverso YouTube, unica voce con cui i ragazzini possono esprimere la propria realtà, sia fatta questa di trucchi, tutorial, consigli o sfoghi più disperati. Gaia, la protagonista, lo sa bene che è così, e vive infatti delle speranze che la sua youtuber preferita le regala, donandole prospettive di cambiamento e di crescita che rendono Gaia ancora più impaziente tanto da farla comunicare con la se stessa del futuro: “Cara Gaia del futuro… Ti prego: smetti di essere così invisibile… trasparente! Cerca di cambiare.”.
Arrivano tanti piccoli pizzicotti mentre si guarda questo spettacolo, degli squarci di solitudini soffocate, qualche paura profonda che si fa visibile tra una battuta e l’altra. In qualunque posto mi trovi è un testo che parla con il linguaggio ingenuo degli adolescenti, ma che svela in mezzo a una divertente leggerezza, i labirinti malvagi dell’inadeguatezza che ci si sente appesa addosso a quindici anni, ma anche a venti, o trenta. Gaia vuole partecipare ai racconti di YouTube, vuole essere presente con il suo personale video, in cui mostrarsi per quello che vorrebbe essere veramente, felice, ma felice davvero, “che si vede quando fai finta di sorridere, Gaia! Impara a sorridere perché sei davvero contenta: non fare finta! Si vede che fai finta! Impara a non vergognarti di come sei. E ti prego: impara a girare almeno un video decente! Uno! Così finalmente potrai dire di avere fatto qualcosa di tuo!”
In 65 minuti Gaia, interpretata dall’attrice Eleonora Cicconi, si diverte, si emoziona, si trucca, si sveste, si cambia, fa ginnastica, mangia dei biscotti, un po’ cresce, un po’ resta bambina: fa fatica a essere all’altezza delle sue aspettative, e si illude di trovare un’amica oltre lo schermo.
Ma la vita reale esiste comunque e fa irruzione, anche all’interno di una cameretta chiusa.

 

Intervista a Noemi Radice

1. Ciao Noemi, responsabile della regia e scrittrice del testo; parlaci dell’origine di questo spettacolo. Tra i ringraziamenti sulla locandina compare YouTube…
Lo spettacolo In qualunque posto mi trovi nasce dalla lettura di un racconto di Frank WedekindMine-Haha, ovvero Dell’educazione fisica delle fanciulle. È stata Eleonora, l’attrice dello spettacolo, a propormi di leggere il testo di Wedekind e a ragionarci insieme per mettere in scena un monologo. Nel racconto si legge di un parco in cui centinaia di ragazzine vengono educate da altre donne secondo i soli canoni estetici e fisici, crescendo inconsapevoli dell’esistenza di un mondo esterno. La tematica ci interessava molto e ci sembrava più che mai attuale, vivendo in una società in cui l’estetica è vissuta come un valore imprescindibile e in cui le adolescenti sono costantemente bombardate da immagini e modelli a cui ispirarsi. Interrogandoci su che cosa potesse essere oggi questa “educazione fisica delle fanciulle” siamo approdate al mondo di Youtube, piattaforma su cui centinaia di ragazzine pubblicano video per condividere le proprie esperienze e i propri suggerimenti di vita. Youtube, attraverso i loro video, diventa uno spazio che porta la sfera privata nella sfera pubblica; è uno spazio accessibile a chiunque, in cui vengono spesso mostrati con leggerezza elementi intimi e privati. Allora proprio da Youtube abbiamo iniziato la nostra ricerca: abbiamo visto centinaia di video, partendo da quelli più visualizzati delle Youtuber più famose, fino ad arrivare ad esplorare quello che potremmo definire un vero e proprio sottobosco dell’universo Youtube, fatto di video mal girati e con poche decine di visualizzazioni. Questo contrasto ci affascinava e ci è sembrato il giusto punto di partenza per raccontare, dal punto di vista di una adolescente, la lotta per la ricerca della propria identità, nello sforzo di mettere in relazione il proprio mondo interiore con il mondo esterno.

2. Com’è stato scrivere per il teatro? È la tua prima esperienza? Si può parlare di scrittura collettiva o comunque a più mani?
Questa di In qualunque posto mi trovi non è stata la mia prima esperienza di scrittura teatrale, ma è stata la mia prima esperienza di produzione vera e propria di uno spettacolo. Ovviamente, quando il tuo punto di partenza è un’idea intorno a cui c’è ancora tutto da costruire, la drammaturgia è una componente importantissima, ma per quella che è la mia esperienza e la mia formazione da attrice, il lavoro sul testo drammaturgico non può prescindere dal lavoro fatto in scena. Scrivere per il teatro è molto divertente e anche molto difficile. Questo perché non è sufficiente trovare una storia da raccontare e non è sufficiente esprimerla con un proprio stile: è necessario individuare lo stile del personaggio in scena. Chi è il mio personaggio? Come parla? Cosa direbbe e cosa invece non potrebbe assolutamente dire? La scrittura per la scena non può mai dimenticarsi dell’identità del personaggio che sta parlando: è a partire dalla sua personalità e dalle sue caratteristiche che si sviluppa il suo linguaggio. Nel caso di In qualunque posto mi trovi si intrecciano due tipi diversi di linguaggio: il linguaggio di Gaia, la protagonista quindicenne, e il linguaggio del mondo dei video su Youtube. Trovare l’equilibrio e la compenetrazione tra questi due universi linguistici è stata una bella sfida. Spesso il linguaggio di Youtube influenza il linguaggio di Gaia: a volte lei ne è consapevole e si sforza di imitarlo, altre volte lo utilizza inconsciamente. Il risultato drammaturgico che abbiamo ottenuto è frutto di molteplici stratificazioni. Si può parlare certamente di scrittura collettiva: io e Eleonora siamo coautrici del testo. Le prime parole scritte sono nate da improvvisazioni in scena e da scritture intorno a nuclei tematici precisi, fatte da entrambe: l’obiettivo iniziale è stato quello di avere molto materiale, per poi iniziare a selezionarlo in un secondo momento. Con il materiale che ci sembrava più interessante abbiamo sviluppato una struttura drammaturgica, che siamo andate ancora a completare aggiungendo scritture per i passaggi mancanti. Poi ho ripreso in mano io il testo e l’ho ripercorso andando a uniformare il linguaggio e andando a eliminare ancora tutti i momenti che risultavano come ripetizioni o che non facevano progredire la situazione ai fini di una messa in scena. A partire da questa bozza drammaturgica siamo tornate a provare in scena. Ti parlo di bozza, proprio perché prova dopo prova abbiamo continuato a lavorare sulla drammaturgia, con piccoli tagli o modifiche che risultassero ancora più funzionali alla resa scenica del testo. Un lavoro analogo abbiamo fatto per la scrittura dei video Youtube che compaiono nello spettacolo come interventi audio: siamo partite da una lunga ricerca e analisi di centinaia di video presenti sulla piattaforma, per poi raccogliere e riscrivere tutti gli spunti che risultassero utili per la nostra messa in scena.
Per questa esperienza di scrittura mi è stato utilissimo l’incontro con Compagnia Òyes, con cui ho lavorato come assistente alla regia per l’ultima produzione. I loro spettacoli più recenti sono delle vere e proprie drammaturgie collettive e ho imparato tantissimo dal loro metodo di scrittura collettiva per la scena.

3. Siete soddisfatte del lavoro finale?
Certamente! Sappiamo che si può sempre migliorare, ma siamo molto contente del risultato del nostro lavoro e soprattutto del percorso fatto per ottenerlo. Ci siamo dedicate con passione al nostro spettacolo e facendolo crescere siamo un po’ cresciute anche noi.

4. E della regia? Come hai lavorato su questa? Hai apportato cambiamenti strada facendo?
La regia è nata facendola. Non saprei esattamente come spiegarti l’evoluzione del mio lavoro registico per questo spettacolo, anche perché si tratta della mia prima prova da regista, quindi non posso dire di avere già sviluppato un metodo convalidato. Sono partita da un’idea spaziale e scenografica precisa: tutto si svolge in una stanza, in un quadrato tre metri per tre metri, in cui gli elementi di arredo sono dei semplici cuscini, alcuni dei quali contengono vestiti e oggetti che vengono estratti e invadono lo spazio. Non riesco nemmeno a spiegarti quali sono i confini tra regia, scrittura e lavoro sulla scena, forse anche perché dei confini veri e propri non esistono. Alcune parole le ho scritte avendo già in testa delle immagini precise, altre immagini sono nate dal testo, il lavoro iniziale di improvvisazione di Eleonora è stato fondamentale per farle esplorare la vita possibile all’interno del nostro quadrato scenico. Quello che posso dire è che, per la mia formazione da attrice, sono partita proprio dal lavoro dell’attrice in scena, andando ad analizzare con Eleonora l’evoluzione del testo e di conseguenza l’evoluzione del suo personaggio attraverso il testo. Tutto quello che succede al di fuori delle parole è stato costruito a servizio dell’attrice e del personaggio, senza mai dimenticare quello che poteva essere lo sguardo e la comprensione del pubblico. Penso che sia proprio questa la sostanza della regia di uno spettacolo: tenere insieme tutti gli elementi e calibrarli in continuazione per arrivare a ottenere un prodotto coerente e a servizio del pubblico. Il regista deve riuscire a mantenere uno sguardo limpido sullo spettacolo per garantirne la buona riuscita e, quando si lavora veramente a servizio dello spettacolo, bisogna essere capaci di mantenere l’elasticità mentale necessaria per modificare e affinare il lavoro fino all’ultimo, anche rinunciando a tante cose a cui ci si è affezionati se ci si rende conto che ostacolano la resa scenica complessiva dello spettacolo. Allo stesso tempo bisogna individuare gli elementi irrinunciabili, quelli per cui non si è disposti a cedere a compromessi. È tutta una questione di equilibrio. Non so se ce l’ho fatta, ma ho cercato di lavorare un po’ così!

5. Dove credete vi possa portare questo testo? Avete pensato a proporlo proprio a quei quindicenni di cui parla? Nelle scuole?
Per ora abbiamo avuto un pubblico tendenzialmente composto da giovani e adulti. I genitori di adolescenti che hanno visto il nostro spettacolo sono rimasti molto colpiti, perché ci si rivedono, ci si riconoscono e si sentono interpellati da quello che vedono in scena. E proprio per questo ci piacerebbe tantissimo riuscire a proporre il nostro spettacolo a un pubblico di adolescenti, essendo molto interessate al dibattito che potrebbe nascere da un incontro di questo tipo. Crediamo molto nel teatro come strumento capace di generare un confronto costruttivo.

6. Infine, una curiosità da editori: che libri leggi?
Vorrei avere una risposta per editori! In realtà leggo principalmente testi drammaturgici o saggistica teatrale. Oppure racconti, passando schizofrenicamente da Calvino a Maupassant, a Buzzati, a Wallace, a Hemingway, a Cechov, a Roald Dahl… Ma mi piacerebbe con l’arrivo dell’estate riuscire a tuffarmi in un bel romanzo: l’ultimo che ho letto quest’anno è stato Ogni cosa è illuminata di Safran Foer.

…Ah, seguite Gaia su Instagram: @inqualunquepostomitrovi #iqpmt

 

Intervista ai SIC

(di Federica Tosadori)

Ho avvertito recentemente il bisogno di saperne di più sul macrotema della scrittura collettiva. Se ne parla da quasi un secolo, probabilmente la si pratica da molto prima. Di gruppi ne nascono continuamente e io ho avuto il piacere di imbattermi in uno di questi: i SIC.
La sigla sta per Scrittura Industriale Collettiva e indica un metodo ma anche la comunità stessa di scrittori, come apprendo dal sito ufficiale.
L’idea è nata e si è sviluppata nel 2007 con Vanni Santoni e Gregorio Magini, i quali sono anche autori di libri individuali. Il metodo in breve si basa sul principio del “tutti scrivono tutto” e si sviluppa a partire dalla compilazione di schede che poi vengono accorpate dai direttori artistici.
Nel 2013, dopo qualche anno di lavoro, i SIC hanno pubblicato il romanzo a tante mani, duecentotrenta per la precisione, In territorio nemico, sul tema della lotta partigiana, basato su veri aneddoti raccolti dagli scrittori precedentemente e poi rielaborati a formare una trama.
Un progetto decisamente intrigante!

Lascio ora a voi le risposte dei SIC alle mie domande:

Buongiorno SIC! Esattamente: quanti siete? Come funzionano i vostri gruppi di scrittori? Quanto è importante la pre – organizzazione e la pre – definizione del soggetto? Ciascuno di voi ha un ruolo preciso e diverso, oppure no?

Se parliamo del progetto SIC, siamo due. Gregorio Magini e Vanni Santoni, ideatori del metodo e coordinatori dei progetti ufficiali, su tutti il romanzo In territorio nemico. Se parliamo delle opere, vanno dai sei autori del primo racconto ai centoquindici del romanzo. Senza contare le molte opere non ufficiali scritte comunque col nostro metodo, che è a sorgente aperta e liberamente utilizzabile. I ruoli di ciascuno possono cambiare a seconda della singola opera, per approfondire si può leggere il metodo qui.

In Territorio Nemico

Cosa ci dite del libro In territorio nemico? Siete soddisfatti? Nel leggerlo mi sono subito resa conto che si tratta di un testo che non poteva essere scritto da un singolo autore; il lavoro di ricerca è approfondito e accurato, i personaggi analizzati nel profondo… un vero lavoro di squadra! Mi sbaglio?

Grazie per l’apprezzamento. Il libro è stato un successo sia a livello di pubblico che di critica, come si può riscontrare da qui, e ci rallegra molto saperlo ancora letto nelle scuole e studiato nei dipartimenti di italianistica – a oggi sono quattordici le tesi di laurea o di dottorato dedicate a In territorio nemico e alla SIC – ma soprattutto è stato un successo perché ha mostrato l’efficacia del metodo anche in un’opera ambiziosa e di un certo respiro.

Potete raccontarci i pro e i contro dello scrivere collettivamente? Quali difficoltà e quali piacevoli sorprese avete riscontrato?

La scrittura collettiva è un’arte differente dalla scrittura individuale, ha più a che fare col cinema o col montaggio. Sicuramente ha un enorme potenziale nel trovare buone idee, perché mette a frutto, a patto di usare un vero metodo di scrittura e non limitarsi a far ”staffette”, il lavoro di più menti. Dall’altro lato ovviamente, richiede molto lavoro perché si producono molti più materiali che poi vengono ”distillati”, senza contare l’impegno richiesto dal coordinamento di tanti autori.

Come vi rapportate con la tradizione letteraria della scrittura collettiva – Futurismo, Surrealismo…? Con il presente, gli altri gruppi on-line e off-line? E con i social?

Il nostro obiettivo era portare allo stato maturo la scrittura collettiva tramite l’ideazione, il rodaggio e il perfezionamento di un metodo univoco che potesse essere usato da chiunque. Ci siamo riusciti. Ovviamente per farlo abbiamo tenuto conto della tradizione, molto forte in Italia, in cui andavamo a inserirci, tema di cui il nostro fondatore Vanni Santoni ha scritto qui.

Cosa vi aspettate dal vostro progetto in futuro? Un’ulteriore pubblicazione? Qualche miglioramento da apportare?

Siamo troppo impegnati con i nostri romanzi individuali, al punto che abbiamo rifiutato anche offerte di scrivere nuovi romanzi col metodo SIC. Esso però continua in molte sedi, ad esempio alla NABA Dimitri Chimenti lo utilizza con i suoi studenti per la produzione di sceneggiature. Il metodo è di per sé modulare e a sorgente aperta, è strutturato in modo che chiunque possa adattarlo o aggiungere ”patch” a seconda delle esigenze specifiche della storia che vuole scrivere.

Come pensate possa cambiare la letteratura alla luce delle ultime novità metodologiche di scrittura?

La scrittura collettiva pone questioni e apre scenari interessanti, di cui abbiamo scritto in particolare in due articoli: Letteratura come network e Solve e coagula.

Intervista a Marco Marsullo

(di Andrea Lionetti)

Narratore, autore di numerose pubblicazioni, Marco Marsullo, classe 1985, è una delle più giovani e talentuose voci della letteratura italiana.
Per Einaudi Stile Libero ha pubblicato, nel 2015, il romanzo I miei genitori non hanno figli, dove un giovane diciottenne prende la parola e fa a pezzi il mondo degli adulti, e i propri genitori, smascherando la fragilità di una generazione che non è mai davvero cresciuta.

I tuoi romanzi sono una miscela di comicità e tenerezza, ma anche di situazioni drammatiche, e spesso affrontano temi scomodi, come la solitudine, la realtà della provincia campana (penso ad Atletico Minaccia Football Club) o le contraddizioni degli adulti. Come si conciliano le due cose?

In ogni autore si miscelano più forze. Come in ogni essere umano. I miei libri di questi anni sono lo specchio di ciò su cui ho posato gli occhi. Alcuni mi riguardano da vicino o riguardano da vicino i luoghi che conosco meglio. Altri toccano tematiche più universali, più lontane da me. Penso che la comicità, l’ironia, vada di pari passo con la tenerezza. L’occhio sarcastico è un occhio indulgente con le cose che riguardano gli umani. Altrimenti è un mero attacco, un’inchiesta, e non qualcosa che ti strappa una risata, perché simile a te.

I miei genitori non hanno figli ha riscontrato fin da subito un meritato successo. Si vedono molte belle cose, e di bei problemi, nel libro. Posso citarne una: «penso che quello che conta è provare a rimediare agli errori di fabbricazione tra genitori e figli. Metterci impegno».
Mi sembra un pezzo di notevole autenticità. Questa volontà di adattarsi per fare in modo che non si sparisca del tutto ha un valore universale. Ad esempio, Darwin ha scritto che è la specie che si adatta meglio a sopravvivere, un po’ come cercano di fare i personaggi del romanzo. E non lasci intendere se effettivamente ne valga la pena, se abbia o meno senso questo desiderio di adattamento.
Si può dire qualcosa a riguardo o basta la constatazione che le cose alla fine vanno così?

I miei genitori non hanno figli è un romanzo un po’ atipico rispetto a tutti gli altri che ho scritto, e atipico rispetto a quelli che scriverò negli anni a venire. È in parte autobiografico, non che importi in sé, ma è un affresco dei dolori delle famiglie. Perché credo che sia proprio il nucleo familiare il posto in cui si subiscono più dolori e ferite, a volte permanenti, a volte no. Non so, infine, se si possa porre un vero rimedio, né mi interessava raccontando la storia del ragazzo protagonista del libro. Il mio compito, anzi, la mia volontà era quella di dare voce, a volte confusa, a volte decisa, a un ragazzo di diciotto anni. E a diciotto anni le soluzioni agli enigmi non le hai quasi mai.

Parlando del giovane protagonista, nonostante i suoi diciotto anni dimostra spesso e volentieri una maturità superiore a quella dei suoi genitori. Una situazione paradossale ma più diffusa di quanto si possa credere. Ci si chiede come sia possibile che adulti inadeguati a coltivare loro stessi possano prendersi cura di adolescenti, aiutarli a orientarsi nella vita.
Anche tu ti sei posto questa domanda?

È il nocciolo più duro da digerire, questo, tra quelli presenti nel romanzo. La situazione non è poi così distante dalla realtà, spesso. E spesso quegli adulti adolescenti fanno dei danni che i loro figli pagheranno nel futuro. E li faranno pagare ai loro figli, e così via. La risposta, per me, è nei ruoli. Sono importanti, sono fondamentali per la crescita di un ragazzo. Se no rischierà di mischiarli a sua volta, creando disastri e confusioni per sé e per chi verrà.

Quanto ha influito la tua esperienza biografica nella stesura del romanzo?

Tanto, mi sono rifatto, più che ai fatti, ai sentimenti provati e che, tutt’ora, provo. Alla fine i lato autobiografico è un dato del tutto trascurabile, ai fini della lettura. La mia storia familiare è simile a tantissime altre.

Marco, a trentun anni hai già sei pubblicazioni alle spalle. Non è una realtà che si riscontra facilmente nell’attuale panorama editoriale italiano. Quali sono le tue abitudini di scrittura, e quali consigli daresti a chi volesse cimentarsi con la narrativa?

Sto scrivendo tanto e pubblicando tanto, questo mi ha portato a sviluppare un controllo marziale del mio lavoro. Non sono uno che scrive tutti i giorni, non ci penso nemmeno, se riducessi la scrittura a un lavoro quotidiano perderei i privilegi divertenti del mio lavoro, il tempo libero, a libera disposizione, su tutti. Riesco a ricaricarmi una volta finito un libro e poi catapultarmi sulla nuova storia in un lasso di tempo variabile, del tutto soggettivo e inspiegabile. Scrivo per lo più di notte, ma ho imparato (per fortuna) a mettermi a lavoro anche di pomeriggio. La mattina mai, odio fare cose la mattina. I consigli sono sempre gli stessi, fino alla nausea: leggere tantissimo, imparare dai più bravi e studiarli fino alla nausea, studiare le loro strutture, i loro aggettivi, i loro dialoghi. Poi, chiaramente, farli propri, e non imitarli. Poi scrivere. E se le cose non dovessero decollare subito con belle pubblicazioni, scrivere lo stesso. Se vi rendete conto che, alla fine, la cosa non prende forma, ragazzi, cambiate strada. Ma fino a quel punto: mai mollare.

Quali autori hanno influenzato maggiormente la tua formazione letteraria?

Niccolò Ammaniti è l’autore che mi ha fatto iniziare a scrivere. Leggendo “Branchie!” ho capito che volevo fare lo scrittore, di mestiere. Poi tanti altri, Roth, Soriano, Diego De Silva, Christopher Moore, McCarthy, Pahlaniuk quando ero più piccolino, insieme ad Aldo Nove, Dave Eggers, e via dicendo. Dài, sono troppi.

Oggi in Italia le statistiche ci dicono che si legge sempre meno, ma anche la qualità della lettura ha la sua importanza. Vorrei concludere l’intervista domandandoti che cosa significa per te la parola “letteratura”.

Significa che se hai fatto letteratura, alla fine del percorso, i libri di antologia nelle scuole e nelle università, parleranno di te. L’etichetta di scrittore letterario o di narratore, alla mia età soprattutto, non fa alcuna differenza. La strada è lunga. La letteratura è fatta di uomini e donne che hanno cambiato la storia della narrativa. Hanno creato sentieri ed esempi. Poi, l’importante è leggere e godere della lettura: il resto sono chiacchiere.