Ogni lettore ha la sua preistoria

(di Luciano Sartirana)

Oggi divoro migliaia di pagine di narrativa ogni anno, una quota minore di varia saggistica, poesia il giusto. Ma quando è iniziato tutto questo? Come? Perché?

Noi – lettori assoluti – abbiamo avuto una parte della vita antecedente il primo libro che abbiamo letto?

Ho iniziato a leggere e scrivere da solo a quattro anni, seguendo la trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi”, una delle cose migliori mai fatte dalla tv italiana, a beneficio dei molti analfabeti ancora presenti allora. I motivi erano tre: non avevo più voglia di attendere la sera che mamma o papà mi leggessero le favole prima di dormire; ero curiosissimo di sapere cosa ci fosse scritto sui giornali e le riviste che giravano per casa; il maestro Manzi, che conduceva la trasmissione, era un adulto simpatico e che trasmetteva calma e sorriso, oltre che un sapere fondamentale.

Una volta impadronitomi delle parole leggevo tutto quello che trovavo. In casa di narrativa quasi non ce n’era, o io non la vedevo. Ma c’erano la “Domenica del Corriere” e il “Corriere della sera”. C’era un’enciclopedia, la mia lettura preferita perché divisa per argomenti e a capitoli abbastanza brevi e intervallati da foto.

In seconda elementare – inutile dire che in prima mi sono scocciato molto, sapendo già leggere – ho trovato un vecchio libro di scuola di mia madre, una storia di Roma… di quelle molto narrate, con le vicende epiche di individui come Annibale, Scipione, Attilio Regolo, Brenno e Camillo… era narrativa pura, l’avrò letto una decina di volte.

Poi, naturalmente, molti fumetti. A parte i classici Topolino e Tiramolla, ogni tanto mi regalavano libricini di una strana serie: classici per ragazzi ridotti a fumetti. In questo modo mi sono appassionato a grandi storie, apprezzando quindi la trama ma non avendo esperienza dello stile… “I ragazzi della via Pal” (tremendo e lacrimevole), “Dalla Terra alla luna” (un sogno) e “L’isola del tesoro” (bellissimo) erano i miei preferiti.

La mia frequentazione dell’oratorio mi porta a leggere il Vangelo e alcune storie della Bibbia, ma mi ci accostavo in modo devoto e rispettoso, non riuscivo a farmeli passare per narrazioni da gustare, c’erano troppe altre cose dietro. E – solo tra me, non si sa mai – ponevo troppe domande: è scemo, Abramo, ad accettare di sacrificare Isacco? Come potevano Adamo ed Eva accettare di stare in posto noioso come il Paradiso Terrestre? Gesù non poteva scappare e non farsi più trovare, altro che andare in croce per gli altri?

In quinta elementare ho letto il primo romanzo della mia vita. Ero allenzuolato con febbre e influenza, avevo finito tutti i fumetti a disposizione, la “Domenica del Corriere” della settimana la stava leggendo ancora mio padre. Scovo un libretto nello scaffale sotto l’enciclopedia… “Il fiore delle perle”, di Emilio Salgari… una storia tra Cina e Indocina, barconi lungo un fiume, riso a colazione e pranzo e cena (tanto che la sera ho faticato a ingollarmi il mio riso in bianco, non ne potevo già più…). Un libro che mi sono bevuto in un giorno, con l’intensa sensazione di avere scoperto qualcosa di grande: si poteva raccontare una storia solo con delle parole; era bello appassionarsi alla trama; era bello godersi la scrittura e lo stile di un particolare scrittore. Poi, nelle medie, dalla biblioteca comunale sono arrivati tutti i romanzi di Jules Verne (ho riletto quattro volte “Viaggio al centro della Terra”!), “Marcovaldo” a scuola, “L’isola del tesoro” e “I ragazzi della via Pal” come testi scritti.

Dai quattordici anni, incredibilmente, ho letto solo cose di storia, politica, psicologia. A sedici addirittura “La fenomenologia dello spirito” (ovviamente non capendo nulla) e scritti di Freud e Groddeck, che avevano l’effetto di mostrarmi a me stesso come un ricettacolo di nevrosi.

Fino a che, al primo anno di Università, per fortuna ho ripreso in mano il filo lanciatomi anni addietro da Salgari e Verne… “Un amore di Swann”, Marcel Proust, scelto del tutto a caso in una libreria. Da allora, le serate senza un romanzo sono state davvero poche.

Negativo n°25. La quintessenza della vita in ciascuno di noi

(di Marcella Valvo)

“Certe volte non scatto

Se mi piace il momento, piace a me, a me soltanto.

Non amo avere la distrazione dell’obiettivo.

Voglio solo restarci. Dentro.”

 

“Restarci dentro.” Ripete Walter Mitty. Dentro a quell’attimo effimero di bellezza. Dentro a quel momento irripetibile di contemplazione. Dentro alla vita, quella vera.

Siamo sulle montagne dell’Himalaya e no, non è l’ennesimo sogno a occhi aperti del protagonista. Il fotografo Sean O’ Connell ha trovato il leopardo delle nevi, a lungo cercato, ma non lo immortalerà come aveva programmato. Vuole solo guardarlo.

È da tanto tempo che volevo vedere “I sogni segreti di Walter Mitty” e finalmente, grazie a un gruppo di Amici, ne ho avuto l’occasione. Un’avventura che all’inizio sembra relegata nella testa del protagonista, anonimo impiegato presso il colossale Life magazine, che per fuggire da un’esistenza che sente monotona si immagina immerso in straordinarie imprese. Questo fino a che un evento particolare non lo costringe a mettersi in viaggio per davvero: Sean O’ Connell è sparito e il negativo n°25, la sua foto che avrebbe dovuto diventare la copertina dell’ultimo numero della rivista, è introvabile quanto il suo autore. Walter, addetto allo sviluppo negativi, non può fare altro che partire alla sua ricerca.

Ma è così vero che non poteva fare altro? Prima poteva essere il licenziamento in ballo, ma una volta esaurito il problema…? Walter poteva lasciar perdere, dimenticare, arrendersi. Ma non lo fa: Sean lo chiama e lui risponde. Forse perché l’avventura in realtà lo chiamava da sempre e lui, semplicemente, è arrivato a un punto in cui immaginarla non gli basta più. Io credo che quella tensione fosse in lui da sempre, addormentata ma pronta a eruttare come il vulcano islandese da cui si ritrova a scappare. Tutto vero eh, mica un sogno.

La ricerca del famoso negativo, che Sean definisce “la quintessenza della vita”, mi ha portato inevitabilmente a domandarmi cosa essa sia. Cosa sia per Sean, certo, ma anche cosa sia per me. Cos’è per te la quintessenza della vita?

Mi sono immaginata gli spettatori di questo film, che fossero in una sala del cinema o in casa propria, chiedersi e riflettere su cosa ci fosse su questo misterioso negativo. Un paesaggio mozzafiato? Un riflesso di luce su un’iride? Un sorriso? Quanto dice di noi quello che abbiamo immaginato?

Come il tesoro ne L’Alchimista di Coelho era molto più vicino a Santiago di quanto il ragazzo non potesse sognare, così il negativo n°25 è sempre stato a portata di mano di Walter. Eppure c’è stato bisogno che scalasse l’Himalaya per scoprirlo, trovando Sean e forse un po’ anche se stesso. La foto del leopardo delle nevi non verrà mai scattata. Forse perché “le cose belle non richiedono attenzione”, forse perché l’importante è solo “stare”.

Si parla tanto di re-stare in queste settimane. “Se potete, re-state a casa.” E mi vien da dire che forse è anche un invito da cogliere su come re-stare. Stando nel momento, nell’istante. Questo isolamento forzato può condurre a tanta noia, tanta esasperazione, ma ci costringe anche a fare i conti con noi stessi, a stare con noi stessi, a vivere lo spazio che ci circonda più intensamente di prima. Forse ci è chiesto di trovare la bellezza anche in questo. Re-stare.

E come il mio amico Giovanni si domandava, Walter Mitty ci pone di fronte a un altro enigma. Il titolo originale del film è “The secret life of Walter Mitty”. La vita segreta. Qual è la (vera) vita segreta di Walter Mitty? Sono i suoi sogni a occhi aperti o c’è dell’altro?

To see behind walls” – recita lo slogan di Life. Vedere oltre i muri.

Guardiamo Walter alla fine del film e vediamo il solito anonimo impiegato che passeggia con una donna. Eppure quell’invisibile addetto allo sviluppo negativi è volato in Groenlandia, si è buttato da un elicottero nell’oceano, è arrivato in Islanda a bordo di un peschereccio, ha scalato l’Himalaya ed è stato detenuto per 17 ore dalla polizia di Los Angeles per un malinteso. E ora passeggia con la donna di cui è innamorato e alla quale non era mai riuscito a chiedere un appuntamento.

Sean O’ Connell ha chiamato Walter perché riteneva che fosse l’unico a capire davvero il suo lavoro, a dargli un senso compiuto, e probabilmente aveva ragione. Eppure noi guardiamo Walter e… cosa vediamo di tutto questo?

Credo che ognuno abbia una sua vita segreta. Fatta di sogni, certo, ma anche di imprese, piccole e grandi, gesti d’amore quotidiani troppo spesso dati per scontato, tensioni e desideri, passi avanti e passi indietro.

La quintessenza della vita è racchiusa in ciascuno di noi, dobbiamo solo guardarci e guardare, davvero però, e ricordarci di celebrarla questa vita, sempre.

 

“Beautiful things don’t ask for attention.”

“I vagabondi”, di Olga Tokarczuk

(di Luciano Sartirana)

Ho letto I vagabondi, di Olga Tokarczuk

La prima cosa che si può dire è che ha una qualità non comune: mette voglia di scrivere a tua volta!
Molti libri sono bellissimi, coinvolgono e appagano per lo stile, la trama o i personaggi; suscitano ammirazione, che però è parente stretta e compagna di banco dell’inarrivabilità e del senso di minoranza rispetto a essi… si resta lettori, ci si inchina e ci si ferma lì.
Olga invece ha una tale libertà di direzioni, di registri narrativi, di dimenticarsi un personaggio per riprenderlo molto dopo con intatta lucentezza, di inserire riflessioni, di lanciare un programma quasi filosofico e negarlo per via fingendo il nulla. Hai troppe idee, hai confusione nella testa? Olga ti mostra come puoi tranquillamente inseguire tutto, e tirare le fila con semplicità perché quelle fila sono già dentro di te e in ciò che scrivi.
Scrivere con anarchia: una maieutica, signorile, generosa anarchia.

La dovizia del suo immaginare ci scodella più storie, una più singolare dell’altra.

Una giovane coppia con pargola va in vacanza sull’isola croata di Lissa, ma madre e figlia scompaiono in un luogo da cui è impossibile andarsene od occultarsi senza essere visti; marito, polizia, enti locali e gente le cercano senza risultato.
Una donna torna in Polonia dopo tantissimi anni, solo per aiutare il suo primo amore a morire.
La sorella di Chopin, appresa la morte di Chopin, va a Parigi e prende il cuore di Chopin per seppellirlo a Varsavia.
Nel ‘600, un ossessionato anatomista olandese scopre il tendine di Achille facendo a pezzi la propria gamba amputata, dalla quale seguitava a sentire dolore.
Nel ‘700, un bambino africano viene rapito e portato alla corte di Vienna come attrazione; quando muore viene addirittura impagliato e messo in mostra, ma la figlia scrive all’imperatore perché suo padre abbia degna sepoltura.

Storie che afferrano subito l’attenzione da tanto sono eccentriche, se la rimbalzano l’un l’altra, spariscono e riemergono come sogni o ruscelli sotterranei, ti riportano a loro quando meno te la aspetti. E con quali rivelazioni su ciò che avevamo già considerato una storia esaurita! Non ci si acquieta in finali banali, con Olga. Non ci si acquieta e basta.

C’è infine un filo sottile di riflessione, più volte dichiarato dall’autrice: approfondire la psicologia del viaggio… i luoghi di partenza e di arrivo e gli intermedi, le motivazioni di tutti coloro che si spostano, le modalità di incontro o di fuga, l’attesa, il respiro e le suggestioni dell’andare di qua e di là. E ce n’è un altro, non dichiarato da Olga ma svolto anche più a fondo del primo, addirittura in aperta contrapposizione con esso: fermare il corpo… l’opposto del viaggio, appunto; attraverso l’antica mummificazione e la moderna plastinazione, un’umanità ossessivamente curiosa del guardarsi dentro nel senso degli organi, delle singolari tecniche di un desiderio così particolare. Quasi a riconoscere che non possiamo mai conoscere davvero la nostra interiorità (infatti fuggiamo di continuo da esso attraverso il viaggio), ma la materia, gli organi o i colori di cui siamo composti sì.

Un libro che cattura con stile fibrillante, e ti porta dentro confini mai davvero immaginati da nessuno. Unico! Unica Olga…!

“Snaturati”, di Marco Morosini

(di Luciano Sartirana)

Un libro incandescente per riflettere sulla metamorfosi del Movimento 5 Stelle.

È possibile capire il Movimento 5 Stelle, le sue scelte che fanno discutere come i punti di forza, le sue fessure, le sue incongruenze?
La risposta è in un libro di Marco Morosini, già ispiratore e ghostwriter di Beppe Grillo, e – come scrive Il Fatto quotidiano – uno dei tre padri del Movimento 5 Stelle: Snaturati. Dalla social-ecologia al populismo. (Auto-)biografia non autorizzata del Movimento Cinque Stelle, uscito da poco per l’editore Castelvecchi.

L’autore è lo scienziato e umorista che dal 1992 ha fornito a Grillo quello che poi sarebbe diventato il substrato culturale del Movimento 5 Stelle dei primi tempi: la critica al consumismo, alla pubblicità e alle merci, la denuncia dei danni ambientali spesso nascosti, le conseguenze dello strapotere delle grandi multinazionali. E insieme a questo, innumerevoli trovate di scena capaci di informare e far riflettere il pubblico: lo spazzolino a testina cambiabile, il furgone a idrogeno, la tosaerba a pannelli solari, i due cavi dell’energia e dell’informazione gettati addosso al pubblico.

Marco Morosini, di fatto, ha messo il primo carburante nel motore della maggiore novità politica del dopoguerra. Insegna Politiche ambientali al Politecnico federale di Zurigo e ha lavorato in Germania come al Center of Technology Assessment di Stoccarda, dove ha diretto un progetto sugli indicatori di sviluppo sostenibile, e come chimico analista ambientale all’Università di Ulm; sua è la prima mappatura mondiale della contaminazione dell’aria in regioni remote. Infito è stato chiamato al Politecnico di Zurigo per un progetto della Commissione europea sul principio di precauzione.

Il titolo del libro, Snaturati – Dalla social-ecologia al populismo, dice già molto di come Morosini veda il percorso del Movimento 5 Stelle, anche al di là dei due governi ai quali esso ha partecipato.
Il blog di Grillo e il Movimento sono nati ecologisti, razionalisti nell’individuare soluzioni radicali perché necessarie, critici verso certe tecnologie e verso la crescita economica divoratrice di risorse e di tessuto sociale. Una sorta di preistoria del Movimento, se pensiamo poi alle generalizzazioni facili “”tutti a casa!”), alla denigrazione degli avversari, considerati nemici, alla volgarità dei Vaffa-day, l’adesione alla pratica di politiche disumane sull’immigrazione, alle votazioni in rete a volte disoneste e sempre non verificabili.
Secondo Morosini “il Movimento 5 Stelle è un’automobile con il motore di sinistra ecologista e il volante di destra populista”. Al di là di questa formulazione didascalica “alla Grillo”, il libro affronta però la duplicità con rigore di studioso, seppure con un linguaggio molto accessibile.

Un nodo è quello dell’ambiguità destra-sinistra. Il Movimento 5 Stelle è cresciuto nel tempo proclamandosi “oltre” questa distinzione, da esso definita superata. Questo ha permesso di portare avanti indifferentemente temi fra i più disparati, presentarsi come una novità mai vista, attirare elettori di ogni provenienza. E di stare al governo sia con la destra estrema di Salvini che con la sinistra riformista di Zingaretti. Ma chiunque conosce la politica sa che non dire di non essere di destra né di sinistra significa stare a destra.

Un altro è la visione che la centrale del Movimento ha delle tecnologie. L’incontro con il messianismo digitale di Casaleggio ha fatto sposare a Grillo il digitalismo più spinto. La democrazia diretta tramite il voto on-line, un fideismo tecnocratico e un invaghimento giovanilistico per l’informatica che porta, come già oggi vediamo, a conseguente inquietanti. Riflette Morosini:”le tecnologie digitali permettono di creare una struttura politica privata, diretta da una persona non eletta, inamovibile […] Tra la centrale e l’iscritto la trasparenza è a senso unico, la centrale sa molto dell’iscritto, ma l’iscritto non sa niente della centrale”. Ne conseguono diverse storture, tra le quali la diffusione di falsità, l’eliminazione del dibattito, sostituito dalle votazioni on-line, la riduzione della complessità delle cose a tecnica empirica. L’autore riporta un esempio illuminante: nel 2012, in un forum 5 Stelle dove chiunque poteva proporre iniziative per il programma elettorale, lui e altri proposero una quota uguale di donne e uomini nelle liste. La proposta prese poche decine di voti, mentre quella di riaprire le case chiuse ne raccolse 4.058.

Un terzo nodo (ma primigenio nel determinare i difetti del Movimento) riguarda la presenza – amzi la assenza – femminile ai vertici del partito. Nello stato maggiore del Movimento e ai livelli intermedi importanti non ci sono donne. Le uniche eccezioni sono le due coraggiose sindache di Torino e Roma, Chiara Appendino e Virginia Raggi. Presenze che Marco Morosini commenta così: “Esse sono fusibili, pronte ad essere sacrificate appena necessario, senza chance a livello nazionale. Malgrado la loro nuova preziosa esperienza di amministratrici sul campo, il divieto 5 Stelle di interrompere un mandato per un altro le mette fuori gioco per ulteriori e più alti incarichi, lasciando così spazio al vertice a chi non ha esperienza nell’amministrare. Quando avranno una buona esperienza di governo locale, l’altra regola 5 Stelle, quella del massimo di due mandati, causerà la loro uscita dalla politica attiva”.
Come conseguenza di questo assoluto dominio maschile, prevalgono nel Movimento linguaggio e atteggiamenti grevi verso gli avversari. Le ministre del governo Renzi furono chiamate “veline”. Le aggressioni al di sotto della cintura alla Presidente della Camera Laura Boldrini non ci sarebbero state se al suo posto ci fosse stato un uomo. Citiamo ancora Morosin: “La dominanza maschile nel Movimento ha un caro prezzo. Essa infatti tiene lontane molte donne di valore. L’avversione di molte donne per i modi aggressivi e volgari dei capi 5 Stelle danneggia sia il Movimento sia la comunità. Sotto l’egemonia maschile, infatti, l’azione e lo stile del Movimento attirano molti più uomini che donne, in una spirale mascolina che aggrava il problema. La presenza femminile, evanescente salendo nella gerarchia politica 5 Stelle, mi colpisce specialmente se la comparo con quella della Svizzera. Qui le donne sono passate in quarant’anni dal non avere diritto di voto, fino al 1971, a ricoprire contemporaneamente sette delle dieci più alte cariche della Confederazione nel 2011”.

Snaturati non si limita però a evidenziare i vizi originari del Movimento. Con profondità, competenza e dovizia di particolari, Marco Morosini ripercorre i due primi temi che lo hanno spinto a rendersi utile nel M5S nel 2012: il contrasto del dominio maschile (di cui abbiamo parlato) e la riduzione del tempo di lavoro, dapprima a una settimana lavorativa di 30 ore, poi anche a meno. Questo sarebbe il primo provvedimento per fare respirare sia i lavoratori sia la natura (con meno produzione e meno inquinamento). Un tempo di lavoro retribuito più breve, però, permetterebbe soprattutto di dedicare altrettanto tempo al lavoro di cura nella famiglia e al lavoro sociale volontario. Ci si accorgerebbe quindi che questi due ultime forme di lavoro sono la grande parte immersa dell’iceberg del lavoro, senza la quale la piccola parte emersa – il lavoro retribuito – non starebbe in piedi.

La pars costruens di Morosini, ossia ciò che poteva essere, e che forse potrebbe essere) prosegue toccando reddito universale di base, il divario salariale, la riforma ecologica fiscale, il 100% di energie rinnovabili. Temi fondamentali che Marco Morosini portò avanti nel 2012 sulla piattaforma Import-Idee del Meetup Europa.
Snaturati è un libro stimolante, che pone idee mai scontate quasi a ogni pagina. Un libro che aiuta a comprendere una delle più importanti novità politiche italiane ma anche internazionali. Che parla del Movimento 5 Stelle, ma anche dei temi più urgenti delle società d’oggi e specialmente dei danni e dei rischi ecologici e umani associati con la dilagante “digitalizzazione di tutto” (DDT).
Snaturati è un testo godibilissimo, che narra una complessa avventura politica e di pensiero con uno stile appassionato, personale, onesto. La parte più deliziosa è fatta di ottanta sapidi aforismi di Morosini. Questi sono sparsi nel libro, così come avviene per dici ritratti d’autore, che Morosini chiama polaroid, che raccontano con brio e non celata emozione altrettanti momenti del sodalizio quasi trentennale tra l’autore e Beppe Grillo. Da dentro, sempre con intelligenza.

Lezioni di scrittura: la danza dei Cinque

(di Luciano Sartirana)

Ogni testo di narrativa è composto da cinque elementi…
sono stili, punti di vista, situazioni, forme della realtà da narrare!

L’azione è ciò che accade all’Io narrante, al protagonista,
alle persone attorno, alle città dove ambientiamo la storia o al pianeta tutto.
Chi è implicato nell’azione può avere un ruolo attivo, cioè la provoca, la decide, la fa accadere, la
interpreta; oppure passivo, nel senso che gli capita, lo aggredisce o gli succede accanto.
Azione è l’acquisto di un biglietto del tram, il lungo viaggio, una sparatoria, la corsa a casa sotto
il temporale.
Descrivi l’azione in modo chiaro, fai capire cosa succede senza lasciare dubbi, non mettere troppi
particolari.

Il dialogo porta avanti gli eventi, aggiunge informazioni, descrive i rapporti fra le persone e il loro
mondo interiore.
Il dialogo diretto avvicina moltissimo la narrazione ai personaggi
e al lettore, come il primissimo piano nel cinema.
Evita il più possibile il dialogo indiretto.
Chiediti qual è il tema della conversazione e vai dritto al punto.
Assegna cinque battute per dialogante, poi ne aggiungi o ne togli.
Evita i convenevoli, i normali saluti a inizio e fine dialogo.
Rileggi i tuoi dialoghi a voce alta, così capirai se sono noiosi.
Fai parlare ciascuno dei tuoi personaggi in modo diverso.

La descrizione sembra un’arte passata di moda. In realtà, è sempre importante dare un’occhiata
alle stanze, agli oggetti, alle auto, ai monti e ai cartelli pubblicitari, al taglio di luce,
alla meteorologia… completano l’atmosfera del racconto, ci collocano i personaggi in un
preciso posto e con determinate cose fra le mani.
Crea la scenografia dove succedono gli eventi, e aiuta perfino a descrivere come i personaggi
stessi si sentono.
Non accumulare troppe cose nella descrizione, ma individua i pochi tratti che risultano
più significativi per la tua storia.

L’interiorità appare spesso come segno
di grande letteratura, ma devi renderla più concreta possibile.
Evita espressioni generiche: vago, un senso, un qualcosa, un vuoto; quasi, un po’, appena, avere l’impressione;
non usare mai gli aggettivi strano e squallido, o la forma impersonale.
Parla dello stato d’animo attraverso oggetti, piccole situazioni, ricordi, stati
fisici (es.: la solitudine è un telefono che non squilla).
Racconta come e quando è iniziato quel sentimento, lo sviluppo, cosa si è aggiunto,
se qualcuno vi è intervenuto.
Riporta le azioni anche piccole che il personaggio compie, soprattutto il suo monologo interiore.

La riflessione sei tu autrice o autore che dici la tua sulla storia, i personaggi e il loro carattere
e ciò che fanno, riassumi la trama o inserisci spunti filosofici o psicologici, persino su come va il mondo stesso.
Puoi essere pensoso o ironico, cinico e disincantato come divertito, affettuoso, nostalgico.
Puoi accostarti a uno dei tuoi personaggi e dire chiaramente ciò che pensi di lui.
Affrontare grandi temi che importunano l’umanità da millenni o brontolare per il prezzo della benzina nella tua storia.
Devi solo evitare di essere prolisso, presuntuoso, artificiale.
Scrivi ciò che pensi nel modo più diretto, sintetico, comprensibile; lima le parole, togline un po’.
O anche attribuisci la tua opinione a un personaggio minore.
Una riflessione fatta bene arricchisce e dà spessore alla trama che stai raccontando.

Una volta finito di raccontare ciò che vuoi con uno di questi elementi, prosegui scegliendo uno degli altri quattro.
Tutti e cinque ti stupiranno!

La vegetariana

Ovvero l’efficacia onirica

(di Federica Tosadori)

Una curiosità profonda, come non mi accadeva da tempo, mi ha fatto avvicinare di soppiatto a questo libro. Ci siamo osservati da lontano, come due gatti che studiano i rispettivi occhi luminosi, lui dal suo scaffale da libreria di stazione, in alto, io poco più in basso, timidamente. Era una mattina di dicembre nebbiosa e io aspettavo un treno per Mantova girovagando tra i volumi poco lontano dai binari. Lo stavo cercando ma lui non c’era in nessun reparto, e non volevo chiedere aiuto perché faccio fatica a trovare una gioia migliore di quella di scovare tra mille, il libro che si sta ardentemente aspettando di trovare. Perse le speranze mi sono recata allo scaffale delle riviste, decisa e rassegnata… a quel punto è stato lui ad ammiccarmi dalla sua posizione di “libri più letti”. D’altronde La vegetariana della scrittrice coreana Han Kang è vincitore del premio Man Booker International Prize 2016, il premio letterario dedicato alla narrativa tradotta in inglese del Regno Unito, dunque potevo proprio aspettarmelo che l’avrei trovato lì, subito all’ingresso.

Ma ormai non ci pensavo più. Mi ero già innamorata della sua copertina panna Adelphi, del suo fiore bianco ferito di rosso in copertina, della delicatezza sottile del suo essere. E la forza del suo titolo La vegetariana. Niente a che vedere con le mode, le credenze, le scelte prese, criticate, seguite oggi. Quel titolo prescindeva, era qualcosa di più. Si è soliti affermare, che è necessario amare se stessi prima di poter amare l’altro, ma secondo me prima bisognerebbe amare un libro e poi apprezzare tutta la realtà circostante. Questo è uno di quei testi che silenziosamente urla tutta la bellezza dell’esistenza. Tutta la bellezza del dolore consapevole.

Sta di fatto che me lo sono portata a Mantova e l’ho tenuto fermo lì immobile, non-letto, presa da altri impegni di letture studiose, per più di un mese. Ma ci pensavo spesso e ne pregustavo il sapore che sentivo essere agrodolce. Quante storie personali girano al di fuori dei libri senza che loro lo sappiano. Pazienti aspettano che arrivi il loro turno mentre i lettori vivono. Quando infatti, dopo un Natale fugace, ho sentito che ne avevo fortemente bisogno l’ho ripreso tra le mie mani, come quella prima volta in libreria, e l’ho aperto. Una settimana, nei viaggi in treno e in metro, in tram e nella notte, e l’ho richiuso estasiata. Ogni cosa ha più senso quando si legge il libro esatto. E quando dico esatto intendo inevitabile.

Estremamente crudo e violento, dietro il velo di pacatezza oltre il quale sembra riposare, La vegetariana è un libro capace di far riaffiorare con delicatezza una pesantezza esistenziale. I personaggi escono dalle pagine lentamente, come dei fantasmi vaporosi che prendono corpo senza fare troppi capricci, danzando coraggiosamente davanti ai nostri occhi lettori. Apparentemente la trama è molto semplice: una donna, comune, decide improvvisamente, dopo aver fatto un sogno, come ripete lei, di diventare vegetariana, avendo fino al giorno prima cucinato qualsiasi tipo di carne per il marito, un uomo altrettanto comune, così come sono comuni la sorella di lei e la sua stessa famiglia. Insieme intrecciati i personaggi ruotano intorno a Yeong-hye, la vegetariana appunto, e alla sua rinuncia, lasciando che dentro di loro si dilatino i confini rigidi all’interno dei quali avevano abitato fino a quel momento.

Sogno un omicidio.

Uccido qualcuno o vengo ammazzata… le distinzioni sono confuse, i confini si erodono. La familiarità sfuma nell’estraneità, ogni certezza diventa impossibile. Solo la violenza è abbastanza vivida da rimanere. Un rumore, l’elasticità dell’istante in cui il metallo colpiva la testa della vittima… l’ombra che si accasciava e cadeva, un baluginio freddo nell’oscurità.

Adesso i sogni vengono più volte di quante non riesca a contare. Sogni sovrapposti ad altri sogni, un palinsesto dell’orrore. Atti di violenza perpetrati di notte. Una sensazione vaga che non riesco a fissare… ma che ricordo come spaventosamente definita.

Una ripugnanza intollerabile, così a lungo soffocata. Una ripugnanza che ho sempre cercato di mascherare con l’affetto. Ma adesso la maschera si sta staccando.

Quella sensazione raccapricciante, sordida, orrenda, brutale. Non resta nient’altro. Omicida o vittima, un’esperienza troppo nitida per non essere reale. Determinata, disillusa. Tiepida, come sangue appena raffreddato.

Comincia a sembrarmi tutto insolito, quasi mi fossi accostata al rovescio di qualcosa. Chiusa dentro una porta senza maniglia. Forse solo ora mi ritrovo faccia a faccia con qualcosa che è sempre stato qui. È buio. Tutto si spegne nell’oscurità più nera.

La voce della protagonista è relegata a dei singoli brevi frammenti, che svaniscono dopo la fine della prima parte della storia, che è divisa in tre punti di vista. Sappiamo e vediamo di lei solo quello che sanno e vedono gli altri personaggi, di cui invece indaghiamo l’intimità, in un climax profondo e inaspettato. Ogni pagina è una sorpresa in questo testo così semplice e fluido alla lettura, come se toccasse solo obliquamente sofferenze individuali insanabili. La sensazione è quella di una passeggiata tra la folla in cui ci si ritrova continuamente a rimbalzare da uno sguardo all’altro, chiedendosi: ma cosa c’è che non va in questi occhi? E in questi altri?

Senza avere risposte si prosegue a camminare, e a leggere. Seul è diventata Milano, Milano diventa una città qualunque. Il coreano diventa italiano, l’italiano diventa una lingua qualsiasi, immagini di fiori violentemente colorati spuntano dalle parole del libro. Dal luogo più lontano dell’universo al minimo pensiero umano, tutto viene racchiuso nella pace aspra di queste pagine. Ogni battaglia personale, anche quella più insensata, ha la stessa dignità naturale di una foglia che si aggrappa al suo ramo durante una tempesta. Quindi anche una rinuncia, un allontanamento, un rifiuto deciso di ogni tipo di violenza rappresentano una guerra senza armi che è inevitabile in questo caso e in chissà quanti altri. La decisione della protagonista è un grido di vita, anche se si presenta come un’autodistruzione, dato che subito dopo la carne la protagonista si troverà a eliminare altro cibo, sempre di più, compiendo un percorso che la avvicina al suo nucleo vegetale. La resistenza che ci imponiamo ogni giorno, perché in fondo il libro parla di noi, è qualcosa che può essere trasformato in positivo. Come una fotosintesi clorofilliana, che risucchia tutto generando nuova energia.

E pensare che è stata tutta colpa di un incubo.

I corti. Jazz.

(un racconto di Monica Frigerio)

– Davvero suoni la batteria?
– Sì.
Mi sorrise come le stessi chiedendo la cosa più assurda del mondo.
– Che bello. Mi piacerebbe sentirti ogni tanto.
– Stasera volevo andare in quel locale sulla Gribojedova, fanno jam sessions ogni martedì sera, vieni?

Lo stereo sputava nell’aria le conversazioni di If I had you, veleno per ricordi addormentati.
Dima si vestì in fretta e decise di uscire. Le acque del fiume erano nere nei tratti dove il sole ormai al tramonto non le illuminava. Le isole incombevano come morti che si risvegliano da un lungo sonno mentre i lavoratori facevano ritorno nelle loro case traballanti.
Percorse il ponte ondeggiando sui suoi piedi, vedeva le colonne di fabbriche davanti a sé come barriere scagliate nel paesaggio.
Se gli fosse stato concesso di rinchiudere in una scatola quella malinconia lo avrebbe fatto, ma sapeva che era suo dovere lasciarla andare. Avrebbe per sempre ricordato solo le lenzuola bianche, spiegazzate e poi due occhi azzurro fradicio che gli raccontavano cos’era successo.

Si gettò in una tavola calda prendendo posto vicino alla finestra. Studiò l’ambiente, quasi circospetto, e mentre ordinava alla cameriera sentiva le risate degli altri clienti intorno che mostravano, digrignando, i loro denti perfetti.
Calò la testa penitente sul tavolo a maioliche e si concentrò nello sforzo non voluto di ripercorrere la loro geometria.

Se solo ogni tanto ci fosse un vago alone di stabilità in quello che stiamo facendo, forse… forse sarei felice. Ma può anche darsi che durerebbe poco, poi mi tornerebbe la nausea, ricomincerebbe tutto da capo, mi troverei seduto di nuovo qui o da qualche altra parte a rimuginare su cosa mi abbia trascinato fino a questo punto.

Ricordò il loro piccolo viaggio in treno per arrivare a Helsingør, quell’estate che sembrava dicembre quando era andato a trovarla in Danimarca. Le foreste dietro i finestrini e la testa sempre appoggiata lì, sulla sua spalla.
Faceva freddo, il cielo non aveva ancora smesso di lamentarsi e scagliare a terra i suoi pianti eppure, concentrandosi, si vedevano le coste sfumate della Svezia dall’altra parte.
Durante il viaggio di ritorno non si scambiarono una parola, ma non gli lasciò mai la mano. Era stato forse il giorno seguente, quando, dopo averlo fatto andare fino a lì, lei gli aveva detto che le dispiaceva immensamente, ma ormai…  non aveva potuto sopportare le distanze e non aveva avuto cuore di dirglielo al telefono.
“C’è del marcio in Danimarca…”, gli passò per la mente con noncurante ironia.

Le ragazze a fianco avevano ordinato dei pancake e li stavano ricoprendo di marmellata ai frutti rossi, il rumore del coltello che si intingeva nel vasetto gli riempì le orecchie.

Basterebbe farsi amici dell’imprevedibilità… tenere gli occhi chiusi, anzi no uno meglio lasciarlo aperto. Girarle intorno, all’imprevedibilità, ma circospetti. Per non trovarsi maceria degli eventi. Hai maggiori possibilità di sopravvivere se sopporti la perdita senza diventare cinico.

Pensò a tutte quelle volte in cui il suo cuore si era ridotto a un organo isterico e irrequieto. Ai tentativi malriusciti di lei, di catturarlo su un foglio da disegno, quell’estate che era venuta a San Pietroburgo per frequentare un corso all’accademia.
Quella sera, per lo più, avrebbe voluto scivolare per le vie anestetizzate della sua città, fra le spirali di luci, invisibile.
Oppure essere una macchia di colore informe. Rosso come, non la passione, ma la tenerezza, perché è quasi sempre colpa sua.

La cameriera tornò con il piatto che aveva ordinato.
– Anche un whiskey per favore.

Animali notturni

(di Monica Frigerio)

Ogni tanto, quando alle sei del mattino suona la sveglia che ci chiama al lavoro, ci si chiede se, per caso, la nostra schiena si sia indurita, il torso si sia allargato e le membra tutte abbiano perso un po’ della loro sensibilità. Ci si chiede, insomma, se si sia stati trasformati in un Ungeziefer, quel grande insetto parassitario che nelle fantasie di Kafka diventa Gregor Samsa.

Ma no, tutto sembra a posto, scherzi di quel genere avvengono solo in quegli stretti cunicoli tenebrosi dove quel ragazzo esile e spigoloso trascina chi legge la sua opera.

Noi siamo ancora relegati alla nostra essenza umana.

Si dice che sia letteratura tutto ciò che possa venire riletto almeno due volte, ebbene di Franz Kafka noi possiamo rileggere le pagine anche decine e decine di volte e ancora trovarci nuovi significati, sia nei romanzi di più ampio respiro quanto nei racconti, che, anche tralasciando i primi, riescono a imprimere quale sia il giusto valore artistico della prosa kafkiana.

Una cosa in particolare continua a stupire, la natura del suo metodo compositivo. Ci fu un momento nella sua vita che fu particolarmente significativo in questo senso, fu la notte tra il 22 e il 23 settembre 1912. Kafka aveva passato il pomeriggio in tediosa compagnia, con dei parenti che erano venuti a trovare la famiglia. Terminato il momento di socialité, verso le dieci di sera, tornò nella sua camera, si mise alla scrivania e da lì non si mosse fino alle sei del mattino quando la domestica entrò in casa pronta a intraprendere il suo lavoro quotidiano.

Fino a quel momento Kafka era stato preso da una sorta di blocco, il comporre non gli riusciva facile e si legge nei suoi diari che «quasi nessuna delle parole che scrivo è adatta alle altre, sento come le consonanti stridono tra di loro con suono di latta e le vocali le accompagnano col canto come negri all’esposizione. I miei dubbi stanno in cerchio attorno ad ogni parola e li vedo prima della parola».

Finalmente quella notte tutto questo venne a cadere e in quelle ore cruciali Kafka fissò per sempre quale fosse la sua concezione di letteratura, la sua ispirazione poetica, che tanto si discosta da quel lavorio artigianale che contraddistingue l’operato della maggior parte degli scrittori. Lui era in grado di creare solo così: di notte, da solo, avvolto nel più totale silenzio, in una pace imperturbabile che non conosce contatto umano, simile alla morte. Correggeva pochissimo i suoi manoscritti, per lui «il problema dell’architettura narrativa non esisteva […] questa ispirazione notturna possedeva tutta la sapienza strutturale di cui aveva bisogno»[1].

E così nacque La condanna, un invito nelle profondità dell’animo umano, un racconto incredibile di usurpazione e sacrifici, tra padri e figli, in cui la materia del racconto ci scivola tra le mani e sotto gli occhi, e la cosa che più sconcerta e rende incredulo il lettore è il fatto che non ci sia psicologia, non ci siano spiegazioni o ragioni, come se una lampadina fosse stata accesa sul palcoscenico dell’inconscio, semplicemente mettendocelo in mostra.

Si tratta di un racconto ricco di motivi archetipici, e anche biografici. Non è un caso che a quel tempo avesse da poco conosciuto la signorina Felice Bauer – nome che certo richiama la fittizia Frieda Brandenfeld del racconto, fidanzata del protagonista Georg Bendemann – a casa dell’amico Max Brod, e avesse appena iniziato con lei quella che sarebbe stata nei cinque anni successivi una fittissima corrispondenza. Il motivo del fidanzamento è sicuramente una delle colonne portanti di «questo parto di muco e lordura», così Kafka, che fa scaturire l’ineluttabile condanna da parte del padre verso un figlio che ha osato gareggiare con lui peccando di hybris e finisce con l’infliggersi da solo la peggiore delle punizioni. Conoscendo i difficili rapporti che Franz aveva col padre Hermann Kafka sembrerebbe obbligata l’interpretazione psicoanalitica, si veda il famoso «Sono coperto bene ora?», zugedeckt, che in tedesco vuol dire sia ‘coprire’ che ‘seppellire’.

Tuttavia ridurre tutto alla psicoanalisi non è possibile. Solo suggerimenti sparsi nel testo, egli fece in realtà qualcosa di ben più grande, da identificarsi nella lotta che intraprese con la propria esistenza, la sua capacità di estraniarsi dalla realtà circostante per creare «quella sostanza pura, translucida, assente, vuota, che si chiama letteratura»[2] e rifugge da ogni schema.

Queste caverne, che Kafka si limita a indicarci, restano lì per noi da esplorare, se solo non si ha troppa paura.

[1] Pietro Citati, Kafka, Rizzoli, Milano 1987, p. 59.

[2] Ivi, p. 56.

Intervista ai SIC

(di Federica Tosadori)

Ho avvertito recentemente il bisogno di saperne di più sul macrotema della scrittura collettiva. Se ne parla da quasi un secolo, probabilmente la si pratica da molto prima. Di gruppi ne nascono continuamente e io ho avuto il piacere di imbattermi in uno di questi: i SIC.
La sigla sta per Scrittura Industriale Collettiva e indica un metodo ma anche la comunità stessa di scrittori, come apprendo dal sito ufficiale.
L’idea è nata e si è sviluppata nel 2007 con Vanni Santoni e Gregorio Magini, i quali sono anche autori di libri individuali. Il metodo in breve si basa sul principio del “tutti scrivono tutto” e si sviluppa a partire dalla compilazione di schede che poi vengono accorpate dai direttori artistici.
Nel 2013, dopo qualche anno di lavoro, i SIC hanno pubblicato il romanzo a tante mani, duecentotrenta per la precisione, In territorio nemico, sul tema della lotta partigiana, basato su veri aneddoti raccolti dagli scrittori precedentemente e poi rielaborati a formare una trama.
Un progetto decisamente intrigante!

Lascio ora a voi le risposte dei SIC alle mie domande:

Buongiorno SIC! Esattamente: quanti siete? Come funzionano i vostri gruppi di scrittori? Quanto è importante la pre – organizzazione e la pre – definizione del soggetto? Ciascuno di voi ha un ruolo preciso e diverso, oppure no?

Se parliamo del progetto SIC, siamo due. Gregorio Magini e Vanni Santoni, ideatori del metodo e coordinatori dei progetti ufficiali, su tutti il romanzo In territorio nemico. Se parliamo delle opere, vanno dai sei autori del primo racconto ai centoquindici del romanzo. Senza contare le molte opere non ufficiali scritte comunque col nostro metodo, che è a sorgente aperta e liberamente utilizzabile. I ruoli di ciascuno possono cambiare a seconda della singola opera, per approfondire si può leggere il metodo qui.

In Territorio Nemico

Cosa ci dite del libro In territorio nemico? Siete soddisfatti? Nel leggerlo mi sono subito resa conto che si tratta di un testo che non poteva essere scritto da un singolo autore; il lavoro di ricerca è approfondito e accurato, i personaggi analizzati nel profondo… un vero lavoro di squadra! Mi sbaglio?

Grazie per l’apprezzamento. Il libro è stato un successo sia a livello di pubblico che di critica, come si può riscontrare da qui, e ci rallegra molto saperlo ancora letto nelle scuole e studiato nei dipartimenti di italianistica – a oggi sono quattordici le tesi di laurea o di dottorato dedicate a In territorio nemico e alla SIC – ma soprattutto è stato un successo perché ha mostrato l’efficacia del metodo anche in un’opera ambiziosa e di un certo respiro.

Potete raccontarci i pro e i contro dello scrivere collettivamente? Quali difficoltà e quali piacevoli sorprese avete riscontrato?

La scrittura collettiva è un’arte differente dalla scrittura individuale, ha più a che fare col cinema o col montaggio. Sicuramente ha un enorme potenziale nel trovare buone idee, perché mette a frutto, a patto di usare un vero metodo di scrittura e non limitarsi a far ”staffette”, il lavoro di più menti. Dall’altro lato ovviamente, richiede molto lavoro perché si producono molti più materiali che poi vengono ”distillati”, senza contare l’impegno richiesto dal coordinamento di tanti autori.

Come vi rapportate con la tradizione letteraria della scrittura collettiva – Futurismo, Surrealismo…? Con il presente, gli altri gruppi on-line e off-line? E con i social?

Il nostro obiettivo era portare allo stato maturo la scrittura collettiva tramite l’ideazione, il rodaggio e il perfezionamento di un metodo univoco che potesse essere usato da chiunque. Ci siamo riusciti. Ovviamente per farlo abbiamo tenuto conto della tradizione, molto forte in Italia, in cui andavamo a inserirci, tema di cui il nostro fondatore Vanni Santoni ha scritto qui.

Cosa vi aspettate dal vostro progetto in futuro? Un’ulteriore pubblicazione? Qualche miglioramento da apportare?

Siamo troppo impegnati con i nostri romanzi individuali, al punto che abbiamo rifiutato anche offerte di scrivere nuovi romanzi col metodo SIC. Esso però continua in molte sedi, ad esempio alla NABA Dimitri Chimenti lo utilizza con i suoi studenti per la produzione di sceneggiature. Il metodo è di per sé modulare e a sorgente aperta, è strutturato in modo che chiunque possa adattarlo o aggiungere ”patch” a seconda delle esigenze specifiche della storia che vuole scrivere.

Come pensate possa cambiare la letteratura alla luce delle ultime novità metodologiche di scrittura?

La scrittura collettiva pone questioni e apre scenari interessanti, di cui abbiamo scritto in particolare in due articoli: Letteratura come network e Solve e coagula.

Perché il Nobel a Bob Dylan?

(di Monica Frigerio)

Il Nobel per la letteratura 2016 è finito tra le mani di Bob Dylan.

La motivazione ufficiale al momento dell’assegnazione del Premio è stata la seguente: “Per avere dato vita a una nuova poetica espressiva all’interno della tradizione della canzone americana”.

Quale è stata questa poetica?

Nelle note di copertina del suo quinto album, Bringing it all back home, Bob Dylan scrive: «Mi chiamano autore di canzoni. / Una poesia è una persona nuda. /C’è chi dice / che io sia un poeta».

In realtà ricevere o meno questo appellativo non gli è mai importato molto, è nota la sua maleducata fragilità spesso sfociata in aperto snobismo, tanto quanto la sua arte camaleontica di trasformarsi e di aggiungere negli anni sempre nuove sfumature alla sua scrittura, una caratteristica propria di quelle persone che rinchiuse dentro un’etichetta non stanno troppo bene. Lo testimonia bene il celebre verso: «Senza casa, senza meta / come una pietra scalciata».

Possiamo definirlo e non definirlo poeta, ma certo è che il linguaggio di Bob Dylan ha aperto al mondo del rock una dimensione conoscitiva che non gli era mai appartenuta.

Dylan il trovadore, colui che nella sua veste di menestrello del folk, in un clima di generale decadenza della poesia, ha saputo riavvicinarla alle persone, riportarla alla sua forma primigenia che era quella cantata.

La sua opera, soprattutto nei primi tempi, a partire dall’omonimo album d’esordio del ’62, è fortemente radicata al momento storico da lui vissuto, ossia l’America delle proteste giovanili che infuriavano dopo un decennio di congelamento e aperta censura nei confronti di tutte le arti che osavano più del dovuto superando i confini della comune decenza e dei gusti delle persone “perbene”.

Dylan è stato un interprete efficace dei fermenti culturali che hanno caratterizzato i Sessanta e li ha riprodotti nei suoi brani arricchendoli di numerose citazioni letterarie di autori a lui affini.

In primis i legami con la Beat Generation. Dylan si trasferisce nel ’61 nel Greenwich Village a New York e qui inizia una serie di fortunati incontri con diversi autori, tra i più importanti Allen Ginsberg.

Fino a quel momento la poesia beat si era modellata sui ritmi sincopati del jazz di Monk o Gillespie, con l’emergere del folk questo stile riesce a trovare nuovi sbocchi inserendo la parola cantata a una musica che era solo strumentale e ritmica, e quindi trovando il naturale collegamento con la letteratura.

Fernanda Pivano e Ginsberg si ritrovano insieme a un concerto di Bob Dylan e questo è il ricordo di lei: «I ragazzi ripetevano i versi e Ginsberg mi diceva che quella era la nuova generazione, quello era il nuovo poeta; e mi chiedeva se mi rendevo conto di quale mezzo formidabile di diffusione disponesse adesso “il messaggio” grazie a Dylan. Ora, mi diceva, attraverso quei dischi non censurabili, attraverso i jukeboxes e la radio, milioni di persone avrebbero ascoltato la protesta che l’establishment aveva soffocato fino allora col pretesto della moralità e della censura».

La poetica beat era alla ricerca di mezzi espressivi primordiali, di valori morali sinceri, liberi dall’automazione imposta dai tempi.

Dylan grazie alla sua arte li declina attraverso una nuova forma espressiva, la musica, che riesce a trovare un’eco incredibile.

Tante sono le affinità anche con Jack Kerouac, non solo per la figura dell’hobo incarnata dall’artista stesso, personaggio solitario e senza meta (di nuovo like a rolling stone), ma anche per il metodo compositivo: Kerouac voleva tornare a un modo di scrivere che fosse flusso spontaneo, poco controllato, scrisse del resto Sulla strada per tre settimane, ininterrottamente e sotto l’effetto di anfetamine; Dylan allo stesso modo componeva per lo più seguendo il suo impulso creativo, spesso stava seduto per ore sullo stesso tavolo di un caffè e riempiva pagine e pagine di qualsiasi pensiero gli passasse per la testa.

A ciò si unì la fascinazione per mondi artificiali, di visioni e sinestesie, raggiunti anche tramite l’uso di sostanze stupefacenti che richiamano il dérèglement de tous les sens del giovane Rimbaud, i cui influssi iniziano a farsi sentire in brani che compaiono nel secondo album di studio, The freewheelin’ Bob Dylan e si faranno più evidenti a partire da Another side of Bob Dylan. Al mondo del rock si apre un mondo di conoscenza che nella poetica dell’autore può essere raggiunta solo attraverso l’intuizione poetica, allo stesso modo del poeta francese, e che non teme di mettere sottosopra i nessi logici che regolano la società.

Qui il discorso potrebbe essere approfondito o estendersi oltre, si potrebbe parlare di William Blake e della Bibbia – si pensi a un brano impregnato di agitazioni profetiche come Desolation Row di cui De André fece una splendida cover  in italiano–, e tanto altro, ma questo poco basti per rispondere, almeno in parte, alla domanda di quelli che si chiedono: «Cosa c’entra Bob Dylan con la letteratura?».

La breve citazione riportata tra virgolette è tratta da Fernanda Pivano, Beat Hippie yippie, Bompiani, Milano 1977; si possono invece trovare tutti i testi delle canzoni e delle poesia di Dylan tradotte in italiano nella collana Mr. Tambourine edita da Arcana Editrice.