I corti. Jazz.

(un racconto di Monica Frigerio)

– Davvero suoni la batteria?
– Sì.
Mi sorrise come le stessi chiedendo la cosa più assurda del mondo.
– Che bello. Mi piacerebbe sentirti ogni tanto.
– Stasera volevo andare in quel locale sulla Gribojedova, fanno jam sessions ogni martedì sera, vieni?

Lo stereo sputava nell’aria le conversazioni di If I had you, veleno per ricordi addormentati.
Dima si vestì in fretta e decise di uscire. Le acque del fiume erano nere nei tratti dove il sole ormai al tramonto non le illuminava. Le isole incombevano come morti che si risvegliano da un lungo sonno mentre i lavoratori facevano ritorno nelle loro case traballanti.
Percorse il ponte ondeggiando sui suoi piedi, vedeva le colonne di fabbriche davanti a sé come barriere scagliate nel paesaggio.
Se gli fosse stato concesso di rinchiudere in una scatola quella malinconia lo avrebbe fatto, ma sapeva che era suo dovere lasciarla andare. Avrebbe per sempre ricordato solo le lenzuola bianche, spiegazzate e poi due occhi azzurro fradicio che gli raccontavano cos’era successo.

Si gettò in una tavola calda prendendo posto vicino alla finestra. Studiò l’ambiente, quasi circospetto, e mentre ordinava alla cameriera sentiva le risate degli altri clienti intorno che mostravano, digrignando, i loro denti perfetti.
Calò la testa penitente sul tavolo a maioliche e si concentrò nello sforzo non voluto di ripercorrere la loro geometria.

Se solo ogni tanto ci fosse un vago alone di stabilità in quello che stiamo facendo, forse… forse sarei felice. Ma può anche darsi che durerebbe poco, poi mi tornerebbe la nausea, ricomincerebbe tutto da capo, mi troverei seduto di nuovo qui o da qualche altra parte a rimuginare su cosa mi abbia trascinato fino a questo punto.

Ricordò il loro piccolo viaggio in treno per arrivare a Helsingør, quell’estate che sembrava dicembre quando era andato a trovarla in Danimarca. Le foreste dietro i finestrini e la testa sempre appoggiata lì, sulla sua spalla.
Faceva freddo, il cielo non aveva ancora smesso di lamentarsi e scagliare a terra i suoi pianti eppure, concentrandosi, si vedevano le coste sfumate della Svezia dall’altra parte.
Durante il viaggio di ritorno non si scambiarono una parola, ma non gli lasciò mai la mano. Era stato forse il giorno seguente, quando, dopo averlo fatto andare fino a lì, lei gli aveva detto che le dispiaceva immensamente, ma ormai…  non aveva potuto sopportare le distanze e non aveva avuto cuore di dirglielo al telefono.
“C’è del marcio in Danimarca…”, gli passò per la mente con noncurante ironia.

Le ragazze a fianco avevano ordinato dei pancake e li stavano ricoprendo di marmellata ai frutti rossi, il rumore del coltello che si intingeva nel vasetto gli riempì le orecchie.

Basterebbe farsi amici dell’imprevedibilità… tenere gli occhi chiusi, anzi no uno meglio lasciarlo aperto. Girarle intorno, all’imprevedibilità, ma circospetti. Per non trovarsi maceria degli eventi. Hai maggiori possibilità di sopravvivere se sopporti la perdita senza diventare cinico.

Pensò a tutte quelle volte in cui il suo cuore si era ridotto a un organo isterico e irrequieto. Ai tentativi malriusciti di lei, di catturarlo su un foglio da disegno, quell’estate che era venuta a San Pietroburgo per frequentare un corso all’accademia.
Quella sera, per lo più, avrebbe voluto scivolare per le vie anestetizzate della sua città, fra le spirali di luci, invisibile.
Oppure essere una macchia di colore informe. Rosso come, non la passione, ma la tenerezza, perché è quasi sempre colpa sua.

La cameriera tornò con il piatto che aveva ordinato.
– Anche un whiskey per favore.

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