“I vagabondi”, di Olga Tokarczuk

(di Luciano Sartirana)

Ho letto I vagabondi, di Olga Tokarczuk

La prima cosa che si può dire è che ha una qualità non comune: mette voglia di scrivere a tua volta!
Molti libri sono bellissimi, coinvolgono e appagano per lo stile, la trama o i personaggi; suscitano ammirazione, che però è parente stretta e compagna di banco dell’inarrivabilità e del senso di minoranza rispetto a essi… si resta lettori, ci si inchina e ci si ferma lì.
Olga invece ha una tale libertà di direzioni, di registri narrativi, di dimenticarsi un personaggio per riprenderlo molto dopo con intatta lucentezza, di inserire riflessioni, di lanciare un programma quasi filosofico e negarlo per via fingendo il nulla. Hai troppe idee, hai confusione nella testa? Olga ti mostra come puoi tranquillamente inseguire tutto, e tirare le fila con semplicità perché quelle fila sono già dentro di te e in ciò che scrivi.
Scrivere con anarchia: una maieutica, signorile, generosa anarchia.

La dovizia del suo immaginare ci scodella più storie, una più singolare dell’altra.

Una giovane coppia con pargola va in vacanza sull’isola croata di Lissa, ma madre e figlia scompaiono in un luogo da cui è impossibile andarsene od occultarsi senza essere visti; marito, polizia, enti locali e gente le cercano senza risultato.
Una donna torna in Polonia dopo tantissimi anni, solo per aiutare il suo primo amore a morire.
La sorella di Chopin, appresa la morte di Chopin, va a Parigi e prende il cuore di Chopin per seppellirlo a Varsavia.
Nel ‘600, un ossessionato anatomista olandese scopre il tendine di Achille facendo a pezzi la propria gamba amputata, dalla quale seguitava a sentire dolore.
Nel ‘700, un bambino africano viene rapito e portato alla corte di Vienna come attrazione; quando muore viene addirittura impagliato e messo in mostra, ma la figlia scrive all’imperatore perché suo padre abbia degna sepoltura.

Storie che afferrano subito l’attenzione da tanto sono eccentriche, se la rimbalzano l’un l’altra, spariscono e riemergono come sogni o ruscelli sotterranei, ti riportano a loro quando meno te la aspetti. E con quali rivelazioni su ciò che avevamo già considerato una storia esaurita! Non ci si acquieta in finali banali, con Olga. Non ci si acquieta e basta.

C’è infine un filo sottile di riflessione, più volte dichiarato dall’autrice: approfondire la psicologia del viaggio… i luoghi di partenza e di arrivo e gli intermedi, le motivazioni di tutti coloro che si spostano, le modalità di incontro o di fuga, l’attesa, il respiro e le suggestioni dell’andare di qua e di là. E ce n’è un altro, non dichiarato da Olga ma svolto anche più a fondo del primo, addirittura in aperta contrapposizione con esso: fermare il corpo… l’opposto del viaggio, appunto; attraverso l’antica mummificazione e la moderna plastinazione, un’umanità ossessivamente curiosa del guardarsi dentro nel senso degli organi, delle singolari tecniche di un desiderio così particolare. Quasi a riconoscere che non possiamo mai conoscere davvero la nostra interiorità (infatti fuggiamo di continuo da esso attraverso il viaggio), ma la materia, gli organi o i colori di cui siamo composti sì.

Un libro che cattura con stile fibrillante, e ti porta dentro confini mai davvero immaginati da nessuno. Unico! Unica Olga…!

“Snaturati”, di Marco Morosini

(di Luciano Sartirana)

Un libro incandescente per riflettere sulla metamorfosi del Movimento 5 Stelle.

È possibile capire il Movimento 5 Stelle, le sue scelte che fanno discutere come i punti di forza, le sue fessure, le sue incongruenze?
La risposta è in un libro di Marco Morosini, già ispiratore e ghostwriter di Beppe Grillo, e – come scrive Il Fatto quotidiano – uno dei tre padri del Movimento 5 Stelle: Snaturati. Dalla social-ecologia al populismo. (Auto-)biografia non autorizzata del Movimento Cinque Stelle, uscito da poco per l’editore Castelvecchi.

L’autore è lo scienziato e umorista che dal 1992 ha fornito a Grillo quello che poi sarebbe diventato il substrato culturale del Movimento 5 Stelle dei primi tempi: la critica al consumismo, alla pubblicità e alle merci, la denuncia dei danni ambientali spesso nascosti, le conseguenze dello strapotere delle grandi multinazionali. E insieme a questo, innumerevoli trovate di scena capaci di informare e far riflettere il pubblico: lo spazzolino a testina cambiabile, il furgone a idrogeno, la tosaerba a pannelli solari, i due cavi dell’energia e dell’informazione gettati addosso al pubblico.

Marco Morosini, di fatto, ha messo il primo carburante nel motore della maggiore novità politica del dopoguerra. Insegna Politiche ambientali al Politecnico federale di Zurigo e ha lavorato in Germania come al Center of Technology Assessment di Stoccarda, dove ha diretto un progetto sugli indicatori di sviluppo sostenibile, e come chimico analista ambientale all’Università di Ulm; sua è la prima mappatura mondiale della contaminazione dell’aria in regioni remote. Infito è stato chiamato al Politecnico di Zurigo per un progetto della Commissione europea sul principio di precauzione.

Il titolo del libro, Snaturati – Dalla social-ecologia al populismo, dice già molto di come Morosini veda il percorso del Movimento 5 Stelle, anche al di là dei due governi ai quali esso ha partecipato.
Il blog di Grillo e il Movimento sono nati ecologisti, razionalisti nell’individuare soluzioni radicali perché necessarie, critici verso certe tecnologie e verso la crescita economica divoratrice di risorse e di tessuto sociale. Una sorta di preistoria del Movimento, se pensiamo poi alle generalizzazioni facili “”tutti a casa!”), alla denigrazione degli avversari, considerati nemici, alla volgarità dei Vaffa-day, l’adesione alla pratica di politiche disumane sull’immigrazione, alle votazioni in rete a volte disoneste e sempre non verificabili.
Secondo Morosini “il Movimento 5 Stelle è un’automobile con il motore di sinistra ecologista e il volante di destra populista”. Al di là di questa formulazione didascalica “alla Grillo”, il libro affronta però la duplicità con rigore di studioso, seppure con un linguaggio molto accessibile.

Un nodo è quello dell’ambiguità destra-sinistra. Il Movimento 5 Stelle è cresciuto nel tempo proclamandosi “oltre” questa distinzione, da esso definita superata. Questo ha permesso di portare avanti indifferentemente temi fra i più disparati, presentarsi come una novità mai vista, attirare elettori di ogni provenienza. E di stare al governo sia con la destra estrema di Salvini che con la sinistra riformista di Zingaretti. Ma chiunque conosce la politica sa che non dire di non essere di destra né di sinistra significa stare a destra.

Un altro è la visione che la centrale del Movimento ha delle tecnologie. L’incontro con il messianismo digitale di Casaleggio ha fatto sposare a Grillo il digitalismo più spinto. La democrazia diretta tramite il voto on-line, un fideismo tecnocratico e un invaghimento giovanilistico per l’informatica che porta, come già oggi vediamo, a conseguente inquietanti. Riflette Morosini:”le tecnologie digitali permettono di creare una struttura politica privata, diretta da una persona non eletta, inamovibile […] Tra la centrale e l’iscritto la trasparenza è a senso unico, la centrale sa molto dell’iscritto, ma l’iscritto non sa niente della centrale”. Ne conseguono diverse storture, tra le quali la diffusione di falsità, l’eliminazione del dibattito, sostituito dalle votazioni on-line, la riduzione della complessità delle cose a tecnica empirica. L’autore riporta un esempio illuminante: nel 2012, in un forum 5 Stelle dove chiunque poteva proporre iniziative per il programma elettorale, lui e altri proposero una quota uguale di donne e uomini nelle liste. La proposta prese poche decine di voti, mentre quella di riaprire le case chiuse ne raccolse 4.058.

Un terzo nodo (ma primigenio nel determinare i difetti del Movimento) riguarda la presenza – amzi la assenza – femminile ai vertici del partito. Nello stato maggiore del Movimento e ai livelli intermedi importanti non ci sono donne. Le uniche eccezioni sono le due coraggiose sindache di Torino e Roma, Chiara Appendino e Virginia Raggi. Presenze che Marco Morosini commenta così: “Esse sono fusibili, pronte ad essere sacrificate appena necessario, senza chance a livello nazionale. Malgrado la loro nuova preziosa esperienza di amministratrici sul campo, il divieto 5 Stelle di interrompere un mandato per un altro le mette fuori gioco per ulteriori e più alti incarichi, lasciando così spazio al vertice a chi non ha esperienza nell’amministrare. Quando avranno una buona esperienza di governo locale, l’altra regola 5 Stelle, quella del massimo di due mandati, causerà la loro uscita dalla politica attiva”.
Come conseguenza di questo assoluto dominio maschile, prevalgono nel Movimento linguaggio e atteggiamenti grevi verso gli avversari. Le ministre del governo Renzi furono chiamate “veline”. Le aggressioni al di sotto della cintura alla Presidente della Camera Laura Boldrini non ci sarebbero state se al suo posto ci fosse stato un uomo. Citiamo ancora Morosin: “La dominanza maschile nel Movimento ha un caro prezzo. Essa infatti tiene lontane molte donne di valore. L’avversione di molte donne per i modi aggressivi e volgari dei capi 5 Stelle danneggia sia il Movimento sia la comunità. Sotto l’egemonia maschile, infatti, l’azione e lo stile del Movimento attirano molti più uomini che donne, in una spirale mascolina che aggrava il problema. La presenza femminile, evanescente salendo nella gerarchia politica 5 Stelle, mi colpisce specialmente se la comparo con quella della Svizzera. Qui le donne sono passate in quarant’anni dal non avere diritto di voto, fino al 1971, a ricoprire contemporaneamente sette delle dieci più alte cariche della Confederazione nel 2011”.

Snaturati non si limita però a evidenziare i vizi originari del Movimento. Con profondità, competenza e dovizia di particolari, Marco Morosini ripercorre i due primi temi che lo hanno spinto a rendersi utile nel M5S nel 2012: il contrasto del dominio maschile (di cui abbiamo parlato) e la riduzione del tempo di lavoro, dapprima a una settimana lavorativa di 30 ore, poi anche a meno. Questo sarebbe il primo provvedimento per fare respirare sia i lavoratori sia la natura (con meno produzione e meno inquinamento). Un tempo di lavoro retribuito più breve, però, permetterebbe soprattutto di dedicare altrettanto tempo al lavoro di cura nella famiglia e al lavoro sociale volontario. Ci si accorgerebbe quindi che questi due ultime forme di lavoro sono la grande parte immersa dell’iceberg del lavoro, senza la quale la piccola parte emersa – il lavoro retribuito – non starebbe in piedi.

La pars costruens di Morosini, ossia ciò che poteva essere, e che forse potrebbe essere) prosegue toccando reddito universale di base, il divario salariale, la riforma ecologica fiscale, il 100% di energie rinnovabili. Temi fondamentali che Marco Morosini portò avanti nel 2012 sulla piattaforma Import-Idee del Meetup Europa.
Snaturati è un libro stimolante, che pone idee mai scontate quasi a ogni pagina. Un libro che aiuta a comprendere una delle più importanti novità politiche italiane ma anche internazionali. Che parla del Movimento 5 Stelle, ma anche dei temi più urgenti delle società d’oggi e specialmente dei danni e dei rischi ecologici e umani associati con la dilagante “digitalizzazione di tutto” (DDT).
Snaturati è un testo godibilissimo, che narra una complessa avventura politica e di pensiero con uno stile appassionato, personale, onesto. La parte più deliziosa è fatta di ottanta sapidi aforismi di Morosini. Questi sono sparsi nel libro, così come avviene per dici ritratti d’autore, che Morosini chiama polaroid, che raccontano con brio e non celata emozione altrettanti momenti del sodalizio quasi trentennale tra l’autore e Beppe Grillo. Da dentro, sempre con intelligenza.

Lezioni di scrittura: la danza dei Cinque

(di Luciano Sartirana)

Ogni testo di narrativa è composto da cinque elementi…
sono stili, punti di vista, situazioni, forme della realtà da narrare!

L’azione è ciò che accade all’Io narrante, al protagonista,
alle persone attorno, alle città dove ambientiamo la storia o al pianeta tutto.
Chi è implicato nell’azione può avere un ruolo attivo, cioè la provoca, la decide, la fa accadere, la
interpreta; oppure passivo, nel senso che gli capita, lo aggredisce o gli succede accanto.
Azione è l’acquisto di un biglietto del tram, il lungo viaggio, una sparatoria, la corsa a casa sotto
il temporale.
Descrivi l’azione in modo chiaro, fai capire cosa succede senza lasciare dubbi, non mettere troppi
particolari.

Il dialogo porta avanti gli eventi, aggiunge informazioni, descrive i rapporti fra le persone e il loro
mondo interiore.
Il dialogo diretto avvicina moltissimo la narrazione ai personaggi
e al lettore, come il primissimo piano nel cinema.
Evita il più possibile il dialogo indiretto.
Chiediti qual è il tema della conversazione e vai dritto al punto.
Assegna cinque battute per dialogante, poi ne aggiungi o ne togli.
Evita i convenevoli, i normali saluti a inizio e fine dialogo.
Rileggi i tuoi dialoghi a voce alta, così capirai se sono noiosi.
Fai parlare ciascuno dei tuoi personaggi in modo diverso.

La descrizione sembra un’arte passata di moda. In realtà, è sempre importante dare un’occhiata
alle stanze, agli oggetti, alle auto, ai monti e ai cartelli pubblicitari, al taglio di luce,
alla meteorologia… completano l’atmosfera del racconto, ci collocano i personaggi in un
preciso posto e con determinate cose fra le mani.
Crea la scenografia dove succedono gli eventi, e aiuta perfino a descrivere come i personaggi
stessi si sentono.
Non accumulare troppe cose nella descrizione, ma individua i pochi tratti che risultano
più significativi per la tua storia.

L’interiorità appare spesso come segno
di grande letteratura, ma devi renderla più concreta possibile.
Evita espressioni generiche: vago, un senso, un qualcosa, un vuoto; quasi, un po’, appena, avere l’impressione;
non usare mai gli aggettivi strano e squallido, o la forma impersonale.
Parla dello stato d’animo attraverso oggetti, piccole situazioni, ricordi, stati
fisici (es.: la solitudine è un telefono che non squilla).
Racconta come e quando è iniziato quel sentimento, lo sviluppo, cosa si è aggiunto,
se qualcuno vi è intervenuto.
Riporta le azioni anche piccole che il personaggio compie, soprattutto il suo monologo interiore.

La riflessione sei tu autrice o autore che dici la tua sulla storia, i personaggi e il loro carattere
e ciò che fanno, riassumi la trama o inserisci spunti filosofici o psicologici, persino su come va il mondo stesso.
Puoi essere pensoso o ironico, cinico e disincantato come divertito, affettuoso, nostalgico.
Puoi accostarti a uno dei tuoi personaggi e dire chiaramente ciò che pensi di lui.
Affrontare grandi temi che importunano l’umanità da millenni o brontolare per il prezzo della benzina nella tua storia.
Devi solo evitare di essere prolisso, presuntuoso, artificiale.
Scrivi ciò che pensi nel modo più diretto, sintetico, comprensibile; lima le parole, togline un po’.
O anche attribuisci la tua opinione a un personaggio minore.
Una riflessione fatta bene arricchisce e dà spessore alla trama che stai raccontando.

Una volta finito di raccontare ciò che vuoi con uno di questi elementi, prosegui scegliendo uno degli altri quattro.
Tutti e cinque ti stupiranno!

Lezioni di scrittura: ovunque nel tempo

(di Luciano Sartirana)

Di cosa parlare parlando di sé?
Di chi? In che luogo? Lungo quale periodo, da che data a che data?
Queste sono naturalmente domande essenziali, e ciascuno di noi che intende scrivere conosce già le risposte anche se a volte è necessario rifletterci, scegliere, scartare, avvicinarsi.

Ricordati un dato essenziale: nonostante le apparenze, il vero protagonista del racconto di sé non siamo noi, o chi dei nostri parenti e amici mettiamo al centro.
Il protagonista è il tempo stesso, perché ciò che in realtà interessa è il suo influsso su tutti noi sotto forma di mutamenti interiori, di domicilio, di frequentazioni, di stato di salute… anni addosso e nostalgia, oppure nuove relazioni e tanto spazio davanti, a qualsiasi età.

Prima di affrontare alcuni dettagli, troviamo fondamentale suggerire le opere di due grandissimi autori contemporanei, che hanno parlato del tempo e di sé in maniera mirabile.
Da loro impariamo il punto di vista e l’azione del mutamento:
– l’italiana Elena Ferrante, con L’amica geniale, Storia del nuovo cognome, Storia di chi fugge e di chi resta, Storia della bambina perduta;
– il norvegese Karl Ove Knausgård, con La morte del padre, Un uomo innamorato, L’isola dell’infanzia, Ballando al buio.

Inizia ora a scrivere, o meglio a progettare la tua opera.

Per primo, considera l’idea di spaccato di vita nel tempo: qual è il periodo che ti interessa?
Può riguardare te stesso, naturalmente: l’infanzia, il liceo o un altro corso di studi, quando hai vissuto in quella città, quando hai avuto una storia d’amore; puoi raccontare tutto ciò che succedeva, oppure limitarti appunto a quell’aspetto (lavoro, studi, affetti, etc.)
Oppure puoi narrare di persone vicine a te, o che hanno vissuto prima di te e con le quali tu hai comunque un legame, come nonni e genitori e, per esempio, come hanno passato gli anni della guerra fra 1940 e 1945; oppure siano emigrati da altre parti d’Italia per trovare lavoro.

È importante – per allargare la prospettiva e le cose da raccontare – chiederti perché tu voglia raccontare quel periodo: per capire meglio alcune cose o svelare segreti di vario tipo, per nostalgia dei molti ricordi, come debito verso persone che ti hanno dato tanto, per la curiosità verso un periodo da raccontare attraverso di te.

La cosa più immediata da fare è raccogliere e scrivere i fatti più importanti o che ritieni tali – su di essi puoi cambiare idea, man mano che scrivi – o quelli che semplicemente ti sono restati meglio in mente.

Nel racconto personale, un problema molto concreto che può sorgere è: non è che qualcuno se la prenda?
Se zio Casimiro lo descrivi come un farabutto, è probabile che i rapporti si guastino…!
Di fronte a questo, Elena Ferrante ha costruito una fitta ma agile trama di nomi, relazioni, personaggi dove difficilmente persone ben precise possono essere riconosciute nonostante i tanti riferimenti… ha lavorato sul mimetismo.
Karl Ove Knausgård ha fatto l’opposto, citando persone vere per nome, cognome e circostanze… alcuni parenti lo hanno infatti querelato.
Fai tu…!

Un problema simile può riguardare te stesso: devo essere sincero fino in fondo, parlare di situazioni che mi hanno imbarazzato, le mie crisi esistenziali, i miei sentimenti più intimi?
No, ovviamente; ma chi affronta anche i lati oscuri di se stesso (il lavoro con l’Ombra) offre un livello di autenticità più alto, e troverà molti lettori che hanno vissuto le stesse cose e apprezzeranno come tu hai avuto il coraggio di raccontare.
Di certo, devi trovare il tuo stile per questo.

Lezioni di Scrittura: scrivere di sé

(di Luciano Sartirana)

Parliamo del racconto di se stessi e di ciò che si è vissuto, della propria o dell’altrui esistenza, di un luogo o un periodo storico particolari. Un’avventura di scrittura e di pensiero che può migliorare il tuo stile, la tua capacità di narrare, la bontà della lingua che utilizzi. L’eterno enigma e l’incantesimo dello scorrere del tempo attraverso il tuo personalissimo sguardo. Ciò che oggi alcuni chiamano autofiction, che ha però una tradizione antichissima.

Intanto, qualche suggerimento generale:

  • Ascoltati quando parli! Cura la tua lingua parlata, deve diventare buona come quella scritta: può costare tempo e sforzi, ma facilita la scrittura stessa, che ti nascerà già pronta in testa.
  • Leggi molto, autrici e autori diversi e di ogni epoca e paese, non chiuderti in un solo genere o nei soliti scrittori.
  • Scrivi qualcosa ogni giorno – fossero anche tre righe sul brutto tempo – e alla stessa ora: fa disciplina e favorisce un flusso costante di immaginazione.
  • Se hai iniziato a scrivere, fissa una data entro cui finire il tuo testo: crea sfida ed energia, la tua attenzione eviterà di sfilacciarsi nel tempo.
  • Non deprimerti se ciò che hai scritto non ti piace! Ci sono sempre due fasi: a) prima scrittura; b) revisione e arricchimento.
  • Cura i tuoi ricordi, annotali da qualche parte, chiedi altri dettagli a genitori, parenti, amici o persone che c’erano; saranno la tua materia prima, più ricchi e più vividi se sono anche quelli di altri e secondo il punto di vista di altri.
  • Associa ciò che ricordi a delle date precise… questo li collocherà nel tempo di tutti e acquisiranno autenticità.
  • In ogni caso, non avere l’ansia della precisione o della completezza: alcuni dei tuoi ricordi saranno vaghi o contraddittori… scrivine lo stesso, la tua immaginazione li renderà ugualmente interessanti.
  • Racconta fatti, non solo stati d’animo o riflessioni.
  • Avvicinati a quelle scene lontane più che puoi, non raccontare tutto come narratore esterno, immagina le emozioni di quell’istante se non te le ricordi. Anche se parli del passato, tutto deve avere la forza del presente e della vicinanza.
  • Privilegia il dialogo diretto rispetto a quello indiretto.
  • Salta pure avanti e indietro nel tempo, ma poni la massima attenzione affinché il lettore sappia sempre e immediatamente in che momento e in che anno siamo.
  • Non accontentarti del piccolo mondo quotidiano degli affetti, ma parla anche dei viaggi, del lavoro, di come erano fatte le case e le città, degli eventi storici che accadevano in contemporanea con le tue scene più intime… delle canzoni, dei cortili, degli sport.
  • Fatti una scaletta temporale di ciò che vuoi raccontare, suddivisa per anno, mese, giorno… il calendario di quelle vicende lontane; è affascinante, e aiuta a non fare errori nel citare avvenimenti o far accadere cose.
  • Anche se pensi di conoscerlo bene per esperienza diretta, studia il periodo nel quale vuoi ambientare il tuo racconto, scoprirai comunque cose che non sapevi.

Su “La malasorte”, di Daniela Grandinetti

(di Luciano Sartirana)

Ho letto La malasorte, della scrittrice calabrese Daniela Grandinetti, uscito nel 2018.
Sovara, paesino immaginario dell’entroterra calabrese, circa cento anni fa. La poco più che adolescente Cosma entra nella casa del notabile del posto come domestica. A casa sua regna la povertà più assoluta, quel passo pare essere una cosa buona. Non lo sarà; e nei decenni successivi il suo fantasma pare essere la causa di tempeste, disastri e appunto malasorte.
Sovara, paesino immaginario dell’entroterra calabrese, oggi. La giovane Cettina è partita per Milano anni fa, per intraprendere studi di arte. Partita è un eufemismo: in realtà è una fuga senza prospetto di ritorno. Ma a Milano combina molto poco, e a un certo punto deve tornare a Sovara per questioni famigliari. Anche qui siamo all’eufemismo, perché ciò che l’aveva allontanata non è mutato di un centimetro… violenza fra le mura, nessun affetto vero, un paese abbandonato fuori e dentro di sé. È solo grazie all’affettuosa pervicacia dell’amica d’infanzia Tilde che Cettina riesce a raccontarsi, ammettendo le menzogne che ha raccontato a Tilde stessa e che le facevano però da scudo a tutto. Solo da qui, nel riconoscere e guardare in faccia ciò che di arido e di violento si porta dentro, Cettina inizia a uscire dal circolo vizioso della malasorte che invece aveva abbattuto Cosma.
I temi affrontati sono molti, uno più affascinante e complesso dell’altro: il parallelo fra la vicenda di Cosma e quella di Cettina, dove nulla è facile per nessuna delle due; l’idea di lasciarsi tutto dietro andando lontano, ma fallendo perché ci si sente comunque osservati e impreparati di fronte alle aspettative, per cui si mente e ci si nasconde; la lotta con se stessa che è lotta con rapporti pietrificati nel tempo, come e più del territorio stesso.
Soprattutto, ciò che in famiglia e della famiglia non si può dire: la violenza.
Rispetto alla solitudine infinita di Cosma, i decenni non sono però passati invano. Oggi Cettina ha l’opportunità di una relazione positiva con un’altra donna, Tilde, a significare che è solo ricostruendo una genealogia femminile di consapevolezza e sostegno che si può uscire da un patriarcato da paleolitico. Una relazione faticosa ma che muove dei passi importanti, quella fra Tilde e Cettina; comunque ostacolata da un senso di ritrosia, di rispetto umano, di chiusura verso chi ci sta attorno, nonostante tutto.
“La malasorte” è un libro di un’intelligenza sottile, un’attenzione millimetrata al moto d’animo, l’attraversamento di una terra e di una cultura, una lingua da costruire e delle cose di sé da capire. Di Calabria da cui si fugge e magari si torna. Di donne cui non basta rispecchiarsi in una leggenda lontana, ma vogliono essere vive oggi.
Tante cose, tanti significati… e uno stile agile ed elegante, preciso, profondo, lucente, che ti accompagna e fa venire voglia che arrivi sera per riprendere la lettura. Apre anche scorci di te, di me, sui copioni di vita ereditati e dai quali è bene uscire. Un libro e una scrittrice importanti.

Intervista sul cadavere

(di Luciano Sartirana)

Ci avete convocati qui in tutta fretta. Cosa avete scoperto questa volta?
Una cosa più che epocale, glielo assicuro!

Non lo dubitiamo, visto che la sua équipe ha già vinto sei Nobel. Venga al dunque.
Abbiamo visto il cadavere di Dio.

Prego?
Esattamente ciò che avete sentito: abbiamo rinvenuto il cadavere di Dio, a venti miliardi di anni luce. Una massa di luce bianca ondeggiante nello spazio, addirittura con i lineamenti che gran parte di noi gli attribuisce. Ma la domanda prima che ci siamo fatti da scienziati è stata: se il nostro universo ha quattordici miliardi di anni luce di età e di grandezza, come è stato possibile osservare qualcosa sei miliardi di anni luce più in là?

Glielo stavo per chiedere.
Come sa anche un criceto, il nostro ultratelescopio spaziale Ipazia9000 ha già osservato il Big Bang qualche anno fa. Oggi siamo riusciti a entrare nel Big Bang, che è un buco nero come tanti altri. La velocità aumentata al suo interno ha portato presto il nostro obbiettivo fino dall’altra parte, nell’universo che c’era prima del nostro e che è collassato nel Big Bang medesimo. E vorrei dirvi di più…

Siamo tutto orecchi.
Non sappiamo ancora quanto fosse grande l’universo precedente, ma dalle dimensioni della salma (non l’abbiamo ancora visto tutto quanto) possiamo arguire che Dio lo occupasse quasi tutto. A differenza del nostro, zeppo di materia oscura e di vuoto. E forse questo faceva stare molto meglio tutti quelli che vivevano di là…!

Non faccia della metafisica. Invece: se Dio lo occupava quasi tutto, nel poco spazio dove non c’era, cosa c’era?
Non lo sappiamo ancora. Forse qualcosa che qualcuno di noi ha già battezzato “materia atea”. Ah, ah…! Ma al vostro posto avrei fatto un’altra domanda…

Sentiamo, se la canti e se la suoni pure.
Se abbiamo visto il cadavere di Dio a venti miliardi di anni luce e il Big Bang è stato sei miliardi di anni luce dopo, c’è forse un rapporto fra i due – chiamiamoli così – eventi?

C’è forse un rapporto?
La ringrazio della domanda. Abbiamo due ipotesi: la prima è che il Big Bang sia stato l’ultimo atto della sua putrefazione, dove ciò che costituiva la sua vita è schizzato via come un insieme infinito di spore; la seconda è molto più complessa: che il Big Bang sia stato in effetti il momento preciso del trapasso, ma ciò che abbiamo visto a venti miliardi di anni luce ne sia stato un auto-ologramma rivolto all’indietro, quasi ad avvisare l’universo precedente dove si stesse andando a finire.

Saltando a tutt’altro discorso… e tutto quello che abbiamo creduto riguardo a Dio nella nostra storia?
Nella migliore delle ipotesi sono echi sconnessi di un messaggio dolente, qualcosa che prima di morire il grande Costui ha lanciato al suo universo e magari agli universi successivi.
Nell’ipotesi peggiore sono scarti impazziti, frattaglie insanguinate di un essere vivente agli ultimi, addirittura frammenti di abiti o di appunti su un notes.
Sta di fatto che questi suoi messaggi – compreso l’invio del Figlio e dello Spirito Santo, Siddharta, Quetzalcoatl e tutti gli altri – sono echeggiati per miliardi di anni prima di arrivare a noi. Ma chi li aveva inviati non ne sapeva più nulla. Adoravamo qualcuno che solo la distanza ci faceva vedere vivo e presente. Pensate che nell’universo di là mandasse a morte certa un poveraccio di animo buono (che se n’era accorto, sia pure all’ultimo… “Perché mi hai abbandonato?”… ma il Padre non lo poteva più sentire da un bel po’)?

Il suo cinismo mi sconcerta.
Guardate il lato buono… pur credendo in qualcuno defunto da venti miliardi di anni, milioni di uomini sono riusciti a comportarsi bene grazie a questa fede. Per non dire che ci siamo circondati di chiese e templi bellissimi, di letteratura e di teologia, di arte come di pensiero.

Altri hanno compiuto cose orrende, su quella base.
Non lo dica a me. Cosa pretende da un universo nato da un decesso?

Chi perturba chi

(di Luciano Sartirana)

Ho letto Il perturbante, di Giuseppe Imbrogno, e posso parlare di un romanzo intelligente, originale, coraggioso e ben scritto.
Il protagonista, di mestiere, è analista del mercato e della società: è uno dei più bravi, lavora per un società leader del settore capeggiata da un guru del settore… gente che sa cosa davvero ciascuno di noi compra, muove e pensa ogni giorno.
Una figura dell’oggi che guarda all’interno di esso, tracciando linee dalla carta di credito alla spazzatura; un personaggio che esiste al di sopra dell’attualità e che di letterario pare avere poco. Soprattutto perché delinea un’antropologia obliqua quanto inquietante: l’umanità non lotta, ama, odia, lavora, progetta, mette su casa; l’umanità compra, e solo sul comprare viene definita come umanità.

Il protagonista non ha limiti morali, politici, etici. Ne ha uno solo, l’imperativo categorico del suo mondo di guardoni high tech, ripetuto di continuo dal guru: osservare solamente, raccogliere dati, non entrare in contatto con l’oggetto. Distacco, perché se intervieni o ti fai prendere troppo da ciò che leggi nel mondo lo influenzi, quello cambia e tu devi cominciare da capo.
Oggettività. Metodo. Disciplina intellettuale e interiore.
Il protagonista si sente onnipotente e, forte della sua esperienza e dell’imperativo categorico, ritiene di poter conoscere ancora più a fondo l’oggetto umano che ha di fronte. Un salto di qualità professionale e fin filosofico, noumenico, kantiano: cosa c’è al centro dei dati, dell’oggetto, della società che studia?

Si sceglie come oggetto un tizio che l’ha incuriosito e che conosce appena. Ne nasce uno stalking thriller di sottile suspense, un blues metropolitano dalla dizione lenta ma con in sottofondo un ritmo di basso febbrile quanto frenetico. Vi tiene lì dal primo minuto all’ultimo, questo Thelonious Monk della parola che è Giuseppe Imbrogno.
L’analista scende sulla terra, si fa uomo, si incarna nell’oggetto, passeggia come l’oggetto, mangia le stesse cose dell’oggetto (per esempio, ingurgita a forza barbabietole che odia), va in palestra con la moglie dell’oggetto senza che questo implichi chissà che romanticismo… la moglie dell’oggetto diventa a sua volta oggetto.

Leggetelo, Il perturbante. È uno dei rari testi di narrativa contemporanea che si pone il compito di leggere l’attualità – quella vera, quella tre passi avanti di ciò che discorriamo come quotidiano, politica, esistenza – e lo fa senza cadere in luoghi comuni.
Il centro dell’oggetto umano cui l’analista arriva non è tranquillizzante… cosa siamo veramente, oltre a ciò che acquistiamo?

Gli orsi e le scrittrici

(di Luciano Sartirana)

Ho letto Memorie di un’orsa polare, di Yoko Tawada.
Da una parte ci sono tre orsi bianchi, imparentati in verticale tra loro lungo decine di anni.
La prima era un’orsa che si esibiva in un circo sovietico, una vera diva della corsa, del salto e del lazzo fra bambini e funzionari di partito. Una volta che il suo corpo grosso non l’assecondava più nella sua vita di lustrini, si è messa a scrivere la sua autobiografia e ha sfondato anche lì.
La seconda è la figlia Tosca, che nasce rocambolescamente in Canada e si trasferisce nella DDR ripercorrendo le tracce della capostipite: volteggia in un circo, soprattutto come ballerina di tango. Non viene raccontata dalla sua penna (!!!), ma dall’addestratrice Barbara con la quale ha un legame pressoché simbiotico.
Il terzo è Knut, che rinuncia a velleità d’arte ma – una volta capito cosa ha da guadagnarci in termini di cibo e benessere – diventa la mascotte dello zoo di Berlino, assecondando i babbei che si assiepano per osservarlo.
Una cosa li accomuna: nessuno di loro è mai stato al Polo Nord, e neanche nei suoi paraggi. E un’altra, più profonda… la vicinanza con gli umani fa sì che ne assumano le mosse, i desideri di successo (la scrittura), i sogni, le frustrazioni, le manie. Decisamente ricambiati, perché anche gli umani che li frequentano non sono tanto diversi; e spesso il racconto, lo stile, il monologo interiore come le ansie da artisti ce li fanno confondere e porre sullo stesso piano precario: vogliamo grandi cose, per noi e per chi amiamo; ma viviamo tutti sotto l’incubo del disastro ambientale e della reciproca schiavitù quotidiana.
Una favola surreale apparentemente giocosa, comunque priva di ogni leziosità o carinerie (“se guardi un orso negli occhi non ci vedi un bel niente…”, si dice a un certo punto). Una grande riflessione filosofica sotto forma di gita tra gli anni, i circhi, i regimi e lo scrivere.
Yoko Tawada è nata a Tokyo nel 1960 e vive in Germania dal 1982, prima ad Amburgo e oggi a Berlino. Scrive sia in giapponese che in tedesco. Questo è il suo primo romanzo pubblicato in Italia.

Colei che fu più amata

(di Luciano Sartirana)

Poco tempo fa ho letto il libro La più amata, di Teresa Ciabatti.
Il padre, Lorenzo, aveva studiato Medicina negli States, era tornato e aveva fatto una brillante carriera fino a diventare primario dell’ospedale di Orbetello, in provincia di Grosseto. È amato e stimato da tutti, è considerato un benefattore, è fortemente presente nella vita pubblica di mezza Toscana a partire dalla città di origine, Grosseto. Ci sono amicizie altolocate, c’è la proprietà di famiglia del palazzo più alto della città, ci sono ricevimenti e vacanze nella villa sul mare… c’è questa bimbetta adoratissima e piena di cose e belle giornate.
Un’immagine irritante e altezzosa della bimbetta, del papà notabile e della sua famiglia, delle feste dove ci si vanta della partecipazione di personaggi ributtanti come Licio Gelli, Giorgio Almirante e uno zio che prenderà parte al tentativo di golpe fascista del dicembre 1970 (quello di Borghese).
Ma – parola dopo parola, aggettivo dopo aggettivo – Teresa Ciabatti scava in casa sua, guarda in faccia l’illustre papà e quanto nasconde ai suoi stessi cari, condivide momenti sempre più sinceri e difficili con sua mamma, ricorda le difficoltà nel crescere in quest’atmosfera così ingombrante.
Un percorso di tenacia, di sensibilità. Di dolore.
Soprattutto, è la sua scrittura a parlare per lei: dubbiosa, frammentata, in continua rincorsa avanti e indietro nel tempo per rivivere in modo critico scene ed episodi, parole, equivoci, voci sommesse nella casa. La più amata diventa la più inquieta e la più vicina alla verità. Un cammino che ne mina la stessa possibilità di essere felice, come invece le pareva le fosse promesso nell’infanzia. Una scrittura che fatica a trovare fluidità narrativa, ma proprio per questo è pregio e forza, è coraggio ed è assolutamente degna di essere letta.