Il bar sotto il mare

(di Marcella Valvo)

La prima opera di Stefano Benni che ho letto è stata Margherita Dolcevita, romanzo del 2005, la cui lettura risale ormai ai miei dodici-tredici anni. Purtroppo, benché sia stato subito amore a prima lettura, non ho più letto niente di suo – rimproverandomi regolarmente per il misfatto. Poi finalmente, pochi giorni fa, mi è capitato tra le mani Il Bar sotto il Mare, una raccolta di racconti in puro stile Decameron: e come un marinaio attirato dal canto della sirena, non ho potuto non afferrare il libro al volo e divorarlo.
Il genere dei racconti brevi si presta in realtà agevolmente a diversi ritmi di lettura: si può leggere tutto d’un fiato, o un racconto al giorno, magari prima di andare a dormire oppure durante qualche spostamento in treno o in metro. Questo, tuttavia, non sono riuscita a diluirlo. Ogni racconto mi chiamava inesorabilmente a quello successivo. Una ciliegia tira l’altra, si dice: in tal caso, Stefano Benni scrive ciliegie.
La cornice fin da subito porta il lettore a immergersi – in tutti i sensi – nella dimensione surreale, assurda, ricreata dall’autore e dominante nei diversi racconti. Non solo la voce narrante esordisce dicendo “Non so se mi crederete”, generando subito l’allerta, ma prosegue con la descrizione di un vecchio signore elegante, con una gardenia all’occhiello, che lo supera lungo la riva del mare con un inchino e sparisce poi nelle acque. Naturalmente, il narratore non può che seguirlo, tuffandosi anch’egli e ritrovandosi davanti a un bar dall’insegna luminosa sospesa a pochi metri dal fondale.

Il barista mi fece segno di avvicinarmi. Aveva un’espressione ironica e il suo volto ricordava quello di un famoso interprete di film dell’orrore. Mi offrì un bicchiere di vino e mi appuntò una gardenia all’occhiello.
– Siamo lieti di averla tra noi – disse sottovoce. – La prego di accomodarsi, perché questa è la notte in cui ognuno dei presenti racconterà una storia.
(Prologo)

Sempre all’interno del prologo che introduce la cornice, assistiamo a una rottura della quarta parete, con il narratore che si rivolge al lettore segnalandogli la copertina del libro stesso, cui far riferimento per capire l’eccentricità dei ventitré avventori del bar. E in effetti l’illustrazione di Giovanni Mulazzani ci rende un perfetto quadro del gruppo: dall’uomo col cappello al vecchio con la gardenia, dal bambino serio al nano, dall’uomo invisibile a quello con la cicatrice, dal cane nero alla pulce che abita il suo pelo… come se non bastasse, i ritratti di tutti questi personaggi si ispirano chiaramente a protagonisti del cinema e della letteratura (vediamo John Belushi in The Blues Brothers, Agatha Christie, Sigmund Freud, Marilyn Monroe, Braccio di Ferro…) e questo anticipa un altro particolare interessante dell’opera, ossia la sua ricchezza di riferimenti intertestuali. Ogni racconto, infatti, si caratterizza per un differente genere e una diversa modalità di narrazione, così che si passi dall’assurdo alla satira, dall’horror al giallo, con plurimi richiami a specifici autori e opere.

– Come lo sai?
– Me lo hai detto tu. Ti vanti spesso delle tue parentele, dottor Lollis. Ecco un altro sassolino che mi è tornato in mente. Due settimane fa tu leggevi questo libro, nell’intervallo in giardino. Allora non mi sembrò strano. Anch’io mi porto a scuola Poe e la zia Agatha… lo hai preso in prestito dalla biblioteca della scuola, vero?
(Priscilla Mapple e il delitto della II C)

Il risultato è un’opera eterogenea che lascia in bocca un sapore differente per ogni racconto, con il retrogusto di un risvolto moraleggiante che tuttavia non si impone mai. Questo perché Benni, pur spingendo alla riflessione, riesce sempre a mantenersi ironico e leggero, sottile e divertente.
Non posso che consigliare a voi questa lettura e promettere a me stessa di non far passare più così tanto tempo prima di rileggere qualcos’altro di suo.

Nonno Celso disse che ne avremmo viste di belle.
Bene, a febbraio era già primavera. Tutte le margherite spuntarono in una sola mattina. Si sentì un rumore come se si aprisse un gigantesco ombrello, ed eccole tutte al loro posto.
Dagli alberi cominciò a cadere il polline a mucchi. Tutto il paese starnutiva, e arrivò un’epidemia di allergie stranissime: ad alcuni si gonfiava il naso, ad altri spuntava una maniglia. La frutta maturava di colpo: ti addormentavi sotto un albero di mele acerbe e ti svegliavi coperto di marmellata.
(L’anno del tempo matto)

Gatti molto speciali

(di Isabella Gavazzi)

Gatti molto speciali è un libro di Doris Lessing, premio Nobel per la letteratura nel 2007. L’autrice, vissuta in una prima infanzia in Iran, per poi spostarsi con la famiglia nell’allora Rhodesia – ora Zimbabwe – e successivamente a Londra, racconta il rapporto con i gatti che hanno costellato la sua vita, ricordando soprattutto quelli che più le sono rimasti impressi per atteggiamenti e avventure.

Non si tratta di un libro in cui gli animali vengono descritti e sono protagonisti della storia, anzi, in realtà non ha una vera e propria trama: come un diario, essi vengono ricordati dalla Lessing, in un testo-confessione di tutto ciò che nella sua vita ha comportato la parola “gatto”.

È un libro sicuramente diverso da ciò che ci si aspetta mentre ci si accinge ad aprirlo, perché rivela, già dalle sue prime pagine, una crudezza che difficilmente si potrebbe abbinare al tema.
L’autrice, infatti, rivive la quantità di gatti che ha posseduto con la famiglia nella tenuta di campagna in Africa, in cui questi, non sterilizzati e lasciati quasi allo stato selvatico, erano molto diversi dalla nostra immagine di felino domestico.
Questo pullulare di animali era controllato, dalla madre della protagonista – descritta in poche frasi come una donna decisa e austera – attraverso soppressioni di intere cucciolate . Si è riportati, quindi, in un contesto di vita contadina a noi lontana, in cui il gatto non è altro che un predatore per i topi e che, quando la riproduzione è considerata esagerata, deve essere eliminato. Una visione cruda che rispecchia il passato, ma che la donna vive come se fosse una cosa normale, essendo cresciuta in questo clima. I loro gatti non avevano nomi, non erano particolarmente affettuosi e se sparivano era normale farsene una ragione e continuare la vita di tutti i giorni.

Il cambiamento avviene quando si trasferisce nei sobborghi di Londra, dove non mancano i gatti: questi però sono uno o al massimo due, e l’attenzione data loro è completamente diversa, così come il rapporto con gli umani. Sono animali ben tenuti, curati e portati spesso dal veterinario, con i quali la Lessing parla, dialoga e li umanizza.

Sono compagni di casa e di vita che lei descrive come se fossero a tutti gli effetti delle persone: i suoi amici a quattro zampe sono gelosi, educati, vigliacchi come se fossero umani, gli stessi che non compaiono mai direttamente nel libro.

Gatti, solo gatti o al massimo persone che hanno aiutato la vita del gatto, quindi veterinari, il tutto non in toni sdolcinati e mielosi tipici di chi si rapporta con un animale, anzi.
La sua è un’analisi che muove da basi quasi antropologiche, in modo scientifico e analitico. Ogni azione del gatto viene da lei spiegata con fare meticoloso e attento, senza mai lasciarsi andare a sentimenti di tenerezza: è una spettatrice della vita dei suoi amici gatti fin dalla più tenera età e riesce ad interpretare le esigenze e i bisogni dei gatti.

“Durante il giorno sedeva sul marciapiedi, guardando il traffico, oppure entrava e usciva dai negozi: un vecchio gatto di città, un gatto gentile, un gatto senza pretese.”

Solo nel finale si può trovare un lato melanconico e affettuoso, rivolto a un gatto di nome Rufus, trovatello malconcio accolto nella sua casa, curato e accudito per quattro anni:

“Una volta, mentre dormiva, io lo accarezzai per svegliarlo e fargli prendere la medicina, lui emerse dal sonno con quell’affettuoso gorgoglio di saluto, carico di affetto e di fiducia, che i gatti riserbano a coloro che amano, ai gatti che amano. Ma quando si accorse che ero io tornò a essere il se stesso di sempre, educato e pieno di gratitudine, e io mi accorsi che quella era stata la sola volta in cui lo avevo sentito emettere quel verso particolare. È il verso con cui le mamme salutano i loro gattini, e i gattini salutano le loro mamme. Forse aveva sognato di quando era cucciolo? O forse aveva addirittura sognato quegli umani che lo avevano posseduto da gattino o giovane gatto, ma poi se n’erano andati e lo avevano abbandonato. Sentito così, alla fine, quel verso turbava e faceva male, perché non lo aveva mai fatto nemmeno quando faceva le fusa come un motorino, per dimostrare la sua gratitudine. […] La fiducia, l’amore che aveva riposto in qualcuno, una volta erano stati così profondamente traditi, che quel gatto non aveva potuto consentirsi mai più di voler bene di nuovo”.

Un libro intero sull’analisi del gatto in tutte le sue sfaccettature comportamentali, in cui l’autrice non è altro che una spettatrice al pari del lettore: le parti si invertono e l’uomo diventa osservatore silenzioso di un animale con sentimenti che ricordano tutti noi.

Gli orsi e le scrittrici

(di Luciano Sartirana)

Ho letto Memorie di un’orsa polare, di Yoko Tawada.
Da una parte ci sono tre orsi bianchi, imparentati in verticale tra loro lungo decine di anni.
La prima era un’orsa che si esibiva in un circo sovietico, una vera diva della corsa, del salto e del lazzo fra bambini e funzionari di partito. Una volta che il suo corpo grosso non l’assecondava più nella sua vita di lustrini, si è messa a scrivere la sua autobiografia e ha sfondato anche lì.
La seconda è la figlia Tosca, che nasce rocambolescamente in Canada e si trasferisce nella DDR ripercorrendo le tracce della capostipite: volteggia in un circo, soprattutto come ballerina di tango. Non viene raccontata dalla sua penna (!!!), ma dall’addestratrice Barbara con la quale ha un legame pressoché simbiotico.
Il terzo è Knut, che rinuncia a velleità d’arte ma – una volta capito cosa ha da guadagnarci in termini di cibo e benessere – diventa la mascotte dello zoo di Berlino, assecondando i babbei che si assiepano per osservarlo.
Una cosa li accomuna: nessuno di loro è mai stato al Polo Nord, e neanche nei suoi paraggi. E un’altra, più profonda… la vicinanza con gli umani fa sì che ne assumano le mosse, i desideri di successo (la scrittura), i sogni, le frustrazioni, le manie. Decisamente ricambiati, perché anche gli umani che li frequentano non sono tanto diversi; e spesso il racconto, lo stile, il monologo interiore come le ansie da artisti ce li fanno confondere e porre sullo stesso piano precario: vogliamo grandi cose, per noi e per chi amiamo; ma viviamo tutti sotto l’incubo del disastro ambientale e della reciproca schiavitù quotidiana.
Una favola surreale apparentemente giocosa, comunque priva di ogni leziosità o carinerie (“se guardi un orso negli occhi non ci vedi un bel niente…”, si dice a un certo punto). Una grande riflessione filosofica sotto forma di gita tra gli anni, i circhi, i regimi e lo scrivere.
Yoko Tawada è nata a Tokyo nel 1960 e vive in Germania dal 1982, prima ad Amburgo e oggi a Berlino. Scrive sia in giapponese che in tedesco. Questo è il suo primo romanzo pubblicato in Italia.

La favola della rugiada

(di Isabella Gavazzi)

In un tempo molto lontano, tra boschi e prati, vivevano dei piccoli esserini alati amici degli animali, chiamati, con l’arrivo dell’uomo, fate.
Le fate erano in armonia con la natura: loro curavano le piante e in cambio ricevevano cibo e riparo. Erano felici le une con le altre; giocavano tutto il giorno con gli amici animali, senza stancarsi.
Con l’arrivo della sera si coricavano su delle piccole zolle di muschio e, coperte da una foglia donata dall’albero più vicino, dormivano sonni profondi, protette dalle stelle e dalla Luna.
Così facendo la Terra diventò un pianeta pacifico pieno di verde. C’erano fate in tutti i posti: dal deserto alla prateria, dal fiume ai boschi.
Tutte erano unite da un legame talmente forte che, quando una fata si spegneva come una stella con l’arrivare delle prime luci, tutte le altre accorrevano per salutarla un’ultima volta.

Con l’arrivo dell’uomo le cose cambiarono: le fate, pacifiche e sempre aperte alle nuove conoscenze, si mostrarono ai primi uomini, sicure che sarebbero diventati presto parte integrante della loro vita.
Gli uomini, inizialmente incuriositi, osservarono per alcune ore quegli strani esserini, che danzavano gioiosi per i prati. Finito l’incanto iniziale, gli uomini ricominciarono le loro attività. Estrassero dalle loro bisacce degli strani arnesi di pietra che le fate non avevano mai visto ed iniziarono a legarle su dei rami trovati lì vicino. I piccoli esserini erano sempre più incuriositi, e ipotizzavano il loro scopo.
“Secondo me lo usano per giocare.” disse una piccola fata con una campanula viola sulla testa.
“Io sono convinta che sia un bastone per fare dei salti altissimi” disse un’altra con un vestitino composto da tante verdi foglioline.
Nel frattempo l’uomo che stava costruendo lo strano strumento cominciò a camminare in direzione di un docile gruppo di cervi. Gli animali nel vederlo non batterono ciglio, abituati com’erano alla presenza delle fatine. Tutte erano in attesa, con il fiato sospeso, curiose di sapere cosa quegli strani individui volessero mai fare. L’uomo afferrò il bastone, lo puntò e lo lanciò verso il cervo più grande del gruppo, abbattendolo in pochi secondi. Le fate, scioccate e spaventate, si rifugiarono dove poterono, cercando di scappare sia dall’uomo tanto brutale che dalle zampe degli animali spaventati.
Il carnefice, assieme agli altri della sua specie, esultarono e si congratularono con il cacciatore.
Le fate, quella notte, mentre gli uomini dormivano, ricominciarono a ballare e a far festa, sapendo però che quelle abitudini non potevano continuare. Arrivata l’alba, le fatine, per paura di essere uccise dall’uomo, decisero di non ballare e giocare, ma di rimanere, ognuna, nella propria casetta. Erano talmente dispiaciute di non poter passare più così tanto tempo insieme che piansero tante lacrime da bagnare il prato, dandosi, però, appuntamento alla sera successiva.
Spuntato il sole gli uomini si svegliarono, scoprendo che tutt’intorno a loro erano presenti piccole gocce fredde che, poco a poco, sparirono con il calore.
Da quel giorno in poi le fate si ritrovano ogni notte a far festa, consapevoli di dover separarsi la mattina, lasciandoci, come segnale della loro tristezza, tante piccole lacrime, chiamate, dagli uomini, rugiada.

Metariflessione metaletteraria sulla metanarrazione

(di Federica Tosadori)

“Sentivo, nello scorrere pungente di quei giorni, la mancanza della letteratura. Fu però prima che mi accorsi improvvisamente, come una folgorazione, che erano anni che non leggevo un libro che mi piacesse. Da lì cominciai a rendermi conto che la letteratura mi era mancata tremendamente e mi misi a cercare tra la polvere millenaria, qualcosa sugli scaffali che mi sanasse da quella malattia. Ma qualsiasi libro si scioglieva in parole vuote, che cupe rimbombavano tra il cervello e lo stomaco. Avevo disimparato a leggere.”

“Chiusi la copertina, e questa di rimando mi restituì il volto grigio di uno scrittore intellettuale. Quindi davvero quella era la fine. Avevo riletto senza nemmeno accorgermene, quelle cinque ultime righe la quantità di volte che mi sembrava necessaria all’accettazione che il libro accompagnatore della mia estate, fosse davvero finito così tristemente.”

«Bhè, come incipit non è male!» pensai.

Riflessioni di un orgoglio libresco

(di Federica Tosadori)

Lo scorso venerdì mattina, con il nostro carico di scatoloni di libri, fieri rappresentanti dell’intero catalogo Gattaccio, siamo arrivati agli spazi Base di via Bergognone per partecipare alla terza edizione del BookPride, la fiera nazionale dell’editoria indipendente. Il nostro piccolo stand a piano terra, in compagnia delle coinquiline sempre sorridenti di Sartoria Utopia con i loro capolavori cuciti a mano, è stato allestito in un batter d’occhio e ricoperto di segnalibri “felini” – si sa che i gattini mettono d’accordo sempre tutti – e si è presentato ai suoi primi visitatori curiosi.

La curiosità è stata certamente l’ingrediente principale di quest’ultimo weekend tra libri, editori, autori e lettori milanesi, o meglio italiani. Ma se la curiosità non sempre porta all’acquisto spensierato di oggetti-libro che sono per loro natura delle vere opere d’arte, rappresenta certamente il primo germe di una partecipazione appassionata.
Ci siamo trovati così all’interno di una marea bellissima, fatta di ondate forti di visitatori che ci hanno fatto rigirare su noi stessi, e momenti più calmi in cui abbiamo riflettuto su come migliorarci per attirare l’attenzione e farci conoscere o semplicemente per diventare più grandi, crescere seguendo l’esempio di chi, dal basso, piano piano, con pazienza e passione si è trasformato e si è messo al servizio di chi i libri li ama profondamente.

Anche perché in fondo con i libri bisogna entrarci in rapporto, conoscerli – e forse dopo un editing serrato e qualche chiacchiera con il rispettivo autore, questo incontro non può che accadere. Così e solo così gli editori possono, da dietro il banco del loro stand, raccontarli a chi si ferma anche solo per qualche secondo ad ascoltare le storie che si dispiegano dietro le copertine sempre blu di Sellerio o quelle leggermente allungate di Iperborea, le fotografie di Cierre, i colori di Marcos y Marcos e la ristampa tutta nera dell’intera opera di Hoffmann per L’Orma, quelle fumettose di Eris, quelle enormi e ricamate dei libri dedicati ai bambini di Verbavolant, che però si comprano soprattutto gli adulti…

La passione insomma era davvero palpitante per i corridoi del Bookpride, e anche la voglia di vendere, certo!
“Eh, quest’anno c’è poca gente!”
“L’anno scorso mi sembrava ci fosse più affluenza.”
“…Forse, il Papa…”
“Ma poi alla fine lo sciopero lo fanno?”
“Guarda, questo libro è un capolavoro, fossi in te lo comprerei!”
“Ah sì, è la prima copertina che ho instagrammato sul mio profilo!”
“Anche tu fai recensioni? Vieni a vedere il mio blog!”
“…Quindi, sai, sono quasi una giornalista, potresti darmelo gratis, in fondo è sempre pubblicità a tuo favore!”

Importa e non importa. Ciò che vale la pena è il tempo speso a sfogliare libri mai visti, a conoscere persone che condividono una necessità comune, quella di riempirsi una casa, virtuale o meno, di quell’oggetto fatto da pagine variabili, un paratesto dalle mille forme, parole a milioni e personaggi altrettanti, un titolo, un autore e la firma di chi ha voluto metterlo al mondo: un editore. Indipendente ancora meglio.

Bookpride è stato anche eventi. Decine di incontri con autori e personaggi del mondo dell’editoria, presentazioni che già alle prime parole fanno venire voglia di aggiungere l’ennesimo libro alla lista dei “da comprare” salvata sul proprio desktop. Si passeggia tra Base e Mudec, guardando negli occhi gli autori che non si sa mai che faccia abbiano – che poi si immaginano sempre diversi da come sono realmente.
“Ah ma sono persone? Come noi?”
“Quindi lui esiste davvero, non è solo uno pseudonimo!”
“Bho, me lo aspettavo antipatico e invece potrebbe essere un nostro compagno di bevute!”

Le persone si parlano. Anche se non si conoscono. E si parlano di libri. Si scambiano consigli e pareri. Non comprano, va bene, ma si vede proprio che vorrebbero farlo, che tutto ciò che in questo momento vorrebbero è avere più soldi e più tempo, più spazio, una stanza intera tutta per sé – direbbe qualcuno – dove stare con mille libri mai letti, tutti quelli di cui parlava Calvino nella sua di lista.

Domenica sera ci siamo salutati sorridendo e abbiamo richiuso i testi “non scelti” nel loro spazio buio e inscatolato. Chissà quale sarà la loro storia adesso. Forse verranno accolti da una libreria – perché c’erano anche i librai in incognita tra i visitatori! O forse la vendita online, così incorporea, darà delle piacevoli soddisfazioni. Intanto esistiamo, noi piccoli editori indipendenti e abbiamo grandi progetti, un po’ rivoluzionari, un po’ anarchici… Idee che danno senso anche ai libri non venduti, orgogliosi però di esserci stati.