Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa

(di Marcella Valvo)

Non mi sento esattamente la persona più competente del mondo per poter recensire un libro. Ma se ci spostiamo su un altro piano – quello dell’esprimere ciò che il libro mi ha dato – allora riesco a trovare uno spazio davvero per me.
E questo ci porta al senso di questa rubrica, dedicata ai libri che ci aiutano a “stare allegri”. In fondo, per ciascuno significa qualcosa di diverso, e anche per una stessa persona possono essere diverse le cose che la fanno stare allegra. Giusto?
Per questo cercherò di spaziare il più possibile, lasciandomi trascinare dall’intuizione e, perché no, dai consigli degli amici. 
Partendo dall’ultimo libro che ho letto, si è trattata proprio di un’intuizione aiutata – bisogna ammetterlo – da un titolo quantomeno evocativo: Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa. Coincidenza ha voluto che, dopo aver rimuginato sul comprare o meno questo libro per circa un mese, un’amica me lo abbia prestato. Inutile dire che, appena terminato, me ne sono procurata una copia tutta mia…

Perché questo titolo? Cos’ha di speciale questo libro? Perché dovreste correre a comprarlo anche voi?
Risponderò a tutte queste domande raccontandovi nel mentre la storia che fa da colonna portante ai capitoli: una storia di speranza e di fede, di scelte fatte con la consapevolezza di mille contro e un solo pro, di desiderio di equità e giustizia sociale. Una storia alla quale fanno da corollario altre piccole storie di giovani italiani che, come recita il sottotitolo, «non hanno avuto paura di diventare grandi».
A riportarle è Mario Calabresi, al tempo della stesura del libro ancora direttore de La Stampa (attualmente direttore di Repubblica, dal gennaio 2016), e personalmente coinvolto dal racconto, dal momento che vede protagonisti i suoi stessi zii.
Gigi Rho e Mirella Capra, entrambi medici, decidono di trasferirsi in Africa dopo il loro matrimonio. La lista di nozze, una serie di articoli e strumentazione per l’ospedale che stanno aprendo a Matany, Uganda.
Vi rimarranno cinque anni, il tempo di avviare la clinica e lasciarla nelle mani di medici e infermieri locali, tutti in gamba e desiderosi di rimboccarsi le maniche per il proprio villaggio. Primi fra tutti, i cosiddetti “vaccinatori in bicicletta”, dodici ragazzi formati da Gigi e Mirella, per andare nei centri più piccoli e periferici a distribuire i farmaci e fare sensibilizzazione. Perché non basta aprire una clinica e lasciarla lì a disposizione: è importante che si colga il valore, prima di tutto, di una cura personale, indipendente da ciò che può essere trattato in ospedale.

«Non ho mai smesso di onorare l’impegno che avevo preso con tuo padre. Io, che avevo studiato l’inglese nella speranza di andarmene, sono rimasto qui tutta la vita e ho continuato a fare quello che ci aveva insegnato: sono andato in pensione questo mese, esattamente dopo quarant’anni. Ci sono stati giorni faticosi, ma sono orgoglioso della fiducia che era stata investita su di me.»

Queste le parole di Joseph, uno di quei dodici ragazzi, a Stefano, figlio di Gigi Rho.
Nonostante il ritorno in Italia dopo cinque anni, il richiamo di quella terra lontana rimarrà sempre vivo nel cuore dei due medici, tanto che decideranno di tornarci altri due anni – proprio dopo quella lista di pro e contro richiesta dal padre di Mirella – prima di rendersi conto che per i loro tre figli era davvero troppo dura.
Lo sapevano, prima di ripartire, che poteva non durare: eppure di fronte a tutti quei “ma” ciò che ha vinto è stato un unico “sì”, dettato da ciò che hanno chiamato “uno slancio del cuore”.
In Uganda, la loro vicenda ha finto per intrecciarsi a quella di tanti altri medici e infermieri, anche italiani, che hanno dato il loro contributo al sistema sanitario del paese in un modo silenzioso ma fedele, acceso dal fuoco della passione e della volontà di mettersi al servizio degli ultimi.
E quella passione ha scavato man mano il proprio solco su quella terra, animando le fiamme dei giovani del posto che attendevano solo che si ricordasse loro che sognare è possibile: certo non facile, ma una fatica per cui vale la pena, sempre.

Questa ad esempio la storia di Peter Lochoro, che ha cinque anni quando vede nascere e svilupparsi il Saint Kizito Hospital. Destinato a fare il pastore, la sventura decide di mettersi in mezzo e cambiargli la vita, perché l’allevamento della sua famiglia viene razziato da un gruppo di guerrieri e a lui non resta che andare a studiare.
Da lì, una borsa di studio dietro l’altra, conquistate con impegno e dedizione, gli hanno permesso di frequentare un master a Londra.
Oggi Peter è direttore di tutti i progetti CUAMM (Medici con l’Africa) in Uganda. E ancora, Matthew Lukwiya, che ha lavorato con Mirella Capra e Lucille Corti per il suo tirocinio post-laurea ed è diventato il primo direttore ugandese del Lacor Hospital, Gulu.
Qui nel libro, si fa riferimento alla testimonianza della suora comboniana Dorina Tadiello, che lavorò a lungo con lui e lo accompagnò negli ultimi istanti di vita, interrotta troppo presto a causa dell’epidemia di Ebola scoppiata nei primi anni 2000 in Uganda. Sono andata a leggere quella testimonianza, e una frase in particolare di Matthew mi è rimasta in testa:

«Mi piacerebbe che la generosità, lo spirito di dedizione, non fossero solo una scelta dei primi anni di professione, ma uno stile di lavoro e di impegno che si protrae nel tempo. Le motivazioni al servizio non sono né scontate né automatiche, sono frutto di un processo di crescita che va coltivato…»

Perché è qualcosa su cui mi sono soffermata a riflettere spesso, soprattutto di recente, da quando mi sono laureata e ho iniziato a guardare più da vicino il mondo del lavoro. Matthew parla di stile di lavoro, che è qualcosa di indipendente dal lavoro in sé, o almeno in parte. Posso svolgere qualsiasi mestiere, ma ciò che mi definisce non dev’essere l’uniforme che indosso, quanto il modo in cui la indosso. Mario Calabresi racconta di un altro suo incontro in Uganda, quello con Giovanni dall’Oglio, medico romano per anni responsabile dei progetti CUAMM in Uganda, e parlando di lui e della sua ecletticità, dice: “non ci dobbiamo condannare a vivere solo nel nostro camice”.

Come tante altre storie narrate in questo libro, ciò che davvero conta è sognare, andare oltre, “immaginare oltre quello che ci hanno detto sia consentito”. Così ce l’ha fatta Elia Orecchia, che ha ereditato il mestiere paterno ed è riuscito a resuscitare l’ultima lampara di Genova.
Così Aldo Bongiovanni ha riportato in vita il mulino di famiglia nel Cuneese, ascoltando le nuove esigenze del mondo in cambiamento e reinventandosi senza lasciarsi frenare dall’ignoto.

Perché Non temete per noi mi mette allegria? Si parla di fatiche, certo.
Di sofferenza, di lotta. Di vicende difficili che non possiamo ignorare.
Ma anche di energie spese senza rimpianti, di decisioni prese col cuore, di pienezza di vita.
Di speranza. Non so voi, ma a me la speranza mette allegria, e questo libro mi ha dato una grande carica di speranza.
Il mio consiglio è questo: lasciamoci contagiare.

Gatti molto speciali

(di Isabella Gavazzi)

Gatti molto speciali è un libro di Doris Lessing, premio Nobel per la letteratura nel 2007. L’autrice, vissuta in una prima infanzia in Iran, per poi spostarsi con la famiglia nell’allora Rhodesia – ora Zimbabwe – e successivamente a Londra, racconta il rapporto con i gatti che hanno costellato la sua vita, ricordando soprattutto quelli che più le sono rimasti impressi per atteggiamenti e avventure.

Non si tratta di un libro in cui gli animali vengono descritti e sono protagonisti della storia, anzi, in realtà non ha una vera e propria trama: come un diario, essi vengono ricordati dalla Lessing, in un testo-confessione di tutto ciò che nella sua vita ha comportato la parola “gatto”.

È un libro sicuramente diverso da ciò che ci si aspetta mentre ci si accinge ad aprirlo, perché rivela, già dalle sue prime pagine, una crudezza che difficilmente si potrebbe abbinare al tema.
L’autrice, infatti, rivive la quantità di gatti che ha posseduto con la famiglia nella tenuta di campagna in Africa, in cui questi, non sterilizzati e lasciati quasi allo stato selvatico, erano molto diversi dalla nostra immagine di felino domestico.
Questo pullulare di animali era controllato, dalla madre della protagonista – descritta in poche frasi come una donna decisa e austera – attraverso soppressioni di intere cucciolate . Si è riportati, quindi, in un contesto di vita contadina a noi lontana, in cui il gatto non è altro che un predatore per i topi e che, quando la riproduzione è considerata esagerata, deve essere eliminato. Una visione cruda che rispecchia il passato, ma che la donna vive come se fosse una cosa normale, essendo cresciuta in questo clima. I loro gatti non avevano nomi, non erano particolarmente affettuosi e se sparivano era normale farsene una ragione e continuare la vita di tutti i giorni.

Il cambiamento avviene quando si trasferisce nei sobborghi di Londra, dove non mancano i gatti: questi però sono uno o al massimo due, e l’attenzione data loro è completamente diversa, così come il rapporto con gli umani. Sono animali ben tenuti, curati e portati spesso dal veterinario, con i quali la Lessing parla, dialoga e li umanizza.

Sono compagni di casa e di vita che lei descrive come se fossero a tutti gli effetti delle persone: i suoi amici a quattro zampe sono gelosi, educati, vigliacchi come se fossero umani, gli stessi che non compaiono mai direttamente nel libro.

Gatti, solo gatti o al massimo persone che hanno aiutato la vita del gatto, quindi veterinari, il tutto non in toni sdolcinati e mielosi tipici di chi si rapporta con un animale, anzi.
La sua è un’analisi che muove da basi quasi antropologiche, in modo scientifico e analitico. Ogni azione del gatto viene da lei spiegata con fare meticoloso e attento, senza mai lasciarsi andare a sentimenti di tenerezza: è una spettatrice della vita dei suoi amici gatti fin dalla più tenera età e riesce ad interpretare le esigenze e i bisogni dei gatti.

“Durante il giorno sedeva sul marciapiedi, guardando il traffico, oppure entrava e usciva dai negozi: un vecchio gatto di città, un gatto gentile, un gatto senza pretese.”

Solo nel finale si può trovare un lato melanconico e affettuoso, rivolto a un gatto di nome Rufus, trovatello malconcio accolto nella sua casa, curato e accudito per quattro anni:

“Una volta, mentre dormiva, io lo accarezzai per svegliarlo e fargli prendere la medicina, lui emerse dal sonno con quell’affettuoso gorgoglio di saluto, carico di affetto e di fiducia, che i gatti riserbano a coloro che amano, ai gatti che amano. Ma quando si accorse che ero io tornò a essere il se stesso di sempre, educato e pieno di gratitudine, e io mi accorsi che quella era stata la sola volta in cui lo avevo sentito emettere quel verso particolare. È il verso con cui le mamme salutano i loro gattini, e i gattini salutano le loro mamme. Forse aveva sognato di quando era cucciolo? O forse aveva addirittura sognato quegli umani che lo avevano posseduto da gattino o giovane gatto, ma poi se n’erano andati e lo avevano abbandonato. Sentito così, alla fine, quel verso turbava e faceva male, perché non lo aveva mai fatto nemmeno quando faceva le fusa come un motorino, per dimostrare la sua gratitudine. […] La fiducia, l’amore che aveva riposto in qualcuno, una volta erano stati così profondamente traditi, che quel gatto non aveva potuto consentirsi mai più di voler bene di nuovo”.

Un libro intero sull’analisi del gatto in tutte le sue sfaccettature comportamentali, in cui l’autrice non è altro che una spettatrice al pari del lettore: le parti si invertono e l’uomo diventa osservatore silenzioso di un animale con sentimenti che ricordano tutti noi.