Il bar sotto il mare

(di Marcella Valvo)

La prima opera di Stefano Benni che ho letto è stata Margherita Dolcevita, romanzo del 2005, la cui lettura risale ormai ai miei dodici-tredici anni. Purtroppo, benché sia stato subito amore a prima lettura, non ho più letto niente di suo – rimproverandomi regolarmente per il misfatto. Poi finalmente, pochi giorni fa, mi è capitato tra le mani Il Bar sotto il Mare, una raccolta di racconti in puro stile Decameron: e come un marinaio attirato dal canto della sirena, non ho potuto non afferrare il libro al volo e divorarlo.
Il genere dei racconti brevi si presta in realtà agevolmente a diversi ritmi di lettura: si può leggere tutto d’un fiato, o un racconto al giorno, magari prima di andare a dormire oppure durante qualche spostamento in treno o in metro. Questo, tuttavia, non sono riuscita a diluirlo. Ogni racconto mi chiamava inesorabilmente a quello successivo. Una ciliegia tira l’altra, si dice: in tal caso, Stefano Benni scrive ciliegie.
La cornice fin da subito porta il lettore a immergersi – in tutti i sensi – nella dimensione surreale, assurda, ricreata dall’autore e dominante nei diversi racconti. Non solo la voce narrante esordisce dicendo “Non so se mi crederete”, generando subito l’allerta, ma prosegue con la descrizione di un vecchio signore elegante, con una gardenia all’occhiello, che lo supera lungo la riva del mare con un inchino e sparisce poi nelle acque. Naturalmente, il narratore non può che seguirlo, tuffandosi anch’egli e ritrovandosi davanti a un bar dall’insegna luminosa sospesa a pochi metri dal fondale.

Il barista mi fece segno di avvicinarmi. Aveva un’espressione ironica e il suo volto ricordava quello di un famoso interprete di film dell’orrore. Mi offrì un bicchiere di vino e mi appuntò una gardenia all’occhiello.
– Siamo lieti di averla tra noi – disse sottovoce. – La prego di accomodarsi, perché questa è la notte in cui ognuno dei presenti racconterà una storia.
(Prologo)

Sempre all’interno del prologo che introduce la cornice, assistiamo a una rottura della quarta parete, con il narratore che si rivolge al lettore segnalandogli la copertina del libro stesso, cui far riferimento per capire l’eccentricità dei ventitré avventori del bar. E in effetti l’illustrazione di Giovanni Mulazzani ci rende un perfetto quadro del gruppo: dall’uomo col cappello al vecchio con la gardenia, dal bambino serio al nano, dall’uomo invisibile a quello con la cicatrice, dal cane nero alla pulce che abita il suo pelo… come se non bastasse, i ritratti di tutti questi personaggi si ispirano chiaramente a protagonisti del cinema e della letteratura (vediamo John Belushi in The Blues Brothers, Agatha Christie, Sigmund Freud, Marilyn Monroe, Braccio di Ferro…) e questo anticipa un altro particolare interessante dell’opera, ossia la sua ricchezza di riferimenti intertestuali. Ogni racconto, infatti, si caratterizza per un differente genere e una diversa modalità di narrazione, così che si passi dall’assurdo alla satira, dall’horror al giallo, con plurimi richiami a specifici autori e opere.

– Come lo sai?
– Me lo hai detto tu. Ti vanti spesso delle tue parentele, dottor Lollis. Ecco un altro sassolino che mi è tornato in mente. Due settimane fa tu leggevi questo libro, nell’intervallo in giardino. Allora non mi sembrò strano. Anch’io mi porto a scuola Poe e la zia Agatha… lo hai preso in prestito dalla biblioteca della scuola, vero?
(Priscilla Mapple e il delitto della II C)

Il risultato è un’opera eterogenea che lascia in bocca un sapore differente per ogni racconto, con il retrogusto di un risvolto moraleggiante che tuttavia non si impone mai. Questo perché Benni, pur spingendo alla riflessione, riesce sempre a mantenersi ironico e leggero, sottile e divertente.
Non posso che consigliare a voi questa lettura e promettere a me stessa di non far passare più così tanto tempo prima di rileggere qualcos’altro di suo.

Nonno Celso disse che ne avremmo viste di belle.
Bene, a febbraio era già primavera. Tutte le margherite spuntarono in una sola mattina. Si sentì un rumore come se si aprisse un gigantesco ombrello, ed eccole tutte al loro posto.
Dagli alberi cominciò a cadere il polline a mucchi. Tutto il paese starnutiva, e arrivò un’epidemia di allergie stranissime: ad alcuni si gonfiava il naso, ad altri spuntava una maniglia. La frutta maturava di colpo: ti addormentavi sotto un albero di mele acerbe e ti svegliavi coperto di marmellata.
(L’anno del tempo matto)

Lezioni di Scrittura: scrivere di sé

(di Luciano Sartirana)

Parliamo del racconto di se stessi e di ciò che si è vissuto, della propria o dell’altrui esistenza, di un luogo o un periodo storico particolari. Un’avventura di scrittura e di pensiero che può migliorare il tuo stile, la tua capacità di narrare, la bontà della lingua che utilizzi. L’eterno enigma e l’incantesimo dello scorrere del tempo attraverso il tuo personalissimo sguardo. Ciò che oggi alcuni chiamano autofiction, che ha però una tradizione antichissima.

Intanto, qualche suggerimento generale:

  • Ascoltati quando parli! Cura la tua lingua parlata, deve diventare buona come quella scritta: può costare tempo e sforzi, ma facilita la scrittura stessa, che ti nascerà già pronta in testa.
  • Leggi molto, autrici e autori diversi e di ogni epoca e paese, non chiuderti in un solo genere o nei soliti scrittori.
  • Scrivi qualcosa ogni giorno – fossero anche tre righe sul brutto tempo – e alla stessa ora: fa disciplina e favorisce un flusso costante di immaginazione.
  • Se hai iniziato a scrivere, fissa una data entro cui finire il tuo testo: crea sfida ed energia, la tua attenzione eviterà di sfilacciarsi nel tempo.
  • Non deprimerti se ciò che hai scritto non ti piace! Ci sono sempre due fasi: a) prima scrittura; b) revisione e arricchimento.
  • Cura i tuoi ricordi, annotali da qualche parte, chiedi altri dettagli a genitori, parenti, amici o persone che c’erano; saranno la tua materia prima, più ricchi e più vividi se sono anche quelli di altri e secondo il punto di vista di altri.
  • Associa ciò che ricordi a delle date precise… questo li collocherà nel tempo di tutti e acquisiranno autenticità.
  • In ogni caso, non avere l’ansia della precisione o della completezza: alcuni dei tuoi ricordi saranno vaghi o contraddittori… scrivine lo stesso, la tua immaginazione li renderà ugualmente interessanti.
  • Racconta fatti, non solo stati d’animo o riflessioni.
  • Avvicinati a quelle scene lontane più che puoi, non raccontare tutto come narratore esterno, immagina le emozioni di quell’istante se non te le ricordi. Anche se parli del passato, tutto deve avere la forza del presente e della vicinanza.
  • Privilegia il dialogo diretto rispetto a quello indiretto.
  • Salta pure avanti e indietro nel tempo, ma poni la massima attenzione affinché il lettore sappia sempre e immediatamente in che momento e in che anno siamo.
  • Non accontentarti del piccolo mondo quotidiano degli affetti, ma parla anche dei viaggi, del lavoro, di come erano fatte le case e le città, degli eventi storici che accadevano in contemporanea con le tue scene più intime… delle canzoni, dei cortili, degli sport.
  • Fatti una scaletta temporale di ciò che vuoi raccontare, suddivisa per anno, mese, giorno… il calendario di quelle vicende lontane; è affascinante, e aiuta a non fare errori nel citare avvenimenti o far accadere cose.
  • Anche se pensi di conoscerlo bene per esperienza diretta, studia il periodo nel quale vuoi ambientare il tuo racconto, scoprirai comunque cose che non sapevi.

Siate ribelli, praticate gentilezza

(di Marcella Valvo)

Già il titolo di questo libro è uno di quelli che parla da sé: “ribelli” e “gentilezza” in una stessa frase, ha un sapore apparente di contrasto, eppure se ci si sofferma appena un pochino si sente che forse no, non sono poi così lontani.
Quanto è ordinaria la gentilezza oggi? Quanto è scontata la cura per il prossimo?
Saverio Tommasi affronta queste tematiche scrivendo una lettera alle sue due bambine, Caterina e Margherita, perché non si sa mai cosa il domani riserverà a ciascuno di noi e soprattutto perché il tempo dedicato ai propri figli non è mai abbastanza.
E sicuramente è un messaggio che può far bene a tutti.

Ogni capitolo è dedicato a un tema differente, arricchito dagli episodi di vita quotidiana con le figlie – che sono sempre il fondamentale punto di partenza –, dall’esperienza personale dell’autore, e dal messaggio più universale che vuole lasciar trasparire. Il risultato è una lettera che parla direttamente al cuore del lettore, intercettandone il vissuto e aiutandolo a soffermarcisi qualche minuto in più, per riviverlo e – perché no – forse comprenderlo un po’ più a fondo.
La semplicità delle parole di Tommasi, che vuole farsi capire a ogni età, unita alla sua capacità di mostrarsi integralmente, senza maschere e a volte senza troppi filtri – proprio come i bambini – diventano le armi della sua battaglia. Una lotta per i sogni, il rispetto, la vita; e una lotta contro tante forme di ingiustizia: dal bullismo al razzismo, dall’omofobia al fascismo (moderno e non).

Credo che questo libro possa rientrare a tutti gli effetti in una rubrica sui “Libri per stare allegri”: non perché io mi sia sempre sentita così alla fine di un capitoletto, anzi… alcuni mi hanno lasciata pensierosa, altri malinconica, forse arrabbiata, altri sorridente e divertita, altri ancora intenerita. Ma credo che qui stia bene perché quando ci si guarda intorno con gli occhi dei bambini, il mondo ha sempre un po’ più di luce… e la luce a me mette molta gioia. Come spero anche a voi.

In questo, nel mostrare il mondo attraverso gli occhi del bambino, Tommasi riesce bene.

Così, la reazione di Caterina al servizio al telegiornale su uno sbarco o alle foto di un amico del papà sulle migrazioni forzate diventa il bellissimo pretesto per affermare che “il razzismo è un’invenzione degli adulti”:

Mentre eravamo lì, io con le mie foto e tu con i tuoi pupazzetti, ti sei voltata a guardare un’immagine sul mio computer, per due secondi o tre. Era la foto di un bambino su un autobus mentre guarda da un finestrino chiuso. Il bambino era in collo alla mamma, che aveva un velo in testa. Accanto a loro un uomo, penso il babbo. Tu, Caterina, ti concentri sul bambino e mi chiedi l’ovvio: “È un bambino?”
“Sì.”
“È un amico mio?” (sorriso).
“Proprio amico no, non lo conosci.”
“Ah, peccato”

E questo è solo un esempio di come uno sguardo spontaneo e puro sul mondo, così naturale nell’infanzia, si rivela sempre un tesoro prezioso, da proteggere a spada tratta. Perché ci aiuta a tenere in circolo l’amore, a riceverlo e donarlo, a moltiplicarlo. È lo sguardo che ci permette di vedere nel prossimo non un estraneo ma un amico. Ed è lo stesso sguardo che Tommasi riesce non solo a evocare ma anche ad adottare, in una lettera che vorrebbe (forse) insegnare qualcosa alle sue bimbe e finisce per raccontare ciò che le sue bimbe hanno insegnato a lui. Guardare il mondo così non è facile. Serve essere un po’ ribelli. Serve andare contro corrente, come la ragazza sulla copertina del volume, che naviga su un mare di ombrelli grigi con il proprio ombrello multicolore e rovesciato. Un ombrello che la pioggia non la fa scivolare via, ma la accoglie e se la fa amica.

SCHIANTO – Compagnia ÒYES

(di Federica Tosadori)


Ideazione e regia Stefano Cordella | drammaturgia collettiva | con Francesca Gemma, Dario Merlini, Umberto Terruso, Fabio Zulli | disegno luci Stefano Capra | sound design Gianluca Agostini | scene e costumi Maria Paola Di Francesco | assistente alla regia Noemi Radice | organizzazione Valeria Brizzi, Carolina Pedrizzetti.

Produzione ÒYES, con il sostegno di Mibac, Fondazione Cariplo, Next laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo 2018/2019, Centro di Residenza della Toscana (Armunia Castiglioncello – CapoTrave/Kilowatt Sansepolcro), Teatro in-folio/Residenza Carte Vive | Menzione speciale Forever Young 2017/2018, La Corte Ospitale.

Spunto di riflessione tematica: Bernard-Marie Koltès, Nella solitudine dei campi di cotone, 1986

Prossima replica:
5 aprile 2019 | Teatro dei Segni, Modena
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In scena quattro attori. E un animale. L’animale è uno di loro, è una maschera di gomma, ma ha due occhi neri che sono due specchi. Come i vetri della scenografia, che è minima, semplice, rotta. Tutto sul palco ha subito uno schianto e tutto è diventato frammento, perfino le parole dei protagonisti, le scene, la storia. Il linguaggio è contemporaneo, con una presa forte sulla realtà, ma l’immediatezza è solo apparente.

Esiste nella distruzione un fascino disarmante: quando le situazioni, le storie, le persone, non sono più aggiustabili, allora si è davvero liberi di lasciarsi andare, di rotolare via, di smettere di trattenere, di avere coraggio. Così i personaggi – un uomo in carriera, sempre in controllo, scopertosi gravemente malato, un tassista pieno di vita al punto di diventare logorroico, una donna senza più alcuno stimolo vitale, un ragazzino che si crede un super eroe, ma non di quelli convenzionali, perché lui è Robin, non Batman, Robin! – giungono nel cosiddetto “punto più basso”, quello da cui si può solo risalire. Ma si può risalire? Si deve volerlo, forse, e non tutti ne sono così sicuri. Prima riposarsi un po’ sul fondale può essere salutare, disperato, ma salutare. Ed è così che si sente lo spettatore: come se stesse guardando sul fondo di una bottiglia vuota, caduta e dimenticata per terra in cantina qualche anno prima. Il luogo più lontano e buio dell’universo, quell’angolo dietro all’unico mobile di casa che non si è mai spostato prima: c’è polvere, c’è sporco, c’è vuoto, c’è un insettino che cammina veloce. Sono i personaggi, che si muovono veloci, affannati, in preda al panico, che tentano di studiare la prossima mossa.

E l’animale? Eh, qui la cosa si fa complicata. Mentre l’uomo in carriera si sta facendo accompagnare il più lontano possibile dal tassista che non smette di parlare – sua moglie è incinta, e lui ne è molto felice, nonostante la responsabilità che si sente cadere addosso da questa nuova circostanza – avviene un incidente. Uno strano animale viene investito dall’auto e rimane ferito, in punto di morte. I due decidono di portarselo dietro, fino a che non incontrano per la strada un altro essere altrettanto strano. Umano stavolta, ma travestito da Robin, un ragazzino che vuole uccidere Jocker. L’animale guarda i loro movimenti, li osserva, si lascia osservare e muto interagisce con gli altri. Anche con il pubblico, che viene inglobato da quegli occhi enormi: quando la maschera si volta sulla platea sono tutti coinvolti, nessuno escluso. I tre umani arrivano in un locale, un pub, un autogrill, un luogo senza luogo; qui una donna li accoglie, e con la sua voce li strega, si fa ascoltare e ascolta. Ma forse non è vera comunicazione quella che avviene tra loro, perché sono tutti lo specchio di tutti, e i protagonisti si avvertono inevitabilmente soli.

L’animale nel frattempo dov’è finito? È mai esistito davvero? È ognuno di loro forse, parte di ognuno di loro, ognuno di noi. È un agglomerato delle loro paure, delle loro voglie, delle loro pulsioni. È il loro desiderio morente. Una voce della coscienza che urla da dentro cosa fare, dove puntare, l’ultima aspirazione. Ma viene ignorata, se non da tutti da almeno il 75% dei quattro. Non c’è possibilità di 100% in quest’opera, nemmeno a livello formale – stiamo parlando inoltre di scrittura collettiva, dunque il lavoro di riscrittura e rimontaggio è potenzialmente infinito. Niente e nessuno può arrivare alla propria completezza, lo spettacolo stesso rimane sospeso sul finale, manca qualcosa, ma è inevitabile. Perché non si può parlare della meta quando si sta raccontando di un viaggio, per di più se si tratta di un viaggio dalle atmosfere oniriche, notturne, surreali. I sogni non sono mai totali, ti risvegliano sempre attraverso una domanda. Senza quei dubbi probabilmente non ci alzeremmo nemmeno dal letto. E allora il dubbio è l’animale, è la pulsione ancestrale che ci mantiene in vita.

Su “La malasorte”, di Daniela Grandinetti

(di Luciano Sartirana)

Ho letto La malasorte, della scrittrice calabrese Daniela Grandinetti, uscito nel 2018.
Sovara, paesino immaginario dell’entroterra calabrese, circa cento anni fa. La poco più che adolescente Cosma entra nella casa del notabile del posto come domestica. A casa sua regna la povertà più assoluta, quel passo pare essere una cosa buona. Non lo sarà; e nei decenni successivi il suo fantasma pare essere la causa di tempeste, disastri e appunto malasorte.
Sovara, paesino immaginario dell’entroterra calabrese, oggi. La giovane Cettina è partita per Milano anni fa, per intraprendere studi di arte. Partita è un eufemismo: in realtà è una fuga senza prospetto di ritorno. Ma a Milano combina molto poco, e a un certo punto deve tornare a Sovara per questioni famigliari. Anche qui siamo all’eufemismo, perché ciò che l’aveva allontanata non è mutato di un centimetro… violenza fra le mura, nessun affetto vero, un paese abbandonato fuori e dentro di sé. È solo grazie all’affettuosa pervicacia dell’amica d’infanzia Tilde che Cettina riesce a raccontarsi, ammettendo le menzogne che ha raccontato a Tilde stessa e che le facevano però da scudo a tutto. Solo da qui, nel riconoscere e guardare in faccia ciò che di arido e di violento si porta dentro, Cettina inizia a uscire dal circolo vizioso della malasorte che invece aveva abbattuto Cosma.
I temi affrontati sono molti, uno più affascinante e complesso dell’altro: il parallelo fra la vicenda di Cosma e quella di Cettina, dove nulla è facile per nessuna delle due; l’idea di lasciarsi tutto dietro andando lontano, ma fallendo perché ci si sente comunque osservati e impreparati di fronte alle aspettative, per cui si mente e ci si nasconde; la lotta con se stessa che è lotta con rapporti pietrificati nel tempo, come e più del territorio stesso.
Soprattutto, ciò che in famiglia e della famiglia non si può dire: la violenza.
Rispetto alla solitudine infinita di Cosma, i decenni non sono però passati invano. Oggi Cettina ha l’opportunità di una relazione positiva con un’altra donna, Tilde, a significare che è solo ricostruendo una genealogia femminile di consapevolezza e sostegno che si può uscire da un patriarcato da paleolitico. Una relazione faticosa ma che muove dei passi importanti, quella fra Tilde e Cettina; comunque ostacolata da un senso di ritrosia, di rispetto umano, di chiusura verso chi ci sta attorno, nonostante tutto.
“La malasorte” è un libro di un’intelligenza sottile, un’attenzione millimetrata al moto d’animo, l’attraversamento di una terra e di una cultura, una lingua da costruire e delle cose di sé da capire. Di Calabria da cui si fugge e magari si torna. Di donne cui non basta rispecchiarsi in una leggenda lontana, ma vogliono essere vive oggi.
Tante cose, tanti significati… e uno stile agile ed elegante, preciso, profondo, lucente, che ti accompagna e fa venire voglia che arrivi sera per riprendere la lettura. Apre anche scorci di te, di me, sui copioni di vita ereditati e dai quali è bene uscire. Un libro e una scrittrice importanti.

Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa

(di Marcella Valvo)

Non mi sento esattamente la persona più competente del mondo per poter recensire un libro. Ma se ci spostiamo su un altro piano – quello dell’esprimere ciò che il libro mi ha dato – allora riesco a trovare uno spazio davvero per me.
E questo ci porta al senso di questa rubrica, dedicata ai libri che ci aiutano a “stare allegri”. In fondo, per ciascuno significa qualcosa di diverso, e anche per una stessa persona possono essere diverse le cose che la fanno stare allegra. Giusto?
Per questo cercherò di spaziare il più possibile, lasciandomi trascinare dall’intuizione e, perché no, dai consigli degli amici. 
Partendo dall’ultimo libro che ho letto, si è trattata proprio di un’intuizione aiutata – bisogna ammetterlo – da un titolo quantomeno evocativo: Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa. Coincidenza ha voluto che, dopo aver rimuginato sul comprare o meno questo libro per circa un mese, un’amica me lo abbia prestato. Inutile dire che, appena terminato, me ne sono procurata una copia tutta mia…

Perché questo titolo? Cos’ha di speciale questo libro? Perché dovreste correre a comprarlo anche voi?
Risponderò a tutte queste domande raccontandovi nel mentre la storia che fa da colonna portante ai capitoli: una storia di speranza e di fede, di scelte fatte con la consapevolezza di mille contro e un solo pro, di desiderio di equità e giustizia sociale. Una storia alla quale fanno da corollario altre piccole storie di giovani italiani che, come recita il sottotitolo, «non hanno avuto paura di diventare grandi».
A riportarle è Mario Calabresi, al tempo della stesura del libro ancora direttore de La Stampa (attualmente direttore di Repubblica, dal gennaio 2016), e personalmente coinvolto dal racconto, dal momento che vede protagonisti i suoi stessi zii.
Gigi Rho e Mirella Capra, entrambi medici, decidono di trasferirsi in Africa dopo il loro matrimonio. La lista di nozze, una serie di articoli e strumentazione per l’ospedale che stanno aprendo a Matany, Uganda.
Vi rimarranno cinque anni, il tempo di avviare la clinica e lasciarla nelle mani di medici e infermieri locali, tutti in gamba e desiderosi di rimboccarsi le maniche per il proprio villaggio. Primi fra tutti, i cosiddetti “vaccinatori in bicicletta”, dodici ragazzi formati da Gigi e Mirella, per andare nei centri più piccoli e periferici a distribuire i farmaci e fare sensibilizzazione. Perché non basta aprire una clinica e lasciarla lì a disposizione: è importante che si colga il valore, prima di tutto, di una cura personale, indipendente da ciò che può essere trattato in ospedale.

«Non ho mai smesso di onorare l’impegno che avevo preso con tuo padre. Io, che avevo studiato l’inglese nella speranza di andarmene, sono rimasto qui tutta la vita e ho continuato a fare quello che ci aveva insegnato: sono andato in pensione questo mese, esattamente dopo quarant’anni. Ci sono stati giorni faticosi, ma sono orgoglioso della fiducia che era stata investita su di me.»

Queste le parole di Joseph, uno di quei dodici ragazzi, a Stefano, figlio di Gigi Rho.
Nonostante il ritorno in Italia dopo cinque anni, il richiamo di quella terra lontana rimarrà sempre vivo nel cuore dei due medici, tanto che decideranno di tornarci altri due anni – proprio dopo quella lista di pro e contro richiesta dal padre di Mirella – prima di rendersi conto che per i loro tre figli era davvero troppo dura.
Lo sapevano, prima di ripartire, che poteva non durare: eppure di fronte a tutti quei “ma” ciò che ha vinto è stato un unico “sì”, dettato da ciò che hanno chiamato “uno slancio del cuore”.
In Uganda, la loro vicenda ha finto per intrecciarsi a quella di tanti altri medici e infermieri, anche italiani, che hanno dato il loro contributo al sistema sanitario del paese in un modo silenzioso ma fedele, acceso dal fuoco della passione e della volontà di mettersi al servizio degli ultimi.
E quella passione ha scavato man mano il proprio solco su quella terra, animando le fiamme dei giovani del posto che attendevano solo che si ricordasse loro che sognare è possibile: certo non facile, ma una fatica per cui vale la pena, sempre.

Questa ad esempio la storia di Peter Lochoro, che ha cinque anni quando vede nascere e svilupparsi il Saint Kizito Hospital. Destinato a fare il pastore, la sventura decide di mettersi in mezzo e cambiargli la vita, perché l’allevamento della sua famiglia viene razziato da un gruppo di guerrieri e a lui non resta che andare a studiare.
Da lì, una borsa di studio dietro l’altra, conquistate con impegno e dedizione, gli hanno permesso di frequentare un master a Londra.
Oggi Peter è direttore di tutti i progetti CUAMM (Medici con l’Africa) in Uganda. E ancora, Matthew Lukwiya, che ha lavorato con Mirella Capra e Lucille Corti per il suo tirocinio post-laurea ed è diventato il primo direttore ugandese del Lacor Hospital, Gulu.
Qui nel libro, si fa riferimento alla testimonianza della suora comboniana Dorina Tadiello, che lavorò a lungo con lui e lo accompagnò negli ultimi istanti di vita, interrotta troppo presto a causa dell’epidemia di Ebola scoppiata nei primi anni 2000 in Uganda. Sono andata a leggere quella testimonianza, e una frase in particolare di Matthew mi è rimasta in testa:

«Mi piacerebbe che la generosità, lo spirito di dedizione, non fossero solo una scelta dei primi anni di professione, ma uno stile di lavoro e di impegno che si protrae nel tempo. Le motivazioni al servizio non sono né scontate né automatiche, sono frutto di un processo di crescita che va coltivato…»

Perché è qualcosa su cui mi sono soffermata a riflettere spesso, soprattutto di recente, da quando mi sono laureata e ho iniziato a guardare più da vicino il mondo del lavoro. Matthew parla di stile di lavoro, che è qualcosa di indipendente dal lavoro in sé, o almeno in parte. Posso svolgere qualsiasi mestiere, ma ciò che mi definisce non dev’essere l’uniforme che indosso, quanto il modo in cui la indosso. Mario Calabresi racconta di un altro suo incontro in Uganda, quello con Giovanni dall’Oglio, medico romano per anni responsabile dei progetti CUAMM in Uganda, e parlando di lui e della sua ecletticità, dice: “non ci dobbiamo condannare a vivere solo nel nostro camice”.

Come tante altre storie narrate in questo libro, ciò che davvero conta è sognare, andare oltre, “immaginare oltre quello che ci hanno detto sia consentito”. Così ce l’ha fatta Elia Orecchia, che ha ereditato il mestiere paterno ed è riuscito a resuscitare l’ultima lampara di Genova.
Così Aldo Bongiovanni ha riportato in vita il mulino di famiglia nel Cuneese, ascoltando le nuove esigenze del mondo in cambiamento e reinventandosi senza lasciarsi frenare dall’ignoto.

Perché Non temete per noi mi mette allegria? Si parla di fatiche, certo.
Di sofferenza, di lotta. Di vicende difficili che non possiamo ignorare.
Ma anche di energie spese senza rimpianti, di decisioni prese col cuore, di pienezza di vita.
Di speranza. Non so voi, ma a me la speranza mette allegria, e questo libro mi ha dato una grande carica di speranza.
Il mio consiglio è questo: lasciamoci contagiare.

Carlo Carrà, l’intimità ritrovata

(di Federica Tosadori)

“Insomma la mia pittura non vuole essere né naturalista né solo mentale,
pur affermando l’esistenza dei valori di realtà e di quegli altri che ci vengono dall’immaginazione.

Se poi le mie parole a qualcuno sembrassero poco singolari,
dirò che mai mi sono proposto di fare il singolare.
Di gente singolare il mondo è pieno.”

 

Due abissi chiusi, neri, gli occhi di Carlo Carrà. C’è un video, più o meno a metà percorso, in cui l’artista viene intervistato nel suo studio, ormai anziano, quando le sue opere potevano infine essere catalogate, definite… Carrà è stato sicuramente un uomo molto scherzoso, in un secolo oscuro come il ‘900, e in un certo senso le gocce liquide dei suoi occhi ne dimostrano entrambi gli aspetti: della sua personalità, del suo tempo. Mancano pochi giorni alla fine della mostra su Carlo Carrà curata da Maria Cristina Bandera presso il Palazzo Reale di Milano, piano terra per la precisione – ché sopra c’è Picasso. Le opere esposte sono 130, molte delle quali prestate da collezionisti privati, aspetto che rende la visita ancora più preziosa. Eppure, che senso ha recensire una mostra che sta per finire, quando non c’è più tempo per correre a vederla? Nessuno, ma ho anche pensato che forse così è ancora più spontaneo quello che sto per dire: la mia non è pubblicità. È solo un racconto.

Devo specificare subito che alla mostra ci lavoro. Questo cambia tutto, o meglio caratterizza tutto, definisce il mio modo stesso di fruire dell’arte. Fruire è un’azione – oltre che una parola – meravigliosa, a cui non viene mai riconosciuta la potenza adeguata. Osservare in silenzio, cercare di capire, ascoltare. Prima di tutto si fruisce delle cose e poi si prendono delle decisioni. Io me ne sto nel mio Bookshop, tranquilla, seduta dietro allo schermo della cassa, a impilare cataloghi insieme ai miei colleghi, a cercare di capire come esporre quei libri che vendono meno – che tanto non serve a niente perché il libro più venduto resta sempre Come si seducono le donne di Filippo Tommaso Marinetti (e stiamo parlando del 1916 e di Futurismo, velocità guerra macchina, ma alle persone piace pensare che in quel libricino sia svelato l’unico segreto che non verrà mai rivelato al mondo…) – dicevo, me ne sto circondata dai libri, e da dietro la tenda nera che delimita lo spazio atemporale dell’esposizione da quello consumistico della realtà, spuntano i visitatori un po’ sconvolti, con occhi giganti, sorpresi dalla luce, e tutti, tutti veramente contenti.

«Che mostra bellissima!», «Che esposizione meravigliosa!», «Ne è valsa proprio la pena!», «Sono davvero soddisfatta!», «Ma come mai c’è così poca gente?» e via dicendo. Ecco, la mia visita alla mostra è cominciata così. Allora un giorno, dopo svariati tentativi e giri veloci in brevi archi di tempo, mi sono decisa e mi sono tenuta libera solo ed esclusivamente per visitarla: una pausa da ogni cosa. Avevo deciso di farlo da sola. Ma poi un’amica mi ha scritto: ‘Andiamo insieme oggi, anche io sono libera!’ – dal lavoro, anche il suo, nella soprastante mostra di Picasso. ‘Certo!’. Quindi ho capito. Che è sempre una questione di persone, di relazioni. Non potevo visitarla da sola, perché l’avevo già vissuta con ogni visitatore con cui avevo scambiato due parole al Bookshop. E dentro anche, in ogni sala un “ciao” al guardia-sala presente, e una condivisione di pareri perfino, gli stessi colori osservati da altri sguardi. Lavorare a Palazzo Reale è un’occasione che augurerei a molti. È una chance di incontro che si moltiplica ogni giorno: conoscere persone presenti attraverso persone passate.

Carlo Carrà è stato un pittore coraggioso, che dal Futurismo più puro è passato alla metafisica più asciutta e dolorosa per poi decidere che basta, avrebbe fatto di testa sua, e la testa sua gli diceva natura, forme geometriche all’interno dei paesaggi, contatto diretto con il suolo, con il mare, con l’umano, che a un certo punto sparisce dai suoi dipinti, ma solo perché in fondo ci è appena passato e ha lasciato un panno piegato, sotto a un pino marittimo, una barchetta vuota, un tendone da circo abbandonato. Ha lasciato una casa, è salito sulla montagna ed è già andato oltre, là dietro, dietro al quadro, oppure davanti al tavolo di un natura morta con coltello e libro. Un quadro di Carrà si potrebbe osservare delle ore intere, per assaporarne tutti i vuoti, tutte le mancanze, per considerarle parte delle cose, spazi nulli che riempiono il mondo. Fuori tutti – amici, colleghi, baristi, comunali, ex studenti, dispersi, senegal boys, venditori di rose, pompieri e perfino il nipote del pittore, visi incrociati mille volte, pezzettini di relazione – dentro ai quadri nessuno. La mostra di Carrà è stata una compensazione meravigliosa.

Poi l’umano è ricomparso, dopo l’abbandono, ritorna, compensa. A un certo punto nei quadri di Carrrà gli esseri umani diventano giganti, imponenti, delle statue di muscoli, dei veri monumenti di carne. Spesso ancora vicino all’acqua, seminudi, di schiena, solitari. Un’interiorità pura traspare da queste figure di bagnanti e nuotatori; intimità nel mare verde sullo sfondo, nel cielo quasi in tempesta. La mostra in sé è molto intima, questa sensazione mi è vorticata dentro per tutto il tempo, il contrario perfetto delle parole in libertà futuriste, dove si urlava, si sbraitava, da cui tutto è cominciato. Dalla rabbia espressa a colori del Futurismo, Carrà è tornato indietro, nella storia dell’arte, nelle emozioni. Si è ricostruito una sensibilità primitiva, ancora più profonda proprio perché filtrata da arti categoriche come il Futurismo e la Metafisica. Le forme si sono fatte semplici, simboliche e per questo misteriose: giocattoli, carrozze, sospesi su uno sfondo arancio scuro. E poi l’azzurro e il verde dei paesaggi. La mostra di Carrà è un percorso nella sua testa, nella mente di un uomo che ha trasformato la natura in uno spazio mitico, un luogo dove tutti vorremmo tornare, perché è da lì che veniamo. L’origine, il centro, un contatto cordiale con la terra.

…Forse siete ancora in tempo: manca una settimana!

Kiss and Fly

(di Federica Tosadori)

Sarah Brown
Maurice, weep not, I am not here under this pine tree.
The balmy air for spring whispers through the sweet grass,
The stars sparkle, the whippoorwill calls,
But thou grievest, while my soul lies rapturous
In the blest Nirvana of eternal light !
Go to the good heart that is my husband,
Who broods upon what he calls our guilty love : –
Tell him that my love for you, no less than my love for him,
Wrought out my destiny – that thtough the flesh
I won spirit, and through spirit, peace.
There is no marriage in heaven,
but there is love.

Spoon River Anthology – E.L.Masters

 

Siamo quasi in aeroporto. Calcutta canta di tachipirina e paracetamolo alla radio, mi giro verso Diego e gli sorrido. Sento dolore dietro agli occhi, come se mi avessero infilato una lastra di vetro sottile tra il cervello e le pupille. Una tachipirina farebbe bene anche a me in questo momento. Il sorriso che ho fatto a Diego è come una conversazione, come se lo amassi solo adesso che, finalmente, me ne vado.
Che la realtà prenda consistenza giusto nell’allontanamento, era una cosa che avevo già notato. O forse mia sorella me ne aveva parlato, qualche teoria dell’assenza e del distacco. Lei studia filosofia, se ne intende. Diego, anche lui mi sorride. Forse è felice davvero con me, forse è contento che, finalmente, me ne vado, o forse ancora, ipotesi più plausibile, sorride tanto per farlo, un riflesso incondizionato che fa rispondere sorriso a sorriso.
«Cos’ha detto il tuo fidanzatino quando ha saputo che ti accompagnava tuo fratello all’aeroporto?»
Mi chiede dal nulla, mentre Calcutta ascolta un canto di gabbiano dentro la sua mano. Ha preso a chiamare Pietro, “fidanzatino”, con aria dispregiativa, come se non fossi io quella a dover essere disprezzata. Sgualdrina, per la morale comune, ovviamente. Io certo così non mi ci sento. A Diego però piace tanto categorizzare, perfino se stesso. Ci tiene a essere l’amante.
«Mah, niente, ha detto ok. Sembrava un po’ triste, ma sai non lo capisco mai cosa pensa.»
Tralascio il fatto che per salutarci abbia voluto vedermi nuda per l’ultima volta, prima del mio viaggio lungo e lontano, «Così mi stampo in testa quest’immagine, amore mio» ha detto, poco prima che Diego mi passasse a prendere sotto casa di mio fratello, dove fingevo di aspettare il mio passaggio. A Diego dà davvero tanto fastidio quando si rende conto che io con Pietro, ho un rapporto molto sereno, anzi soddisfacente. Per me è normale, ma secondo lui, tra i due, la mia preferenza sarebbe palese. Si sbaglia. La parola “preferenza” non la uso, per via di quel pre davanti che mi ricorda troppo tutti gli altri termini che iniziano allo stesso modo: pregiudizio, precisare, previsione, pretendere…

Partenze. Pazienze. Gli aeroporti mi piacciono da morire. Diego posteggia nella zona verde, quella dei saluti veloci. Degli ultimi baci, o dei primi. Scende e tira fuori dal baule il mio bagaglio: una valigia enorme, rosa, il mio armadio portatile. Poi mi guarda, si avvicina, mi bacia. Io ho osservato tutti i suoi movimenti, come se lo vedessi da fuori, come se non fossi stata lì. Ma al bacio rispondo con gioia.
«Ti amo» dice.
«Anche io.»
«I nostri ultimi dieci minuti insieme… Vuoi che passi anche al ritorno?»
«No, ma va, figurati, viene mio fratello.»
Diego finge una faccia sospettosa, ma si immobilizza davvero, per un attimo.
«È una scusa per dirmi che verrà il tuo amante?»
Rido. Sì. Per questo fa ridere. L’amante dell’amante, per stare alle categorie di Diego, ma io non etichetto. I miei fratelli sono gli unici a saperlo. Certo, mi conoscono da sempre, mi vogliono bene. Forse sono le uniche persone al mondo che mi capiscono veramente. Quando viaggio, per andare a trovare Carlos, si ripresenta sempre il solito problema del chi ti porta e chi ti viene a prendere ecc. Con tre uomini che si propongono è sempre difficile scegliere. Fosse per me non sceglierei, li vorrei tutti. Almeno là, dall’altra parte delle montagne, da quando Sofia è partita per l’Africa, c’è solo Carlos.
«Dài tesoro vai, che sennò paghi.»
Mi dà un altro bacio, sale in auto, clacson, saluto, sorriso, bacio soffiato e via. Non ho mai paura di perderli, i miei amori. Non ho mai paura di lasciarli andare, che mi scoprano, che mi lascino. Sono tranquilla. Perché proprio quando mi allontano da loro so che i miei sentimenti sono veri, verso tutti, che nessuno può dirmi come comportarmi al meglio, impormi una scelta, farmi sentire in colpa. Non mento mai, o comunque lo faccio molto poco, e soltanto per le cose pratiche. Tengo solo nascosta la mia capacità di saper amare più persone contemporaneamente. E mi sento felice per questo, fortunata. Sono gli altri a essere limitati. Per questo mi auguro sempre che Pietro, Diego, Carlos, Sofia, Luca amino qualcun altro oltre a me. Sarebbe triste altrimenti. Sofia per esempio, lei è come me.

Sono ancora nell’area kiss and fly, con il mio bagaglio rosa e il cellulare in mano e un sorriso implicito, incondizionato, come un riflesso.
Da lontano puoi osservare tutto insieme, ogni persona, ogni avvenimento, ogni sentimento, come parte di un’unità. Allontanarsene è come morire. Niente ha più importanza e tutto diventa importante. E in fondo mi sembra che siamo già tutti abbastanza morti, tutti abbastanza dispersi e incorporei. Non credo in effetti che la morte sia molto diversa dalla vita che viviamo, secondo me è solo un’esistenza parallela, anzi di più, perché da quella parte siamo tutti insieme, senza restrizioni e paure e regole… È questo ciò che spaventa tanto i vivi della morte: essere liberi incondizionatamente.
Mi sembra di avere mia sorella, che mi parla nella testa, vorrei che fosse qui. Le mando un cuoricino su WhatsApp, tanto lo so che tempo cinque minuti me ne manda uno più grande.
Mi guardo intorno. C’è un ragazzo con la coda e gli auricolari bianchi e sottili nelle orecchie. Canticchia. Lo faccio anche io. Quest’estate mi piace Calcutta, la sua voce lamentosa che urla di un cuore che va a mille, di call center, di notti al pesto. Tutti si baciano intorno a me. Kiss and fly, che hanno tradotto in italiano con saluta e vai, ma non è la stessa cosa. Ci sono quattro uomini che si abbracciano incrociandosi, e poi pullmini che fanno scendere famiglie intere con intere valigie, ragazze con finti veli da sposa e peni fuxia stampati sulle magliette tutte uguali, e bambini con peluches in mano, che si dimenticano di avere dei genitori preoccupati di perderli, che gli aeroporti sono posti molto pericolosi e confusionari, persone che vanno in vacanza, ma sempre con l’ansia degli orari, delle borse che non arrivano. Ho visto persone piangere di fronte a quella pedana mobile vuota. Valigia perduta, e chissà quante cose con quella: ricordi che solo in quel momento si scoprono fondamentali. E gli aerei cadono, anche. E tutti partono con la speranza di non precipitare. Almeno all’andata, così si fa la vacanza e poi si può anche morire. C’è una donna che ha uno sguardo tristissimo, accanto a me, ha appena salutato il suo compagno. O chiunque quell’uomo fosse. Si sono lasciati lì, nella zona atemporale del saluta e vola. Bacia e vai. Lascia e via. Lontano. Vorrei dirle che da lontano è tutto più bello, ma non lo faccio.
Vibra il cellulare, più di una volta. Carlos che non vede l’ora di vedermi, il cuore di mia sorella e mio fratello che mi chiede se alla fine, ci sono arrivata davvero in aeroporto. Sì, e forse dovrei entrare. Luca mi chiama. «Tutto bene? Arrivata?»
No, non sono arrivata da nessuna parte, ma sono lontano. Saluto e vado. Già mentalmente su quell’aereo, in mezzo alle nuvole, vicino a un cielo che è solo bianco, vuoto, senza occhi. Che non fa preferenze.

 

Sarah Brown
Maurice, non piangere, non sono qui sotto il pino.
L’aria profumata della primavera bisbiglia nell’erba dolce,
le stelle scintillano, la civetta chiama,
ma tu ti affliggi, e la mia anima si estasia
nel nirvana beato della luce eterna!
Va dal cuore buono che è mio marito,
che medita su ciò che lui chiama la nostra colpa d’amore: –
digli che il mio amore per te, e così il mio amore per lui,
hanno foggiato il mio destino – che attraverso la carne,
raggiunsi lo spirito e attraverso lo spirito, pace.
Non ci sono matrimoni in cielo,
ma c’è l’amore.

 

Promemoria per un anno di libri

(di Isabella Gavazzi)

È vero, la lista dei buoni propositi per migliorare le nostre abitudini giornaliere, da che mondo è mondo, si fa il primo di gennaio, dopo i bagordi di capodanno, ma all’atto pratico il vero momento in cui la vita intera ricomincia è settembre. Sarà per un retaggio legato alle tempistiche scolastiche, o forse perché, dopo il mare, il sole e le giornate lunghe, l’idea di tornare uguali a prima non convince molto. La questione dei buoni propositi si può declinare anche all’ambito della lettura, per evitare di arrivare a marzo dicendo “ecco, non ho letto ciò che volevo leggere in questi mesi!”.
La vita frenetica non aiuta, ma con una buona pianificazione vedrete che riuscirete a far tutto, lettura compresa.

1. Fare una scaletta di cosa si vuole leggere

Tutti abbiamo titoli che ci girano per la testa e che da sempre vogliamo leggere… Scriveteli nel planning di lettura! L’importante è essere onesti con voi stessi e chiedervi se è realistico che possiate leggere dieci libri al mese facendo un lavoro full time e seguendo il personal trainer tutte le sere. Se la risposta è no, scegliete uno o due titoli. Per rendere il tutto più ufficiale, sull’agenda create una tabella con i titoli, quando li avrete letti e in quanto, più una zona per le annotazioni di cosa vi ha lasciato, cosi sarà più facile ricordarli a distanza di tempo.

2. Ritagliare dei momenti per leggere

C’è chi legge prima di dormire, chi in bagno, chi sui mezzi di trasporto. I momenti per prendere in mano un libro possono essere innumerevoli durante la giornata, l’importante è volerlo fare, altrimenti lo smartphone, tablet e mail avranno il sopravvento. Datevi dei tempi e dei paletti: se leggete fate solo quello, via cellulare e TV spenta, così vi godrete appieno il momento.

3. Partecipate a eventi legati alla letteratura

Non sembra ma circondarsi di persone e attività stimolanti invoglia a continuare su questa strada, quindi iscrivetevi alle newsletter di biblioteche, comuni e circoli culturali, andate a presentazione di libri o conferenze sul settore. In questo modo farete sicuramente fruttare una serata e verrete in contatto con persone nuove ma al tempo stesso accomunate dalla stessa passione.

4. Parlate di libri

Vi è piaciuto molto l’ultimo romanzo letto? Ditelo al collega, alla moglie o al vicino di casa! Condividere ciò che ci è piaciuto aiuta la memoria a ricordare e a sviluppare un pensiero critico, oltre che interessare gli altri alla cultura!

5. Comprate qualsiasi editore

Va bene la comodità delle grandi catene di librerie, ma così facendo ignorerete molti libri che sono dei gioielli nascosti. Andate alle fiere dell’editoria, perdetevi tra i tanti banchetti dai nomi nuovi e fermatevi a chiacchierare con chi li gestisce. Scoprirete che dietro ai libri di sono persone che possono consigliarvi, guidarvi e farvi conoscere testi stupendi. Il rapporto umano e di amicizia che si può creare sarà un valore aggiunto impagabile.

Quali sono le vostre tattiche per leggere durante l’anno? Avete già fatto la lista di libri da leggere? Commentate numerosi e…buona lettura!

Il coraggio della parola

(di Nadia Kasa)

Era un pomeriggio come tutti gli altri quando una bambina pakistana di 11 anni, di nome Malala, prese il pullman per tornare a casa. Tutto sembrava procedere seguendo la stessa routine quotidiana, ma una sosta inaspettata cambiò ogni cosa.

In molte culture antiche è presente una teoria del destino, secondo la quale tutto accade secondo uno schema ben preciso. La storia di Malala sembra seguire questa logica.

Quel pomeriggio degli uomini armati fermarono il bus e spararono dei colpi di arma da fuoco in testa a Malala. I talebani non ci stavano che venisse fuori la verità.

Malala aveva avuto il coraggio di parlare attraverso il suo blog, di denunciare i soprusi dei talebani pakistani, contrari ai diritti delle donne e la loro occupazione militare del distretto dello Swat.

Grazie al soccorso prestato dai medici la bambina si salvò e si trasferì in Gran Bretagna dove iniziò a far conoscere la sua storia. Il suo obiettivo era quello di richiamare l’attenzione sul tema del diritto delle bambine all’istruzione e a una pari dignità dei sessi, in particolare nel mondo islamico.

Nel 2014 Malala è diventata la più giovane laureata nella storia ad aver ricevuto il Nobel per la pace.

Questa giovane donna è diventata il simbolo del diritto all’istruzione, della parità dei sessi e del coraggio delle donne: tutto grazie alle sue parole.