Siate ribelli, praticate gentilezza

(di Marcella Valvo)

Già il titolo di questo libro è uno di quelli che parla da sé: “ribelli” e “gentilezza” in una stessa frase, ha un sapore apparente di contrasto, eppure se ci si sofferma appena un pochino si sente che forse no, non sono poi così lontani.
Quanto è ordinaria la gentilezza oggi? Quanto è scontata la cura per il prossimo?
Saverio Tommasi affronta queste tematiche scrivendo una lettera alle sue due bambine, Caterina e Margherita, perché non si sa mai cosa il domani riserverà a ciascuno di noi e soprattutto perché il tempo dedicato ai propri figli non è mai abbastanza.
E sicuramente è un messaggio che può far bene a tutti.

Ogni capitolo è dedicato a un tema differente, arricchito dagli episodi di vita quotidiana con le figlie – che sono sempre il fondamentale punto di partenza –, dall’esperienza personale dell’autore, e dal messaggio più universale che vuole lasciar trasparire. Il risultato è una lettera che parla direttamente al cuore del lettore, intercettandone il vissuto e aiutandolo a soffermarcisi qualche minuto in più, per riviverlo e – perché no – forse comprenderlo un po’ più a fondo.
La semplicità delle parole di Tommasi, che vuole farsi capire a ogni età, unita alla sua capacità di mostrarsi integralmente, senza maschere e a volte senza troppi filtri – proprio come i bambini – diventano le armi della sua battaglia. Una lotta per i sogni, il rispetto, la vita; e una lotta contro tante forme di ingiustizia: dal bullismo al razzismo, dall’omofobia al fascismo (moderno e non).

Credo che questo libro possa rientrare a tutti gli effetti in una rubrica sui “Libri per stare allegri”: non perché io mi sia sempre sentita così alla fine di un capitoletto, anzi… alcuni mi hanno lasciata pensierosa, altri malinconica, forse arrabbiata, altri sorridente e divertita, altri ancora intenerita. Ma credo che qui stia bene perché quando ci si guarda intorno con gli occhi dei bambini, il mondo ha sempre un po’ più di luce… e la luce a me mette molta gioia. Come spero anche a voi.

In questo, nel mostrare il mondo attraverso gli occhi del bambino, Tommasi riesce bene.

Così, la reazione di Caterina al servizio al telegiornale su uno sbarco o alle foto di un amico del papà sulle migrazioni forzate diventa il bellissimo pretesto per affermare che “il razzismo è un’invenzione degli adulti”:

Mentre eravamo lì, io con le mie foto e tu con i tuoi pupazzetti, ti sei voltata a guardare un’immagine sul mio computer, per due secondi o tre. Era la foto di un bambino su un autobus mentre guarda da un finestrino chiuso. Il bambino era in collo alla mamma, che aveva un velo in testa. Accanto a loro un uomo, penso il babbo. Tu, Caterina, ti concentri sul bambino e mi chiedi l’ovvio: “È un bambino?”
“Sì.”
“È un amico mio?” (sorriso).
“Proprio amico no, non lo conosci.”
“Ah, peccato”

E questo è solo un esempio di come uno sguardo spontaneo e puro sul mondo, così naturale nell’infanzia, si rivela sempre un tesoro prezioso, da proteggere a spada tratta. Perché ci aiuta a tenere in circolo l’amore, a riceverlo e donarlo, a moltiplicarlo. È lo sguardo che ci permette di vedere nel prossimo non un estraneo ma un amico. Ed è lo stesso sguardo che Tommasi riesce non solo a evocare ma anche ad adottare, in una lettera che vorrebbe (forse) insegnare qualcosa alle sue bimbe e finisce per raccontare ciò che le sue bimbe hanno insegnato a lui. Guardare il mondo così non è facile. Serve essere un po’ ribelli. Serve andare contro corrente, come la ragazza sulla copertina del volume, che naviga su un mare di ombrelli grigi con il proprio ombrello multicolore e rovesciato. Un ombrello che la pioggia non la fa scivolare via, ma la accoglie e se la fa amica.

Kitchen: Una delicatezza struggente

(di Francesca Ferrara)

Io non sono del mestiere. Non ho studiato lettere e non ho propriamente trascorso l’adolescenza a divorare i classici della letteratura. Alle medie e alle superiori ero più vicina alla definizione di otaku, il corrispondente giapponese del nerd.

Considerando la maggior fruibilità del mezzo (almeno per me) e la biblioteca sterminata di traduzioni in inglese disponibile online, devo aver sfogliato più manga che romanzi nella mia vita. Perciò Kitchen (Feltrinelli, 1991) mi ha subito incuriosito per la sua quarta di copertina:  “una rielaborazione letteraria dello stile dei fumetti giapponesi”.

In effetti, il libro d’esordio di Banana Yoshimoto può sembrare piatto e vuoto a chi non ha dimestichezza con i manga e con il genere shoujo in particolare. Una categoria rivolta ad un giovanissimo pubblico femminile e riconoscibile da alcuni ingredienti: amicizia, primi amori, ambientazione scolastica, uso raffinato di retini per chiaroscuri e per sfondi soffusi, linea di contorno sottile e uniforme, per figure senza peso.

Nonostante la componente romantica e sentimentale, Kitchen si distingue certamente per la sua forte carica drammatica: terreno comune dei personaggi, primari e secondari, è il lutto insieme alla solitudine che ne consegue. Una condizione vissuta in maniera diversa da Mikage e Satsuki, protagoniste rispettivamente di Kitchen e Plenilunio (o Kitchen 2) e di Moonlight Shadow, terzo capitolo e racconto di chiusura. Per la prima la solitudine è una condanna quasi custodita, per la seconda un’apatia da cui evadere.

Gli elementi shoujo però trionfano nell’estetica, nelle inquadrature e nella leggerezza della penna dell’autrice.

La luce è la regina dell’intero libro. Descritta in qualsiasi scena, che sia naturale o artificiale, e mai uguale. Su di essa vengono spese ben più parole che sull’ambientazione fisica, soltanto accennata, a marcare così l’atmosfera surreale e di sospensione che permea la lettura.

La luce è nutrimento agognato per chi non la possiede. Proprio così, è un attributo personale. Ci sono personaggi che irradiano luce propria, come Eriko, figura genitoriale e di supporto, e altri che possono solo vestirne il riflesso, come Mikage e Yuichi, ultimi superstiti delle rispettive famiglie. A loro non resta che muoversi nell’ombra, incontrandosi nella notte o nel tessuto onirico.

Allo studio minuzioso della luce si accompagna l’assenza di contatto. Con l’eccezione di una sola scena, i personaggi del libro non si toccano mai l’un l’altro. Così Mikage spiega il suo rapporto con Yuichi:

“Per ognuno dei due l’altro era sicuramente la persona più vicina al mondo, l’amico insostituibile. Tuttavia non ci tenevamo per mano. La nostra natura ci spinge a reggerci in piedi da soli, per quanto disperati possiamo essere.” (Pag. 63)

Quando presente, il contatto è aggressione, è morte; come nell’omicidio di Eriko o nell’incidente stradale che in Moonlight Shadow ha ucciso Hitoshi e Yumiko.

In questo racconto l’assenza della persona amata viene descritta in modo chirurgico – con quello che si offre, a mio parere, come un’infodump rispetto alla discrezione e al perfetto bilanciamento dei primi due capitoli – e il tocco fisico può esistere soltanto nei ricordi.

L’apice si raggiunge quando, in occasione del Tanabata (congiuntura astrale carissima ai lettori di shoujo), a Satsuki è concesso di rivedere l’amato, Hitoshi. I due non possono toccarsi né parlarsi, ma solo guardarsi per una manciata di secondi.

Banana Yoshimoto lascia raccontare ai suoi personaggi la desolazione e la silente disperazione del sopravvissuto che si trascina in ogni nuovo giorno. Eppure riesce a farlo importando e traducendo in parole il tratto distintivo del genere shoujo: la delicatezza.

Ci rendiamo conto che questa scelta di stile non ha intaccato la drammaticità del testo quando, in piedi sul ponte accanto a Satsuki, anche noi ci commuoviamo alla vista del suo compagno. Proiezione nella foschia sopra l’acqua del fiume, che la guarda “preoccupato, come sempre quando facevo qualcosa di irragionevole”, prima di sbiadire nell’alba e sorriderle “agitando la mano molte, molte volte” per salutarla (pagg. 128-129).

Banana Yoshimoto è una di quelle autrici che piace o non piace, senza vie di mezzo. Ma se leggendola vi ritrovate a nascondere occhi gonfi e labbro tremulo dietro la copertina, mentre tornate dal lavoro su un treno gremito, probabilmente rientrate nella prima categoria.