Kitchen: Una delicatezza struggente

(di Francesca Ferrara)

Io non sono del mestiere. Non ho studiato lettere e non ho propriamente trascorso l’adolescenza a divorare i classici della letteratura. Alle medie e alle superiori ero più vicina alla definizione di otaku, il corrispondente giapponese del nerd.

Considerando la maggior fruibilità del mezzo (almeno per me) e la biblioteca sterminata di traduzioni in inglese disponibile online, devo aver sfogliato più manga che romanzi nella mia vita. Perciò Kitchen (Feltrinelli, 1991) mi ha subito incuriosito per la sua quarta di copertina:  “una rielaborazione letteraria dello stile dei fumetti giapponesi”.

In effetti, il libro d’esordio di Banana Yoshimoto può sembrare piatto e vuoto a chi non ha dimestichezza con i manga e con il genere shoujo in particolare. Una categoria rivolta ad un giovanissimo pubblico femminile e riconoscibile da alcuni ingredienti: amicizia, primi amori, ambientazione scolastica, uso raffinato di retini per chiaroscuri e per sfondi soffusi, linea di contorno sottile e uniforme, per figure senza peso.

Nonostante la componente romantica e sentimentale, Kitchen si distingue certamente per la sua forte carica drammatica: terreno comune dei personaggi, primari e secondari, è il lutto insieme alla solitudine che ne consegue. Una condizione vissuta in maniera diversa da Mikage e Satsuki, protagoniste rispettivamente di Kitchen e Plenilunio (o Kitchen 2) e di Moonlight Shadow, terzo capitolo e racconto di chiusura. Per la prima la solitudine è una condanna quasi custodita, per la seconda un’apatia da cui evadere.

Gli elementi shoujo però trionfano nell’estetica, nelle inquadrature e nella leggerezza della penna dell’autrice.

La luce è la regina dell’intero libro. Descritta in qualsiasi scena, che sia naturale o artificiale, e mai uguale. Su di essa vengono spese ben più parole che sull’ambientazione fisica, soltanto accennata, a marcare così l’atmosfera surreale e di sospensione che permea la lettura.

La luce è nutrimento agognato per chi non la possiede. Proprio così, è un attributo personale. Ci sono personaggi che irradiano luce propria, come Eriko, figura genitoriale e di supporto, e altri che possono solo vestirne il riflesso, come Mikage e Yuichi, ultimi superstiti delle rispettive famiglie. A loro non resta che muoversi nell’ombra, incontrandosi nella notte o nel tessuto onirico.

Allo studio minuzioso della luce si accompagna l’assenza di contatto. Con l’eccezione di una sola scena, i personaggi del libro non si toccano mai l’un l’altro. Così Mikage spiega il suo rapporto con Yuichi:

“Per ognuno dei due l’altro era sicuramente la persona più vicina al mondo, l’amico insostituibile. Tuttavia non ci tenevamo per mano. La nostra natura ci spinge a reggerci in piedi da soli, per quanto disperati possiamo essere.” (Pag. 63)

Quando presente, il contatto è aggressione, è morte; come nell’omicidio di Eriko o nell’incidente stradale che in Moonlight Shadow ha ucciso Hitoshi e Yumiko.

In questo racconto l’assenza della persona amata viene descritta in modo chirurgico – con quello che si offre, a mio parere, come un’infodump rispetto alla discrezione e al perfetto bilanciamento dei primi due capitoli – e il tocco fisico può esistere soltanto nei ricordi.

L’apice si raggiunge quando, in occasione del Tanabata (congiuntura astrale carissima ai lettori di shoujo), a Satsuki è concesso di rivedere l’amato, Hitoshi. I due non possono toccarsi né parlarsi, ma solo guardarsi per una manciata di secondi.

Banana Yoshimoto lascia raccontare ai suoi personaggi la desolazione e la silente disperazione del sopravvissuto che si trascina in ogni nuovo giorno. Eppure riesce a farlo importando e traducendo in parole il tratto distintivo del genere shoujo: la delicatezza.

Ci rendiamo conto che questa scelta di stile non ha intaccato la drammaticità del testo quando, in piedi sul ponte accanto a Satsuki, anche noi ci commuoviamo alla vista del suo compagno. Proiezione nella foschia sopra l’acqua del fiume, che la guarda “preoccupato, come sempre quando facevo qualcosa di irragionevole”, prima di sbiadire nell’alba e sorriderle “agitando la mano molte, molte volte” per salutarla (pagg. 128-129).

Banana Yoshimoto è una di quelle autrici che piace o non piace, senza vie di mezzo. Ma se leggendola vi ritrovate a nascondere occhi gonfi e labbro tremulo dietro la copertina, mentre tornate dal lavoro su un treno gremito, probabilmente rientrate nella prima categoria.

Le tre del mattino

(di Francesca Ferrara)

Fare un regalo azzeccato dà sempre una grande soddisfazione. Ne dà una persino più grande, però, riappropriarci di quello stesso regalo perché, in realtà, era piaciuto anche a noi.

Le tre del mattino di Gianrico Carofiglio (Einaudi, 2017) l’avevo impacchettato in una elegante carta di Natale, scrivendo “per mamma” sul bigliettino. Poi ai primi di gennaio ho indossato la mia migliore faccia tosta e: “Senti, visto che non l’hai ancora iniziato, va bene se lo leggo per prima? E poi ti ho regalato anche quello nuovo di Isabel Allende, puoi cominciare da quello, no?”.

Di Carofiglio non avevo mai letto nulla. Mia madre ha una predilezione per i suoi titoli, me lo aveva raccomandato più volte, ma io sono testarda: cedo alle sperimentazioni solo quando sono io a deciderlo.

Ironia kharmica, a posteriori ho scoperto che quest’ultimo romanzo esula totalmente dal genere in cui Gianrico di solito si muove, ossia i gialli giudiziari. Le tre del mattino è imperniato su una struttura molto più semplice: di fatto, è un’unica lunga conversazione, di due giorni e due notti, tra un padre e un figlio.

Un dialogo intergenerazionale fra un adolescente e un genitore, entrambi maschi, con un rapporto disfunzionale. Già da questa premessa, mentre esaminavo la copertina, mi aveva conquistata: avrei dovuto leggerlo. A breve. (Perdoname, madre.)

In parte per la scrittura di Carofiglio, in parte e soprattutto per l’impostazione lineare del libro, la lettura scivola pagina dopo pagina. È una chiacchierata, in principio difficoltosa ma poi sempre più sciolta. Perché la situazione è surreale, i due sono costretti per disposizioni mediche a restare svegli per due intere giornate, in una città straniera dove non conoscono nessuno. Qualsiasi attrito possa stridere fra loro, le circostanze lo ammorbidiscono, lo ridimensionano in un lieve imbarazzo e infine lo disciolgono.

Parlano di tutto ciò di cui un ragazzo di diciotto anni e un uomo di cinquanta potrebbero parlare, con la libertà data proprio dal fatto di non avere avuto un rapporto padre-figlio per un decennio. Io, che all’anagrafe sono ormai prossima ai trenta e che sono precocemente vecchia nello spirito, ho potuto ritrovarmi nei timori e nelle incertezze del primo tanto quanto nella disillusione e nell’amarezza del secondo.

– Com’eri alla mia età?
[…]
– Mi piacevano la musica e la matematica. Sognavo di diventare un pianista jazz e un grande matematico. Su due aspirazioni, diciamo che me ne è riuscita mezza.
– Cosa vuoi dire?
– Non sono diventato un pianista jazz e sono diventato al massimo un buon matematico. Fantasticavo di passare alla storia per aver dimostrato il teorema di Fermat, non ci sono riuscito e certo nessuno si ricorderà delle mie modeste intuizioni.

Così succede che sfogli un capitolo dopo l’altro, perché non riesci a stancarti di essere spettatore partecipante di questa conversazione formativa; e al contempo ti crucci perché la fine del libro si avvicina e non sei pronto per la separazione.

– Qualche volta ho riflettuto su come deve essere suicidarsi.
– Anche a me è capitato. […] Ai tempi del liceo. Poi una sera, verso la fine dell’università, mi è successo di parlarne con alcuni amici. […] Bevemmo parecchio, passammo alle confidenze e a un certo punto io confessai di aver pensato al suicidio. Credevo che i miei amici sarebbero rimasti sconvolti. E in un certo senso accadde, ma non per il motivo che immaginavo io. Era capitato a tutti e ognuno di noi, invece, era convinto fosse un’esperienza rarissima ed esclusiva.

Verità ben circoscritte, che non sempre vengono approfondite o sviscerate. Perché i due non hanno un dialogo da troppo tempo, hanno molto da recuperare, e ciò che conta ora è placare i morsi della fame. Per saziarsi ci saranno altre occasioni, in futuro.

Lo ammetto, alcuni sviluppi sono prevedibili, ma questo non è un libro concepito per stupire. È un libro che prende i nostri dubbi, i nostri rituali, le nostre peculiarità e tutti quegli intimi dettagli che, a nostro avviso, ci rendono unici, nel bene e nel male, e li svela nella loro ordinarietà.  Facendoci scoprire analogie là dove mai avremmo sospettato.

Il magico potere di Raymond

(di Francesca Ferrara)

Una volta mi hanno detto che nelle mie recensioni si sente la voce del mio tempo, non la mia.

Se ho capito bene, una cosa è fare un’analisi su trama, personaggi, stile e chiudere col perché sia importante leggere un libro (o evitarlo come il bagno di un treno regionale a fine giornata). Un’altra è spiegare, agli altri ma soprattutto a se stessi, l’effetto che quel libro ha avuto su di noi in quanto noi, non in quanto lettori intercambiabili.

Ora, per me è già difficile scrivere una recensione cosiddetta standard, perché non sono del mestiere. Poi mi sono detta: siamo sotto Natale, proviamo a farci questo bagno di introspezione emotiva.

Come ho accennato, non sono del mestiere e io, Raymond Carver, non sapevo nemmeno chi fosse. L’ho sentito nominare per la prima volta al corso di scrittura creativa, poi in una serie tv e infine ho comprato Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (Einaudi, 2015).

A quel tempo, lo scorso inverno, stavo assaporando lo stato selvaggio del post-laurea e inviavo CV aberranti. Nell’attesa, aiutavo mio padre nel suo Studio di contabilità e spesso, la sera, tornavamo a casa in macchina tutti insieme. Lui, mia madre ed io. È stato proprio lì, sui sedili posteriori e alla luce altalenante dei lampioni, che ho iniziato a leggere le parole di Raymond.

Il formato dei racconti non mi ha mai conquistata: troppo poco spazio per coinvolgermi. Carver però ti fa subito accomodare fra le sue righe, perché parla di noi e di quello che nascondiamo, o ci aspetta in agguato, tra le maglie della quotidianità.

Veniamo messi di fronte a noi stessi nella nostra interezza. Ai sentimenti, i pericoli, le paure, i demoni che cerchiamo di ignorare o reprimere, ma che alla fine riescono ad agire.

Il primo pensiero va al finale di Di’ alle donne che usciamo, ma più in generale i racconti si incentrano su una rivelazione, un risvolto o una presa di coscienza amari. In Riuscivo a vedere ogni minimo dettaglio, Nancy si avvicina a catturare, per un istante, il senso del mondo che la circonda e del suo ruolo in esso, ma infine soccombe all’urgenza di addormentarsi per non compromettere la routine che quello stesso mondo le impone.

Anche quando sembra esserci una reazione, come in Mirino, in realtà non c’è un vero miglioramento della condizione del protagonista: quando avrà esaurito i sassi da lanciare dal tetto, rimarrà comunque un uomo abbandonato dai propri familiari. Forse l’intesa con il fotografo che ha bussato alla sua porta lo strapperà alla solitudine? Non lo sappiamo.

Esatto, non lo sappiamo. Il terreno comune, capitolo dopo capitolo, sembra essere un’insanabile tensione malinconica. Tensione verso il passato o il futuro, l’ignoto o il taciuto. È questa, insomma, a permeare silente le nostre giornate.

Perché non ballate?, il racconto di apertura, ha un affascinante potere suggestivo: un incontro casuale che porta ad una compravendita che porta ad una danza fra sconosciuti. Cosa ne resta, però? L’incapacità per la ragazza di raccontare quanto ha vissuto e provato: fatica ad esprimerlo, fatica a farsi capire da chi non era lì. Fatica a capirlo lei stessa. Alla fine, rinuncia e smette di parlarne. Una rassegnazione che sminuisce quanto accaduto fino a farlo scomparire.

Forse non ho capito un accidenti di Carver, ma questo retrogusto agro(dolce?) è quello che la sua scrittura mi ha lasciato.

Per questo adesso non sono in grado di leggere altre sue raccolte; da mesi Cattedrale mi osserva dalla mensola… Adesso che sono imbrigliata da un lavoro, un buon lavoro che però (per dirla alla Kondo e fingermi al passo con le tendenze) non mi dà gioia.

Non sarebbe più un viaggio nella polivalenza delle esperienze umane o una lezione di stile narrativo. Sarebbe come scottarsi volutamente con pensieri e retropensieri che, al momento, mi renderebbero ancora più difficile permanere nella mia posizione.

I libri di Carver per me sono una persona seduta vicina, vicinissima a me sul sedile, e che di me riesce a vedere tutto. Nel bene e nel male.

Non so se questa volta la mia voce sia riuscita a distinguersi, ma di un punto sono sicura: per essere un articolo pubblicato a meno di due settimane dal Natale, è tutt’altro che festoso…!

Dentro e oltre le Piccole donne

(di Francesca Ferrara)

Quando si scrive una fanfiction, le strade percorribili sono due. Quella conservatrice, in cui si mantiene l’integrità originale dei personaggi e si arricchiscono alcuni passaggi della trama senza comunque metterne in discussione i pilastri. E’ una strada a basso rischio; nel peggiore dei casi la reazione del pubblico sarà di indifferenza.

La seconda via è quella critica e creativa. Ciò che nella storia originale si era dato per scontato viene deposto dalla sua mensola ed esaminato nel suo prima e nel suo perché. Operazione rischiosa, perché non tutti gli ammiratori dell’opera originale potranno trovarsi d’accordo.

L’idealista (March in originale e nella seconda edizione italiana), romanzo premio Pulitzer scritto da Geraldine Brooks ed edito in Italia nel 2005 da Neri Pozza, si muove entro una precisa finestra temporale: da quando il padre delle piccole donne inizia la sua esperienza fra le truppe dell’Unione a quando viene ricoverato nell’ospedale di guerra di Washington e fa ritorno a Concord. Fin qui nulla di sovversivo.

Il suo personaggio è ricalcato su quello dell’educatore Bronson Alcott, padre di Louisa May, la cui intera famiglia è stata il cartamodello per il romanzo del 1868. Abolizionista, fra i padri del trascendentalismo, insieme a Henry David Thoureau e Ralph Waldo Emerson, e innovatore nei metodi di insegnamento scolastico, ma anche precursore del veganesimo, fondatore di una comune (Fruitlands) e contrario ad indossare i tessuti ricavati dagli animali, come seta e lana. Un dettaglio non trascurabile durante gli inverni nel Massachusetts.

Il problema risiede nell’involucro. Non posso pronunciarmi su Bronson Alcott, ma il cappellano March, io narrante, è noioso, melenso e grondante autocompiacimento. E lo dico con un certo senso di colpa, perché ho amato L’isola dei due mondi della stessa Brooks.

March manca, inevitabilmente, di tensione narrativa. E questo sebbene si alternino due piani temporali, il presente della guerra e il passato della giovinezza. Per quanto possa avvicinarsi alla morte in più occasioni, sappiamo a priori che non morirà qui e ora. Così come sappiamo già che l’infatuazione per la schiava Grace Clement non lo strapperà al suo matrimonio.

Nell’intenzione di mantenere una continuità con la scrittura di Piccole donne, inoltre, Brooks usa uno stile che pur non sacrificando la scorrevolezza moderna emula per dovizia di dettagli e aggettivazione quello ottocentesco. Una scelta sensata, ma che non aiuta una trama e un protagonista poco incalzanti.

La tensione quindi può essere soltanto interiore e la maggior parte del libro non è altro che una lenta, lenta preparazione al momento in cui le contraddizioni della guerra e i l’impotenza dei suoi ideali prenderanno a schiaffi il volto emaciato del cappellano.

Schiaffi metaforici, a differenza di quelli con cui cerca di addomesticare sua moglie, Margaret “Marmee” March, che ha l’abitudine di infervorarsi troppo in pubblico per la causa degli schiavi. Un comportamento inaccettabile da parte di una moglie e una madre, frutto della penna di Brooks, che ha voluto intaccare l’aura di santità del personaggio originale. Intento apprezzabile, esito che lascia contrariati.

Finché… March perde conoscenza e, fino al suo risveglio, proprio Marmee è la nuova voce narrante. Primo colpo di scena. Mentre raggiunge Washington, nel suo monologo interiore, l’unico spazio in cui possa parlare apertamente, smonta una dopo l’altra tutte le brillanti iniziative del marito. Non è mai stata d’accordo con il voto alla povertà per scelta e tantomeno con la sua decisione di partire come cappellano di guerra (!). Secondo colpo di scena. Marmee parla per appena quattro capitoli, ma sono bastati per farmi rivalutare questo romanzo.

Qual è il suo cuore, dunque? Ebbene, a conti fatti, tutto ciò che March dava per scontato, nel suo sistema di valori quanto nella sfera domestica, è stato ribaltato. Si è recato al fronte per portare conforto e insegnare agli schiavi liberati, ma ha causato, in modo più o meno diretto, la morte delle persone con cui ha interagito. Che cosa resta? L’accettazione dei propri limiti a scapito di qualsiasi eroica intraprendenza, ma soprattutto i legami. Con i vivi che hanno sacrificato la propria libertà per dargli la salvezza e con quelli che lo reclamano a casa. Con i morti che continuano a stargli accanto, memento del suo fallimento ma riconoscenti per avere incrociato il suo cammino.

 

Allegoria

(di Francesca Ferrara)

È tutta colpa della gita scolastica agli Uffizi, nel 1952.
Soprattutto, è colpa di Piero del Pollaiolo e del suo dannato dipinto.

A quel tempo, i miei occhi di bambina si divertivano a smontare l’architettura della realtà e a ricomporla in forme non ordinarie. Due instancabili caleidoscopi, assemblati per cogliere sfaccettature estranee a quelli arrugginiti degli adulti.
Quando intercettarono l’Allegoria della Giustizia, quegli ingranaggi subirono un sovraccarico di impulsi.

Una mano della donna brandiva la spada. Non per tagliare una persona, bensì per tagliare il suo verdetto: doveva essere equo e imparziale. L’altra accarezzava il mondo; un cucciolo da proteggere. Così fiera, così materna. E il suo sguardo… Gentile, ma attento. Silenziosa indagatrice degli animi e delle menzogne. Così eterea, così terrena.

Decine di farfalle, le ali cangianti, svolazzarono dai miei piedi fino al cerchietto di velluto blu. In un unico fremito. Si posarono sui miei caleidoscopi e divennero per loro nuovi cristalli colorati.
Decisi in quel momento: volevo essere come la signorina del dipinto.
Rincorsi i miei compagni di classe, certa che non potessero sopravvivere un altro minuto senza saperlo.
«Ehi, Cinzia! Da grande farò il giudice! Raffaella, ascolta qui!»

 

Nella sala della Primavera di Botticelli, la confidenza aveva assunto il volume di un proclama. La maestra impallidì e mi prese da parte. Non potevo diventare un giudice, mi sussurrò. Era un lavoro da maschietti.
Io non riuscivo a capire: nel quadro c’era una donna! Testarda, continuai col mio ritornello sgraziato e venni confinata sulla panchina al centro della stanza, in punizione.

Ripensandoci ora, avrei dovuto accogliere il rimprovero della maestra come una benedizione. Da quell’istante e per tutti gli anni a seguire, invece, non ho fatto altro che ripetermi. A cominciare dalla bambina seduta accanto a me, lì, davanti a Flora e compagnia. Ricordo che aveva i codini disallineati, il grembiule stropicciato e le iridi color cenere.
Non era nemmeno della mia scuola.

«Da grande farò il giudice!»
Lei esibì un sorriso con un paio di finestrelle. Mi abbracciò e ci scambiammo un bacio sulla guancia, esaltate.
Una suora si precipitò dalla sala successiva. Vide la bambina e la trascinò via per il colletto del grembiule.

Ora che di anni ne ho ventiquattro, sono abbastanza matura per pentirmi della mia avventatezza. E per incolpare Pollaiolo, appunto.

 

Siedo fuori dall’aula 14 della facoltà di Giurisprudenza, in attesa di dare il mio ultimo esame. Mentre sfoglio con dita maldestre il manuale sulle mie gambe, cerco la me stessa alunna di seconda elementare.
Non la trovo.
Sono stanca.

Quando si è piccoli si guarda alle sfide da una prospettiva che definirei “di fame presbite”: ci si focalizza impazienti sul traguardo, sminuendo i gradini da scavalcare. Crescendo, invece, ci si porta ben sotto quella scala e si rimane sovrastati dalla sua ripidezza. Si ammira la strada da percorrere in tutta la sua interminabilità e ci si chiede: “Ne vale davvero la pena?”.
Una domanda e si è d’un tratto adulti.

Io sono diventata adulta un mese fa. È vero, dal 1963 posso diventare anche io magistrato, ma la perdita dell’ingenuità ha gettato sabbia sul mio fuoco. I pregiudizi dei colleghi, l’insofferenza degli avvocati, la diffidenza dei loro clienti… Ogni giornata di lavoro sarebbe un’arena ed io l’animale esotico che intrattiene gli spalti.

Mi appoggio con la nuca al muro. Il suo fiato gelido mi attraversa.
Non ho voglia di essere sotto esame per tutta la vita.

 

«Alla fine ce l’hai fatta» intona una voce femminile.
Guardo davanti a me, ma il controluce graffia i miei occhi. Tutto il bianco di gennaio sta entrando dalla finestra.

Mentre la persona prende posto accanto a me, mi si presenta attraverso dei dettagli. Cappotto fiammante, un libro di politica internazionale, capelli neri corti. Un taglio maschile. Di quelli per cui mia madre mi segregherebbe in casa fino a quando la mia identità di genere non venisse riconfermata.
Poi occhiali con una spessa montatura viola. Dietro le lenti, due medaglie d’argento.
Ah…!

«Questo è… Tu sei…» mi fermo. È sorprendente: riconoscersi dopo vent’anni senza sapere l’una il nome dell’altra.
Schiude le labbra, ma la voce di un compagno di corso mi squilla nell’orecchio.
«Clara! Il professore sta arrivando. Sbrigati a entrare in aula!»
Mi volto verso la mia preziosa sconosciuta. Sorride.
«Ti aspetto qui.»

Prima che la cornice della porta ci separi, la guardo un’ultima volta.
Una farfalla in pieno inverno.

L’invenzione delle ali

(di Francesca Ferrara)

C’era un tempo in cui in Africa le persone volavano. Me lo raccontò mamma una notte, quando avevo dieci anni. «Monella» disse «tua nonna lo ha visto con i suoi occhi. Diceva che volavano sopra gli alberi e le nuvole. Diceva che volavano come merli. Venendo qui ci siamo persi quella magia.»
(L’invenzione delle ali, 2015, p. 9)

Appena i miei occhi hanno accarezzato l’incipit di questo romanzo, sono stata fiera di me: ottima valutazione preliminare nell’acquistarlo.

Ci sono libri che si aprono con prevedibili considerazioni esistenziali o descrizioni paesaggistiche tiepide, che potrebbero portare la firma di chiunque. Altri, invece, riescono a lasciarti interdetto: “No, aspetta. Eh?”. Proprio così: un tempo, in Africa, le persone volavano.

Sue Monk Kidd mi aveva ammaliata con La vita segreta delle api, suo romanzo d’esordio. Al di là delle incoraggianti premesse della trama – un’adolescente bianca in viaggio con la governante afroamericana, per calpestare le tracce lasciate dalla madre prima di morire, nel South Carolina degli anni ‘50 – Kidd aveva suscitato tutta la mia invidia grazie allo stile della narrazione. Le sue metafore abbattono ogni banalità, e persino gli stati d’animo più impalpabili acquisiscono concretezza. Prima ancora di empatizzare con i personaggi sul piano emotivo o mentale, è la fisicità di ciò che vivono ad avvicinarci a loro.

L’invenzione delle ali, devo ammetterlo, non si dimostra stilisticamente all’altezza del suo antenato. Le stesse esaltanti aspettative alimentate dall’incipit vengono soddisfatte solo in parte. Inizialmente ero perplessa e delusa, ma poi ho colto la sostanziale differenza fra i due testi. La vita segreta delle api è un’opera di fantasia, progettata in ogni evento e parola da Kidd stessa; L’invenzione delle ali è un romanzo storico, altamente fedele alle vicende reali dei personaggi di cui narra.

Nella fattispecie, le sorelle Sarah e Angelina Grimké, pioniere dei diritti delle donne e attiviste per l’abolizionismo nel XIX secolo. È Sarah, la maggiore delle due, a farsi voce narrante per entrambe, alternandosi capitolo dopo capitolo all’altro personaggio cardine: Hetty Monella Grimké, schiava personale di Sarah fin dall’età di undici anni, a cui la giovane Grimkè insegnerà a leggere e scrivere, violando le leggi dello Stato. La vera Monella morì ancora adolescente, ma Kidd la mantiene in vita, consapevole che il suo raccontare rappresenti il vero arricchimento all’intera trama.

Sarah e Monella sono coetanee e seguiamo la loro crescita attraverso gli anni. I sogni di Sarah, diventare avvocato prima, ministro quacchero poi, si infrangono uno dopo l’altro, inconciliabili con il suo essere donna. La parte centrale del romanzo, per quanto riguarda lei, è un permanere di riflessioni senza uscita, di desiderio di evadere che non riesce a trovare espressione. E mentre Sarah lascia Charleston, viaggia e si tormenta, le sue angosce, se pur condivisibili, finiscono per apparire futili rispetto alle difficoltà materiali a cui Monella deve sopravvivere a casa Grimké.

Come si sarà intuito, è lei la mia favorita. Lei che, dopotutto, è in gran parte frutto dell’immaginazione di Kidd. Grazie, talvolta suo malgrado, a Monella entriamo nella Casa del Lavoro (istituto di “correzione” per schiavi indisciplinati), parliamo con Denmark Vesey, che comprò la libertà vincendo alla lotteria e cospirò la rivolta degli schiavi di Charleston, e soprattutto tessiamo e cuciamo le “coperte della storia”, espressione artistica e di memoria familiare della tribù Fon.

Sarah Grimkè accelera il passo nelle ultime cinquanta pagine, ormai quarantenne. Allora, sì, la lettura si fa famelica. Gli ultimi capitoli regalano ciò che era mancato in quelli precedenti, lo stile stesso si rivitalizza, perché finalmente l’autrice può distaccarsi dalla griglia della storia e lasciar fluire la sua creatività. Finalmente Sarah e Monella sono pronte, insieme.

Avevo sempre voluto la libertà, ma non c’era mai stato un posto dove andare, né un modo per arrivarci. Questo non aveva più importanza. Ora volevo la libertà più del mio prossimo respiro. Ce ne saremmo andate, sedute sulle nostre bare se necessario. Era così che mamma aveva vissuto tutta la sua vita. Diceva sempre che ognuno deve capire quale parte dell’ago sarà, se quella legata al filo o quella che buca il tessuto.
(p. 356)

Alla fine sarà il magone, credetemi, quando girerete pagina e al posto del nome di Sarah o Monella troverete “Note dell’autrice”. Io ho resistito stoicamente… ma soltanto perché ero su un treno gremito.

Insomma, se vi aspettate il successore de La vita segreta delle api, partite con un pre-giudizio inappropriato. Compratelo, piuttosto, per l’esaustivo, avvincente, illuminante scenario storico che vi è impresso. Per fare la conoscenza di due sorelle che, malgrado i traguardi raggiunti con largo anticipo rispetto ai loro tempi, non hanno ancora ottenuto la popolarità meritata. Due sorelle che hanno spaccato il movimento abolizionista quando hanno iniziato a declamare anche l’emancipazione femminile, scoperchiando le ipocrisie di raffinati intellettuali ed idealisti (uomini, se serve precisarlo). Compratelo per sedervi a cucire accanto a Monella, per aiutarla a scavalcare il muretto di Villa Grimkè ed avventurarsi in città senza il permesso scritto dei padroni. Per rannicchiarvi con lei nell’incavo della finestra ad osservare i vaporetti che salpano dal porto.

L’effetto Caleb-Bethia

(di Francesca Ferrara)

Un nativo americano che studia per entrare ad Harvard. Nel 1660.

In poche parole, la potenza di questo romanzo. Un romanzo storico, perché Caleb Cheeshahteaumauk è esistito davvero. No, niente Google, niente Wikipedia: non cercatelo online. L’ignoranza in questo frangente è vantaggiosa. Non conoscere nulla di Caleb vi permetterà di camminare davvero accanto a lui, anzi con lui, come amano dire i nativi. Usando una preposizione che indica ben più di una mera prossimità spaziale.

Di Caleb ci sono pervenute poche, pochissime testimonianze dirette. Qual era il suo carattere? Come è mutato dalla primissima adolescenza all’età adulta? Geraldine Brooks amalgama documenti ufficiali a fantasia ed intuito personali, in dosi ben ponderate. Ecco come questo personaggio riesce a riempire ogni pagina e ad affascinare in ogni sua comparsa. Comparsa, esatto, perché Caleb non è il solo protagonista de “L’isola dei due mondi”, edito in Italia da Neri Pozza. Per mantenere le rispettose e prudenti distanze da un uomo di cui ci è giunto troppo poco, un antenato ancora oggi carissimo alla tribù dei wampanoag di Martha’s Vineyard, Brooks pone un filtro fra noi e lui. Gli occhi grigi, gli “Occhi di Tempesta”, di Bethia Mayfield, personaggio fittizio e voce narrante dalla prima all’ultima pagina. Figlia del pastore puritano realmente esistito John Mayfield, Bethia appartiene ai coloni che si sono insediati a Martha’s Vineyard nel XVII secolo. Incontra Caleb nella foresta e da quel giorno cominciano a parlare, senza riuscire più a smettere. Il figlio del sonquem (il capo tribù), nonché nipote del pawaaw (lo stregone), e la figlia del pastore evangelizzatore. Giusto per rincarare la carica intrinseca di questo libro.

I loro dialoghi non sono gli unici del romanzo, ma sono quelli che raggiungono le note più sublimi. Bethia è attratta dalla cultura dei nativi, apprende la loro lingua avidamente, ma è combattuta se spingersi oltre, se esplorare i terreni dei pagani. La mente di Caleb invece è più aperta e assorbe conoscenza da qualsiasi sorgente gli venga offerta:

“Poi [tuo padre] ci ha raccontato il mito di Prometeo che rubò il fuoco agli dei. Ha detto che il fuoco simboleggia la fiaccola della conoscenza accesa dagli antichi greci, che poi l’hanno passata a noi affinché la tenessimo viva. Anch’io rubo il fuoco, Bethia, e siccome la sapienza non conosce confini, la prenderò ovunque si trovi, alla luce del giorno nelle vostre scuole, a lume di candela sui libri e, se sarà necessario, anche fra le tenebre della foresta.” (pag. 169, ed. 2013)

Questa è l’impronta più profonda che vi lascerà questa lettura: la passione per la conoscenza. Bethia è una donna, ha dovuto accontentarsi di un’educazione basilare e non potrà mai aspirare ai banchi di Harvard. Eppure non si ferma. Origlia attraverso la porta le lezioni impartite da suo padre agli allievi della scuola dell’isola, Caleb compreso, inghiottendo l’impulso di irrompere e correggere una per una le risposte sbagliate sputate da suo fratello maggiore. Impara a memoria versi di poetesse emancipate e si insinua in profondità, fino ad infrangere la legge, pur di abbeverarsi alla voce di una donna condannata per eresia.

Anche Caleb deve scivolare dalla luce all’ombra per mantenere intatti e fertili saperi in apparenza contrastanti, a cui tuttavia non può rinunciare. A cui non intende rinunciare. Per lui la cultura dei coloni e quella dei wampanoag non devono marcare i rispettivi territori e soffiare appena l’altro osa avvicinarsi. Nello spazio sempre più claustrofobico che li separa: lì vuole inserirsi Caleb, per intrecciare i fili diversi fino a creare connessioni, significati, comunicazione. Caleb è una voce stonata, che viaggia controcorrente. Perciò è stato chiamato Cheeshahteaumauk, “Colui che è odiato”. Odiato perché volge a est quando gli altri si muovono verso ovest; perché quando tutti calpestano un sentiero noto da generazioni, lui si avventura nella foresta mai esplorata; perché cammina da solo. Fino a quando non incontra Bethia.

Attraverso le pagine si alternano latino e greco, ebraico e wampanaontoaonk. A dispetto però delle citazioni – e dell’inevitabile sensazione di inadeguatezza suscitata nel lettore – lo stile di Brooks è tutt’altro che inaccessibile o elitario. Le frasi scorrono come acqua sui ciottoli di un fiume e dicono precisamente ciò che vogliono dire. Un gradito residuo della sua lunga carriera di giornalista. Non troverete sproloqui che divorano se stessi senza arrivare a nulla. Il suo stile puntuale ed attento vi dirà tutto ciò di cui avrete bisogno – anche se i ritratti sulla vita dei wampanoag non vi sazieranno mai – e saprà al contempo travolgervi dal dolore, quando le vicende lo richiederanno.

Insomma, “L’isola dei due mondi” è per tutti coloro che tengono tre libri accanto al letto e li leggono in contemporanea. Perché non possono aspettare di finirne uno per aprire quello che già stanno bramando.

Ora, vittima felice dell’effetto Caleb-Bethia, posso affermare di essere un’orgogliosa tesserata di questo circolo.

Imparando dalla sua voce

(di Francesca Ferrara)

Non conoscevo gli eventi dell’Isolotto di Firenze. Ero altrettanto estranea all’esperienza delle comunità cristiane di base (CdB) e al processo contro alcuni dei suoi membri, tenutosi nel 1971. Anche allo sguardo di una profana, tuttavia, “Le donne e il prete” di Casimira Furlani (detta Mira) si presenta chiaramente come un documento di testimonianza storica. È scritto ad una sola voce e questo è tutt’altro che una carenza: perché la voce di Mira, unica donna al centro degli episodi, è quella rimasta a lungo taciuta. Troppo a lungo.

Qui tuttavia non intendo soffermarmi sul valore storico di questo contributo. Altri lo hanno già fatto (è di prossima pubblicazione sulla rivista “Testimonianze” un articolo di Luisa Muraro) e certamente con maggiore competenza di quanta potrei offrirne io. Come ho anticipato, ero ignara degli episodi riportati ne “Le donne e il prete” e perciò il mio approccio alla vicenda di Mira è stato soprattutto sul piano umano.

Questo libro incapsula l’esperienza di vita di una donna che ha sempre lottato per reclamare la sua identità, la sua presenza consapevole. L’impegno sociale comincia partecipando alle riunioni della comunità, iscrivendosi alla CGIL, redigendo, insieme ad altri, nuovi manuali di catechismo, per poi approdare alla gestione di una casa-famiglia. È proprio puntando la luce su queste ultime, realtà rimaste nell’ombra per decenni, che il tono del racconto cambia. La scrittura non ha più una forma prossima a quella giornalistica, di fatti riportati: leggendo delle case-famiglia ho potuto finalmente toccare l’autrice, sentirmi accompagnata all’interno dei suoi ricordi e avvicinarmi a lei da persona a persona. Per lei quell’attività significava moltissimo e proprio per questo le barriere calate ad arginare la sua intraprendenza la feriranno più nel profondo.

Come abbiamo detto, infatti, un’ascesa rapida, una conquista dopo l’altra. Non tutte le persone intorno a lei, però, sono disposte a riconoscere e rispettare la sua crescente autorevolezza. Tra queste, Don Enzo Mazzi, personaggio amatissimo e al quale era sopravvissuto un ritratto a tinte positive, fino ad ora. Fino a quando Mira non ha avvertito il bisogno di imprimere su carta l’ampia nebulosa del non-detto.

Il rapporto fra i due, iniziato come una fruttuosa collaborazione, si deteriora progressivamente. Riversando corpo e mente nella casa-famiglia, Mira vive sulla propria pelle l’impossibile conciliazione tra gli impegni domestici e quelli lavorativi. Così suggerisce al parroco e al vice-parroco di accennarvi nella successiva predicazione domenicale, dedicata alle difficoltà della classe operaia. “Volevo parlare insieme a loro della condizione della donna che deve lavorare dentro e fuori casa. Bussai e chiesi gentilmente di partecipare alla loro ricerca con un mio contributo. Don Enzo si alzò d’impeto e in modo alterato, perfino nella voce, mi appioppò due sberle sul viso pronunciando le parole seguenti: ‘Non disturbarci, tu pensa a fare la mamma che alla predicazione ci pensiamo noi’” (pag. 21).

Questa è soltanto una delle occasioni in cui Mira vede la propria intelligenza, le proprie capacità, sbattere contro il muro dell’indifferenza maschile. Le stesse qualità che in principio l’avevano resa una preziosa aiutante, adesso osano troppo, vogliono spiccare un volo che esula dal suo ruolo. “Confesso che sì, ho sofferto a lungo e molto per quei fatti, ma grazie alla consapevolezza di me nel frattempo acquisita col femminismo della differenza, ho potuto rendermi conto che tale sofferenza e fatica è stata la stessa patita da tante altre donne che in passato hanno dovuto lottare per la propria libertà” (pag. 27).

Elemento religioso e femminismo della differenza, quindi. Nel percorso di Mira essi si intrecciano, si alimentano l’un l’altro, entrambi apporti imprescindibili nella ricerca della sua identità. Così il Cristianesimo di base, di “coloro che sono dalla parte del Vangelo dei poveri e [non di] coloro che servono due padroni, Dio e il denaro” (p. 28), va incontro ad un’ulteriore revisione critica, che rispetti la dignità e l’identità delle donne. Così nascono i gruppi-donne all’interno delle CdB.

Mira Furlani ha avuto una vita tanto intensa e ricca che non può lasciare impassibili. Leggendo, ad un tratto ho realizzato la disparità fra di noi. Aveva pochi più anni di me quando è andata in Sicilia a portare soccorso per il terremoto nella Valle del Belice. Alle sue spalle, già anni di impegno negli ambienti che ho elencato sopra. Viene spontaneo fare paragoni con se stessi e domandarsi quanto abbiamo creato e concretizzato fino ad oggi. Quanto abbiamo contribuito a mettere in discussione la realtà che abbiamo ereditato? Quanto siamo intervenuti, intervenute, per migliorarla?