L’invenzione delle ali

(di Francesca Ferrara)

C’era un tempo in cui in Africa le persone volavano. Me lo raccontò mamma una notte, quando avevo dieci anni. «Monella» disse «tua nonna lo ha visto con i suoi occhi. Diceva che volavano sopra gli alberi e le nuvole. Diceva che volavano come merli. Venendo qui ci siamo persi quella magia.»
(L’invenzione delle ali, 2015, p. 9)

Appena i miei occhi hanno accarezzato l’incipit di questo romanzo, sono stata fiera di me: ottima valutazione preliminare nell’acquistarlo.

Ci sono libri che si aprono con prevedibili considerazioni esistenziali o descrizioni paesaggistiche tiepide, che potrebbero portare la firma di chiunque. Altri, invece, riescono a lasciarti interdetto: “No, aspetta. Eh?”. Proprio così: un tempo, in Africa, le persone volavano.

Sue Monk Kidd mi aveva ammaliata con La vita segreta delle api, suo romanzo d’esordio. Al di là delle incoraggianti premesse della trama – un’adolescente bianca in viaggio con la governante afroamericana, per calpestare le tracce lasciate dalla madre prima di morire, nel South Carolina degli anni ‘50 – Kidd aveva suscitato tutta la mia invidia grazie allo stile della narrazione. Le sue metafore abbattono ogni banalità, e persino gli stati d’animo più impalpabili acquisiscono concretezza. Prima ancora di empatizzare con i personaggi sul piano emotivo o mentale, è la fisicità di ciò che vivono ad avvicinarci a loro.

L’invenzione delle ali, devo ammetterlo, non si dimostra stilisticamente all’altezza del suo antenato. Le stesse esaltanti aspettative alimentate dall’incipit vengono soddisfatte solo in parte. Inizialmente ero perplessa e delusa, ma poi ho colto la sostanziale differenza fra i due testi. La vita segreta delle api è un’opera di fantasia, progettata in ogni evento e parola da Kidd stessa; L’invenzione delle ali è un romanzo storico, altamente fedele alle vicende reali dei personaggi di cui narra.

Nella fattispecie, le sorelle Sarah e Angelina Grimké, pioniere dei diritti delle donne e attiviste per l’abolizionismo nel XIX secolo. È Sarah, la maggiore delle due, a farsi voce narrante per entrambe, alternandosi capitolo dopo capitolo all’altro personaggio cardine: Hetty Monella Grimké, schiava personale di Sarah fin dall’età di undici anni, a cui la giovane Grimkè insegnerà a leggere e scrivere, violando le leggi dello Stato. La vera Monella morì ancora adolescente, ma Kidd la mantiene in vita, consapevole che il suo raccontare rappresenti il vero arricchimento all’intera trama.

Sarah e Monella sono coetanee e seguiamo la loro crescita attraverso gli anni. I sogni di Sarah, diventare avvocato prima, ministro quacchero poi, si infrangono uno dopo l’altro, inconciliabili con il suo essere donna. La parte centrale del romanzo, per quanto riguarda lei, è un permanere di riflessioni senza uscita, di desiderio di evadere che non riesce a trovare espressione. E mentre Sarah lascia Charleston, viaggia e si tormenta, le sue angosce, se pur condivisibili, finiscono per apparire futili rispetto alle difficoltà materiali a cui Monella deve sopravvivere a casa Grimké.

Come si sarà intuito, è lei la mia favorita. Lei che, dopotutto, è in gran parte frutto dell’immaginazione di Kidd. Grazie, talvolta suo malgrado, a Monella entriamo nella Casa del Lavoro (istituto di “correzione” per schiavi indisciplinati), parliamo con Denmark Vesey, che comprò la libertà vincendo alla lotteria e cospirò la rivolta degli schiavi di Charleston, e soprattutto tessiamo e cuciamo le “coperte della storia”, espressione artistica e di memoria familiare della tribù Fon.

Sarah Grimkè accelera il passo nelle ultime cinquanta pagine, ormai quarantenne. Allora, sì, la lettura si fa famelica. Gli ultimi capitoli regalano ciò che era mancato in quelli precedenti, lo stile stesso si rivitalizza, perché finalmente l’autrice può distaccarsi dalla griglia della storia e lasciar fluire la sua creatività. Finalmente Sarah e Monella sono pronte, insieme.

Avevo sempre voluto la libertà, ma non c’era mai stato un posto dove andare, né un modo per arrivarci. Questo non aveva più importanza. Ora volevo la libertà più del mio prossimo respiro. Ce ne saremmo andate, sedute sulle nostre bare se necessario. Era così che mamma aveva vissuto tutta la sua vita. Diceva sempre che ognuno deve capire quale parte dell’ago sarà, se quella legata al filo o quella che buca il tessuto.
(p. 356)

Alla fine sarà il magone, credetemi, quando girerete pagina e al posto del nome di Sarah o Monella troverete “Note dell’autrice”. Io ho resistito stoicamente… ma soltanto perché ero su un treno gremito.

Insomma, se vi aspettate il successore de La vita segreta delle api, partite con un pre-giudizio inappropriato. Compratelo, piuttosto, per l’esaustivo, avvincente, illuminante scenario storico che vi è impresso. Per fare la conoscenza di due sorelle che, malgrado i traguardi raggiunti con largo anticipo rispetto ai loro tempi, non hanno ancora ottenuto la popolarità meritata. Due sorelle che hanno spaccato il movimento abolizionista quando hanno iniziato a declamare anche l’emancipazione femminile, scoperchiando le ipocrisie di raffinati intellettuali ed idealisti (uomini, se serve precisarlo). Compratelo per sedervi a cucire accanto a Monella, per aiutarla a scavalcare il muretto di Villa Grimkè ed avventurarsi in città senza il permesso scritto dei padroni. Per rannicchiarvi con lei nell’incavo della finestra ad osservare i vaporetti che salpano dal porto.