Allegoria

(di Francesca Ferrara)

È tutta colpa della gita scolastica agli Uffizi, nel 1952.
Soprattutto, è colpa di Piero del Pollaiolo e del suo dannato dipinto.

A quel tempo, i miei occhi di bambina si divertivano a smontare l’architettura della realtà e a ricomporla in forme non ordinarie. Due instancabili caleidoscopi, assemblati per cogliere sfaccettature estranee a quelli arrugginiti degli adulti.
Quando intercettarono l’Allegoria della Giustizia, quegli ingranaggi subirono un sovraccarico di impulsi.

Una mano della donna brandiva la spada. Non per tagliare una persona, bensì per tagliare il suo verdetto: doveva essere equo e imparziale. L’altra accarezzava il mondo; un cucciolo da proteggere. Così fiera, così materna. E il suo sguardo… Gentile, ma attento. Silenziosa indagatrice degli animi e delle menzogne. Così eterea, così terrena.

Decine di farfalle, le ali cangianti, svolazzarono dai miei piedi fino al cerchietto di velluto blu. In un unico fremito. Si posarono sui miei caleidoscopi e divennero per loro nuovi cristalli colorati.
Decisi in quel momento: volevo essere come la signorina del dipinto.
Rincorsi i miei compagni di classe, certa che non potessero sopravvivere un altro minuto senza saperlo.
«Ehi, Cinzia! Da grande farò il giudice! Raffaella, ascolta qui!»

 

Nella sala della Primavera di Botticelli, la confidenza aveva assunto il volume di un proclama. La maestra impallidì e mi prese da parte. Non potevo diventare un giudice, mi sussurrò. Era un lavoro da maschietti.
Io non riuscivo a capire: nel quadro c’era una donna! Testarda, continuai col mio ritornello sgraziato e venni confinata sulla panchina al centro della stanza, in punizione.

Ripensandoci ora, avrei dovuto accogliere il rimprovero della maestra come una benedizione. Da quell’istante e per tutti gli anni a seguire, invece, non ho fatto altro che ripetermi. A cominciare dalla bambina seduta accanto a me, lì, davanti a Flora e compagnia. Ricordo che aveva i codini disallineati, il grembiule stropicciato e le iridi color cenere.
Non era nemmeno della mia scuola.

«Da grande farò il giudice!»
Lei esibì un sorriso con un paio di finestrelle. Mi abbracciò e ci scambiammo un bacio sulla guancia, esaltate.
Una suora si precipitò dalla sala successiva. Vide la bambina e la trascinò via per il colletto del grembiule.

Ora che di anni ne ho ventiquattro, sono abbastanza matura per pentirmi della mia avventatezza. E per incolpare Pollaiolo, appunto.

 

Siedo fuori dall’aula 14 della facoltà di Giurisprudenza, in attesa di dare il mio ultimo esame. Mentre sfoglio con dita maldestre il manuale sulle mie gambe, cerco la me stessa alunna di seconda elementare.
Non la trovo.
Sono stanca.

Quando si è piccoli si guarda alle sfide da una prospettiva che definirei “di fame presbite”: ci si focalizza impazienti sul traguardo, sminuendo i gradini da scavalcare. Crescendo, invece, ci si porta ben sotto quella scala e si rimane sovrastati dalla sua ripidezza. Si ammira la strada da percorrere in tutta la sua interminabilità e ci si chiede: “Ne vale davvero la pena?”.
Una domanda e si è d’un tratto adulti.

Io sono diventata adulta un mese fa. È vero, dal 1963 posso diventare anche io magistrato, ma la perdita dell’ingenuità ha gettato sabbia sul mio fuoco. I pregiudizi dei colleghi, l’insofferenza degli avvocati, la diffidenza dei loro clienti… Ogni giornata di lavoro sarebbe un’arena ed io l’animale esotico che intrattiene gli spalti.

Mi appoggio con la nuca al muro. Il suo fiato gelido mi attraversa.
Non ho voglia di essere sotto esame per tutta la vita.

 

«Alla fine ce l’hai fatta» intona una voce femminile.
Guardo davanti a me, ma il controluce graffia i miei occhi. Tutto il bianco di gennaio sta entrando dalla finestra.

Mentre la persona prende posto accanto a me, mi si presenta attraverso dei dettagli. Cappotto fiammante, un libro di politica internazionale, capelli neri corti. Un taglio maschile. Di quelli per cui mia madre mi segregherebbe in casa fino a quando la mia identità di genere non venisse riconfermata.
Poi occhiali con una spessa montatura viola. Dietro le lenti, due medaglie d’argento.
Ah…!

«Questo è… Tu sei…» mi fermo. È sorprendente: riconoscersi dopo vent’anni senza sapere l’una il nome dell’altra.
Schiude le labbra, ma la voce di un compagno di corso mi squilla nell’orecchio.
«Clara! Il professore sta arrivando. Sbrigati a entrare in aula!»
Mi volto verso la mia preziosa sconosciuta. Sorride.
«Ti aspetto qui.»

Prima che la cornice della porta ci separi, la guardo un’ultima volta.
Una farfalla in pieno inverno.

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