Il magico potere di Raymond

(di Francesca Ferrara)

Una volta mi hanno detto che nelle mie recensioni si sente la voce del mio tempo, non la mia.

Se ho capito bene, una cosa è fare un’analisi su trama, personaggi, stile e chiudere col perché sia importante leggere un libro (o evitarlo come il bagno di un treno regionale a fine giornata). Un’altra è spiegare, agli altri ma soprattutto a se stessi, l’effetto che quel libro ha avuto su di noi in quanto noi, non in quanto lettori intercambiabili.

Ora, per me è già difficile scrivere una recensione cosiddetta standard, perché non sono del mestiere. Poi mi sono detta: siamo sotto Natale, proviamo a farci questo bagno di introspezione emotiva.

Come ho accennato, non sono del mestiere e io, Raymond Carver, non sapevo nemmeno chi fosse. L’ho sentito nominare per la prima volta al corso di scrittura creativa, poi in una serie tv e infine ho comprato Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (Einaudi, 2015).

A quel tempo, lo scorso inverno, stavo assaporando lo stato selvaggio del post-laurea e inviavo CV aberranti. Nell’attesa, aiutavo mio padre nel suo Studio di contabilità e spesso, la sera, tornavamo a casa in macchina tutti insieme. Lui, mia madre ed io. È stato proprio lì, sui sedili posteriori e alla luce altalenante dei lampioni, che ho iniziato a leggere le parole di Raymond.

Il formato dei racconti non mi ha mai conquistata: troppo poco spazio per coinvolgermi. Carver però ti fa subito accomodare fra le sue righe, perché parla di noi e di quello che nascondiamo, o ci aspetta in agguato, tra le maglie della quotidianità.

Veniamo messi di fronte a noi stessi nella nostra interezza. Ai sentimenti, i pericoli, le paure, i demoni che cerchiamo di ignorare o reprimere, ma che alla fine riescono ad agire.

Il primo pensiero va al finale di Di’ alle donne che usciamo, ma più in generale i racconti si incentrano su una rivelazione, un risvolto o una presa di coscienza amari. In Riuscivo a vedere ogni minimo dettaglio, Nancy si avvicina a catturare, per un istante, il senso del mondo che la circonda e del suo ruolo in esso, ma infine soccombe all’urgenza di addormentarsi per non compromettere la routine che quello stesso mondo le impone.

Anche quando sembra esserci una reazione, come in Mirino, in realtà non c’è un vero miglioramento della condizione del protagonista: quando avrà esaurito i sassi da lanciare dal tetto, rimarrà comunque un uomo abbandonato dai propri familiari. Forse l’intesa con il fotografo che ha bussato alla sua porta lo strapperà alla solitudine? Non lo sappiamo.

Esatto, non lo sappiamo. Il terreno comune, capitolo dopo capitolo, sembra essere un’insanabile tensione malinconica. Tensione verso il passato o il futuro, l’ignoto o il taciuto. È questa, insomma, a permeare silente le nostre giornate.

Perché non ballate?, il racconto di apertura, ha un affascinante potere suggestivo: un incontro casuale che porta ad una compravendita che porta ad una danza fra sconosciuti. Cosa ne resta, però? L’incapacità per la ragazza di raccontare quanto ha vissuto e provato: fatica ad esprimerlo, fatica a farsi capire da chi non era lì. Fatica a capirlo lei stessa. Alla fine, rinuncia e smette di parlarne. Una rassegnazione che sminuisce quanto accaduto fino a farlo scomparire.

Forse non ho capito un accidenti di Carver, ma questo retrogusto agro(dolce?) è quello che la sua scrittura mi ha lasciato.

Per questo adesso non sono in grado di leggere altre sue raccolte; da mesi Cattedrale mi osserva dalla mensola… Adesso che sono imbrigliata da un lavoro, un buon lavoro che però (per dirla alla Kondo e fingermi al passo con le tendenze) non mi dà gioia.

Non sarebbe più un viaggio nella polivalenza delle esperienze umane o una lezione di stile narrativo. Sarebbe come scottarsi volutamente con pensieri e retropensieri che, al momento, mi renderebbero ancora più difficile permanere nella mia posizione.

I libri di Carver per me sono una persona seduta vicina, vicinissima a me sul sedile, e che di me riesce a vedere tutto. Nel bene e nel male.

Non so se questa volta la mia voce sia riuscita a distinguersi, ma di un punto sono sicura: per essere un articolo pubblicato a meno di due settimane dal Natale, è tutt’altro che festoso…!

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