Gli orsi e le scrittrici

(di Luciano Sartirana)

Ho letto Memorie di un’orsa polare, di Yoko Tawada.
Da una parte ci sono tre orsi bianchi, imparentati in verticale tra loro lungo decine di anni.
La prima era un’orsa che si esibiva in un circo sovietico, una vera diva della corsa, del salto e del lazzo fra bambini e funzionari di partito. Una volta che il suo corpo grosso non l’assecondava più nella sua vita di lustrini, si è messa a scrivere la sua autobiografia e ha sfondato anche lì.
La seconda è la figlia Tosca, che nasce rocambolescamente in Canada e si trasferisce nella DDR ripercorrendo le tracce della capostipite: volteggia in un circo, soprattutto come ballerina di tango. Non viene raccontata dalla sua penna (!!!), ma dall’addestratrice Barbara con la quale ha un legame pressoché simbiotico.
Il terzo è Knut, che rinuncia a velleità d’arte ma – una volta capito cosa ha da guadagnarci in termini di cibo e benessere – diventa la mascotte dello zoo di Berlino, assecondando i babbei che si assiepano per osservarlo.
Una cosa li accomuna: nessuno di loro è mai stato al Polo Nord, e neanche nei suoi paraggi. E un’altra, più profonda… la vicinanza con gli umani fa sì che ne assumano le mosse, i desideri di successo (la scrittura), i sogni, le frustrazioni, le manie. Decisamente ricambiati, perché anche gli umani che li frequentano non sono tanto diversi; e spesso il racconto, lo stile, il monologo interiore come le ansie da artisti ce li fanno confondere e porre sullo stesso piano precario: vogliamo grandi cose, per noi e per chi amiamo; ma viviamo tutti sotto l’incubo del disastro ambientale e della reciproca schiavitù quotidiana.
Una favola surreale apparentemente giocosa, comunque priva di ogni leziosità o carinerie (“se guardi un orso negli occhi non ci vedi un bel niente…”, si dice a un certo punto). Una grande riflessione filosofica sotto forma di gita tra gli anni, i circhi, i regimi e lo scrivere.
Yoko Tawada è nata a Tokyo nel 1960 e vive in Germania dal 1982, prima ad Amburgo e oggi a Berlino. Scrive sia in giapponese che in tedesco. Questo è il suo primo romanzo pubblicato in Italia.

La favola della rugiada

(di Isabella Gavazzi)

In un tempo molto lontano, tra boschi e prati, vivevano dei piccoli esserini alati amici degli animali, chiamati, con l’arrivo dell’uomo, fate.
Le fate erano in armonia con la natura: loro curavano le piante e in cambio ricevevano cibo e riparo. Erano felici le une con le altre; giocavano tutto il giorno con gli amici animali, senza stancarsi.
Con l’arrivo della sera si coricavano su delle piccole zolle di muschio e, coperte da una foglia donata dall’albero più vicino, dormivano sonni profondi, protette dalle stelle e dalla Luna.
Così facendo la Terra diventò un pianeta pacifico pieno di verde. C’erano fate in tutti i posti: dal deserto alla prateria, dal fiume ai boschi.
Tutte erano unite da un legame talmente forte che, quando una fata si spegneva come una stella con l’arrivare delle prime luci, tutte le altre accorrevano per salutarla un’ultima volta.

Con l’arrivo dell’uomo le cose cambiarono: le fate, pacifiche e sempre aperte alle nuove conoscenze, si mostrarono ai primi uomini, sicure che sarebbero diventati presto parte integrante della loro vita.
Gli uomini, inizialmente incuriositi, osservarono per alcune ore quegli strani esserini, che danzavano gioiosi per i prati. Finito l’incanto iniziale, gli uomini ricominciarono le loro attività. Estrassero dalle loro bisacce degli strani arnesi di pietra che le fate non avevano mai visto ed iniziarono a legarle su dei rami trovati lì vicino. I piccoli esserini erano sempre più incuriositi, e ipotizzavano il loro scopo.
“Secondo me lo usano per giocare.” disse una piccola fata con una campanula viola sulla testa.
“Io sono convinta che sia un bastone per fare dei salti altissimi” disse un’altra con un vestitino composto da tante verdi foglioline.
Nel frattempo l’uomo che stava costruendo lo strano strumento cominciò a camminare in direzione di un docile gruppo di cervi. Gli animali nel vederlo non batterono ciglio, abituati com’erano alla presenza delle fatine. Tutte erano in attesa, con il fiato sospeso, curiose di sapere cosa quegli strani individui volessero mai fare. L’uomo afferrò il bastone, lo puntò e lo lanciò verso il cervo più grande del gruppo, abbattendolo in pochi secondi. Le fate, scioccate e spaventate, si rifugiarono dove poterono, cercando di scappare sia dall’uomo tanto brutale che dalle zampe degli animali spaventati.
Il carnefice, assieme agli altri della sua specie, esultarono e si congratularono con il cacciatore.
Le fate, quella notte, mentre gli uomini dormivano, ricominciarono a ballare e a far festa, sapendo però che quelle abitudini non potevano continuare. Arrivata l’alba, le fatine, per paura di essere uccise dall’uomo, decisero di non ballare e giocare, ma di rimanere, ognuna, nella propria casetta. Erano talmente dispiaciute di non poter passare più così tanto tempo insieme che piansero tante lacrime da bagnare il prato, dandosi, però, appuntamento alla sera successiva.
Spuntato il sole gli uomini si svegliarono, scoprendo che tutt’intorno a loro erano presenti piccole gocce fredde che, poco a poco, sparirono con il calore.
Da quel giorno in poi le fate si ritrovano ogni notte a far festa, consapevoli di dover separarsi la mattina, lasciandoci, come segnale della loro tristezza, tante piccole lacrime, chiamate, dagli uomini, rugiada.

La favola del pungitopo

(di Isabella Gavazzi)

In un tempo lontano, nel bel mezzo di un prato di erba morbida alle pendici di un’alta montagna, viveva una bella pianta. Era un grosso cespuglio sotto cui la terra era morbida e piena di muschio. Il suo tronco era intricato e nodoso, ma allo stesso tempo affascinante ed accogliente, ricoperto da tantissime foglie gialle all’interno e verde scuro all’esterno, con il bordo morbido e levigato, casa ideale per insetti e lombrichi.
Un giorno di fine estate, quando la frutta e le bacche erano abbastanza mature da poter essere raccolte in previsione dell’autunno e dell’imminente inverno, alle radici della bella pianta si presentò una famiglia di topolini.
«Buongiorno signora pianta. Sono il Signor Topo, volevo domandarle se possiamo utilizzare le sue morbide fronde per ripararci dal freddo e dalla neve. In cambio le daremo parte del cibo per nutrirla e resistere al lungo inverno. Le può andare?»
La pianta rispose con un fruscio di consenso, alzando i rami più grandi per far passare meglio la famiglia.
Il Signore e la Signora Topo erano estasiati dalla bellezza della nuova casa e i piccoli topolini cominciarono subito a giocare, rincorrendosi su e giù per i rami. Anche la pianta era contenta: finalmente sarebbe stata in compagnia di qualcuno, dopo tanti anni passati in solitudine.

L’autunno era già cominciato e la famiglia Topo aveva sistemato la nuova abitazione: le camere erano sotto terra, vicino alle radici più profonde. I topini avevano rivestito tutto con il muschio e con le foglie della pianta. Le provviste erano state accumulate in una zona in cui i rami erano più folti, in modo da evitare che altri animali le rubassero.
La pianta iniziava a credere di aver fatto un grosso errore ad ospitare la famigliola: i piccoli piangevano tutto il giorno e strappavano i suoi rametti per giocare; il signor Topo invitava tutti i giorni i suoi amici, rischiando di far scoprire quel nascondiglio alle nemiche volpi.
«Se ci scoprono anch’io sarò in pericolo. Loro possono correre, mentre la mia sorte sarà quella di essere distrutta dall’impeto di quelle bestie! … però non posso buttarli fuori da qui, sono miei ospiti.»

Arrivò l’inverno e, a causa dell’ultima cucciolata della signora Topo costituita da sei piccoli topini, le scorte di cibo della famiglia diminuivano a vista d’occhio.
«Non credo che riusciranno a resistere, di questo passo!» si diceva la pianta.
Infatti le sue previsioni si avverarono: quando mancava circa un mese alla primavera, le provviste finirono e la famiglia Topo, non sapendo cosa mangiare, scavò in profondità nel terreno, iniziando a sgranocchiare le radici della Pianta. Quest’ultima cercò di dire loro che ciò non era possibile ma il signor Topo rispose imperterrito: «Signora mia, io ho famiglia, Lei no. Lei potrà rigenerarsi in primavera, noi no.»
La Pianta avrebbe voluto controbattere che ciò non era affatto vero. Se i suoi danni fossero stati troppi e profondi, non sarebbe arrivata a vedere il caldo sole estivo: decise però, per il bene dei suoi ospiti, che si sarebbe sacrificata per loro ma, se fosse sopravvissuta, avrebbe fatto qualcosa per evitare di trovarsi in futuro in una situazione del genere.

Quell’anno la primavera arrivò con qualche giorno d’anticipo e la famiglia Topo, per festeggiare, decise di recarsi in visita da alcuni amici, trattenendosi a casa loro per l’estate.
Partiti, la Pianta cominciò, lentamente, a riprendersi.
Le sue radici erano state, per la maggior parte, mangiate; solo una, forse la più grande, si era nutrita grazie all’acqua donata dal poco muschio rimasto.

Arrivò nuovamente la fine dell’estate e, davanti alla Pianta, si presentò di nuovo la famiglia Topo con nuovi figli al seguito. Senza chiedere il permesso, il signor Topo si avvicinò ai rami più bassi con l’intenzione di entrare nella vecchia casa ma qualcosa lo punse: durante l’estate la Pianta aveva fatto crescere, all’estremità delle proprie morbide foglie, delle grosse e dure spine, che non permettevano a nessuno di oltrepassare quella barriera.
Il signor Topo ritentò, pungendosi di nuovo e più di prima. Indignato, con la moglie e i figli, si allontanò strillando: «Quella Pianta è un PUNGITOPO!»

Da quel giorno la Pianta venne soprannominata “Pungitopo” e da allora viene chiamata in questo modo da tutti coloro che le passano vicino.