Il paradiso degli animali

(recensione di Monica Frigerio)

Il paradiso degli animali
David James Poissant
NN Editore 2015
Traduzione di Gioia Guerzoni

Una raccolta di racconti in cui su tutto sembra aleggiare l’ombra della fine. La fine di un rapporto, la fine di una vita, la fine persino del mondo. Con mano sicura Poissant mette insieme una serie di storie per molti versi spietate, ma verso le quali è difficile non provare una calda empatia.

Circostanze piuttosto bizzarre aiutano a dare il via a movimenti di perdono ritardato per troppo tempo, succede già nel primo racconto, L’uomo lucertola, nel quale un padre che si era macchiato in passato di violenza contro il figlio omosessuale riscopre la volontà e il bisogno di riavvicinarsi a quest’ultimo solo grazie a un viaggio allucinato insieme a un amico che li porterà a rimettere in libertà un alligatore in fin di vita.

Molti dei protagonisti di questi racconti sono tormentati da errori che non è più possibile riparare (vedi Io & James Dean, Nudisti, Il ragazzo che sparisce), ma rimane sempre in sottofondo la speranza che la semplice, stupefacente capacità umana di andare avanti possa almeno parzialmente lenire il dolore.

Alcune storie sono dominate dalla tristezza, ed è tanto più così perché i personaggi che vi incontriamo sono descritti con estrema tenerezza, grondanti d’amore. È il caso per esempio del racconto La fine di Aaron, in cui una giovane ragazza si prende cura del fidanzato che soffre di pericolose crisi di panico e pensa che l’Apocalisse sia vicina, oppure Come aiutare tuo marito a morire in cui una moglie ripercorre tutti i momenti passati accanto al marito malato di cancro in quella che diventa anche una riflessione generale sulla propria relazione e sul senso della vita.

Poissant riesce a ricavare un buon equilibrio tra realismo e allegoria, quasi in ogni racconto compare a un certo punto un animale – da un gatto, a una mandria di bufali o uno sciame d’api – che in qualche modo ricalcano un aspetto, una condizione di uno dei protagonisti, ma l’introduzione di questo elemento ferino non è mai troppo azzardata od ostentatamente metaforica, inserendosi invece nella narrazione con estrema naturalezza e maestria.

Con questo suo sostare dalla parte dei deboli, degli imperfetti, la raccolta di Poissant si inserisce nella tradizione americana dei racconti sui vinti che ha in Carver il suo portabandiera.

I suoi protagonisti, così come fanno gli animali, una volta sconfitti e caduti cercano di rialzarsi, alcuni ci riescono meglio di altri, alcuni decidono semplicemente di non farcela. Tutti ci sollevano importanti domande sulla natura brutale della vita e dell’amore, in cui speranza e sconforto si mescolano in egual misura.

Ritroviamo diversi elementi drammatici e teatrali in questa raccolta, elementi che aiutano a esplorare il familiare proprio spingendo la narrazione oltre il territorio del banale quotidiano. Questi espedienti melodrammatici contribuiscono ad aggiungere urgenza alle situazioni, spingendo i personaggi all’azione, mettendoli a confronto con i loro istinti più animali.

Una tensione che si declina in modi diversi storia dopo storia, senza essere mai scontata.

Poissant, alla fine di tutto, porta a termine un compito fondamentale della letteratura: non rassicura su niente, ma trova bellezza nell’umana, imperfetta, continua ricerca verso l’amore e la nostra ricerca di legami.

La favola della rugiada

(di Isabella Gavazzi)

In un tempo molto lontano, tra boschi e prati, vivevano dei piccoli esserini alati amici degli animali, chiamati, con l’arrivo dell’uomo, fate.
Le fate erano in armonia con la natura: loro curavano le piante e in cambio ricevevano cibo e riparo. Erano felici le une con le altre; giocavano tutto il giorno con gli amici animali, senza stancarsi.
Con l’arrivo della sera si coricavano su delle piccole zolle di muschio e, coperte da una foglia donata dall’albero più vicino, dormivano sonni profondi, protette dalle stelle e dalla Luna.
Così facendo la Terra diventò un pianeta pacifico pieno di verde. C’erano fate in tutti i posti: dal deserto alla prateria, dal fiume ai boschi.
Tutte erano unite da un legame talmente forte che, quando una fata si spegneva come una stella con l’arrivare delle prime luci, tutte le altre accorrevano per salutarla un’ultima volta.

Con l’arrivo dell’uomo le cose cambiarono: le fate, pacifiche e sempre aperte alle nuove conoscenze, si mostrarono ai primi uomini, sicure che sarebbero diventati presto parte integrante della loro vita.
Gli uomini, inizialmente incuriositi, osservarono per alcune ore quegli strani esserini, che danzavano gioiosi per i prati. Finito l’incanto iniziale, gli uomini ricominciarono le loro attività. Estrassero dalle loro bisacce degli strani arnesi di pietra che le fate non avevano mai visto ed iniziarono a legarle su dei rami trovati lì vicino. I piccoli esserini erano sempre più incuriositi, e ipotizzavano il loro scopo.
“Secondo me lo usano per giocare.” disse una piccola fata con una campanula viola sulla testa.
“Io sono convinta che sia un bastone per fare dei salti altissimi” disse un’altra con un vestitino composto da tante verdi foglioline.
Nel frattempo l’uomo che stava costruendo lo strano strumento cominciò a camminare in direzione di un docile gruppo di cervi. Gli animali nel vederlo non batterono ciglio, abituati com’erano alla presenza delle fatine. Tutte erano in attesa, con il fiato sospeso, curiose di sapere cosa quegli strani individui volessero mai fare. L’uomo afferrò il bastone, lo puntò e lo lanciò verso il cervo più grande del gruppo, abbattendolo in pochi secondi. Le fate, scioccate e spaventate, si rifugiarono dove poterono, cercando di scappare sia dall’uomo tanto brutale che dalle zampe degli animali spaventati.
Il carnefice, assieme agli altri della sua specie, esultarono e si congratularono con il cacciatore.
Le fate, quella notte, mentre gli uomini dormivano, ricominciarono a ballare e a far festa, sapendo però che quelle abitudini non potevano continuare. Arrivata l’alba, le fatine, per paura di essere uccise dall’uomo, decisero di non ballare e giocare, ma di rimanere, ognuna, nella propria casetta. Erano talmente dispiaciute di non poter passare più così tanto tempo insieme che piansero tante lacrime da bagnare il prato, dandosi, però, appuntamento alla sera successiva.
Spuntato il sole gli uomini si svegliarono, scoprendo che tutt’intorno a loro erano presenti piccole gocce fredde che, poco a poco, sparirono con il calore.
Da quel giorno in poi le fate si ritrovano ogni notte a far festa, consapevoli di dover separarsi la mattina, lasciandoci, come segnale della loro tristezza, tante piccole lacrime, chiamate, dagli uomini, rugiada.

Paradisi minori

(di Monica Frigerio)

Paradisi minori di Megan Mayhew Bergman, edito in Italia da NN Editore, è una raccolta di racconti che sanno di natura, di scontri, di spazi aperti, di maternità e famiglia, di sentimenti delicati. Decisamente una delle scoperte più felici di questo 2017.

“In famiglia, sono io che porto a casa i soldi e sono io la casalinga”. Tutto comincia così, con una donna che con il figlio di sette anni percorre in macchina centinaia di chilometri per andare a rivedere un pappagallo.
Il che potrebbe essere assurdo se non fosse che questo pappagallo, vecchio animale di famiglia che ora si trova in uno zoo vicino a Myrtle Beach, sa parlare con la stessa voce della madre ormai defunta. Una madre con la quale la protagonista di Housewifely Arts (tradotto Le arti della casalinga) non è mai andata d’accordo, ma che ora ha disperatamente bisogno di ritrovare al suo fianco anche se solo attraverso questo strano escamotage pennuto.
Un’overture che apre la pista ad altre undici storie molto diverse ma in fondo simili, accomunate dall’apparire di un animale che fa da controparte alla presenza umana lungo tutti i racconti e che, in qualche modo, influenza le loro vite.
Al centro quasi sempre donne in situazioni scomode, che devono scegliere tra un uomo e le loro idee, che si preoccupano di sterminare locuste in cantina piuttosto che vivere accanto al padre che soffre di demenza senile, e che fanno tutto questo camminando attraverso le loro vulnerabilità, le loro manie e fissazioni con una forza quieta e per niente invadente che lascia spiazzati e in fondo anche un po’ commossi perché in loro ritroviamo le nostre stesse debolezze e le lotte silenziose che ogni giorno combattiamo con noi stessi per far sì che la macchina vada avanti.
A fare da sfondo, quasi sottotesto, alle vicende è il Sud degli Stati Uniti, dove la stessa Bergman è nata (North Carolina) tra paesaggi selvaggi e vegetazione rigogliosa, da cui spesso le protagoniste sembrano ritrovare linfa e slancio vitale.

Per esempio in Birds of a Lesser Paradise (Uccelli di un paradiso minore), racconto che dà il titolo a tutta la raccolta, Mae, dopo essersi laureata in Biologia della conservazione, decide di ritornare nella piccola cittadina del North Carolina dove è nata perché aveva “bisogno di un posto dove poter guardare fuori dalla finestra senza vedere cose fatte dall’uomo”. Qui aiuta il padre a gestire il suo business organizzando gite di birdwatching nella palude e incontra Smith, un ragazzo di cui si infatua che vive in un quartiere abbandonato della città e lui stesso appassionato di birdwatching. Insieme i tre si inoltrano nella palude alla ricerca di un esemplare dell’apparentemente estinto picchio dal becco avorio, in un’avventura che renderà Mae “furiosamente viva”.
In The Right Company (La compagnia giusta), la narratrice lascia il marito, studioso di comportamento animale, in seguito a ripetuti tradimenti e decide di rifugiarsi in un cottage di legno lontano da tutti con la consapevolezza che si sentirà sola, ma che deve sentirsi intitolata di vivere come e dove vuole.
Sebbene non sia credente decide di attaccare alla testiera del letto un dipinto a olio della Vergine Maria con una molletta usata per chiudere i sacchetti delle patatine e ogni sera prega affinché la aiuti a rimanere casta e razionale per dimenticare gli uomini ed essere felice.
In The Two-Thousand-Dollar Sock (Il calzino da duemila dollari) una donna vorrebbe fare operare il suo cane che ancora una volta ha ingoiato un calzino senza riuscire ad espellerlo, ma lei e il marito non possono permetterselo. Per di più si ritrova ad affrontare un orso che ha scoperto le arnie piene di miele nel loro giardino e ogni giorno ritorna devastandole. Lascia che Vito, il pastore tedesco, di guardia insieme a lei durante la notte e ormai allo stremo delle forze, faccia un ultimo scatto, rapido e deciso, verso l’orso subito dopo averlo fiutato. Sa che non sarà necessario spiegare alla loro bambina come è morto il suo primo cane perché “Poppy capisce, meglio di tutti noi, l’urgenza di avere quello che si desidera […] si fida ancora del richiamo puro del desiderio” che un giorno la allontanerà da ciò che le è familiare.

La scrittura della Bergman è compatta, precisa, a tratti poetica nella sua semplicità, esattamente come i paesaggi che dipinge. La vena di humour che inserisce nei suoi racconti acuta e intelligente. Colpiscono perché sebbene siano abitati da persone che in un modo o nell’altro soffrono e hanno il cuore spezzato e la casa invasa da animali di ogni sorta, non c’è traccia di patetismo e non ci si sente a disagio per loro. Traggono forza dal loro isolamento, dal loro patto segreto siglato con le creature bizzarre che li circondano e ci attraggono perché l’idea di una libertà autentica è sempre seducente. Perché, come direbbe Thoreau, ci fanno entrare nei boschi e assaporare un po’ di quella efferatezza e spontaneità propria del regno animale.
“Riconosci l’autorità di qualcuno solo quando se l’è guadagnata” si dice alla fine del racconto che chiude la raccolta, e sembra davvero una galassia distante dal caos delle nostre città.