The shape of water

(di Federica Tosadori)

Qual è la forma dell’acqua? Cos’è la forma dell’acqua? Perché la forma dell’acqua?

Allora diciamo così: io non sono capace di scrivere recensioni. Mi riesce molto difficile parlare di libri, valutarli, commentarli, sentirmi legittimata a fare una critica o semplicemente credere di poter avere voce in capitolo (voce in libro, per essere più precisi). I miei amici dicono che non ho spirito critico. È vero, lo riconosco, me lo dico da sola. A me piace tutto. Cioè, noto sempre per primi i lati positivi di ciò che leggo, di ciò che guardo. Ci devo pensare sempre un po’, mi devo impegnare davvero a trovare gli aspetti negativi – a meno che non siano palesi del tutto – di qualcosa che non è fatto da me, s’intende.
Bè, cosa volete, voi ce l’avete il senso critico? Bravi! Se ne siete convinti fatene l’uso che preferite.
Io ci provo a scrivere una recensione adesso, ma non vi garantisco niente. E poi non si tratta nemmeno di un libro.

The shape of water è un film del 2017, ideato, scritto, prodotto da Guillermo del Toro (non da solo, ma si sa…), ah, anche la regia è fatta da lui; premiato al Festival di Venezia, ha ricevuto tredici nomination agli Oscar ecc.
Giusto saperlo, per rompere il ghiaccio. Ad alcuni importano un sacco queste cose. Non so dire se tutto questo sia meritato, però sono dati da tenere in considerazione. La trama? Bè quella non ve la posso raccontare (l’amica con cui sono andata a vedere il film mi ha consigliato di non farlo, perché a volte si leggono recensioni che non fanno che parlare di quello che succede, ma per scoprirlo basta vedere il suddetto film no?)

Quindi, che cosa potrebbe interessarvi? Il mio personale parere? In questo caso sono stata felice del mio mancato spirito critico. Non averlo in certi casi mi permette di osservare senza pormi troppe domande, senza ricamare un’idea aprioristica: mi soffermo semplicemente sulle sensazioni, assaporo il gusto dei colori, la luce che arriva dallo schermo, mi immergo nelle musiche e non giudico più di tanto. Atteggiamento sentimentalistico? Può darsi! È una favola, questa storia, surreale e romantica, acida a tratti, cattiva e scorretta, poetica. È tutto un gioco di simboli e messaggi segreti, è Guillermo del Toro in fondo. La verità è che non è un film particolarmente sorprendente (un’altra mia amica mi ha detto che aveva capito già tutto, compreso il finale, nei primi venti minuti e un’altra ancora l’ha trovato molto noioso), però quello che ho fatto è stato lasciarmi trasportare dal racconto, fluidamente, scorrendo tra le scene, gli scorci, i colori vividi e scuri, i dettagli.

Si è parlato di storia d’amore, lo è effettivamente. Ma soprattutto, secondo me, si racconta di barriere che si infrangono, della paura e dell’ansia del non saper – e poter – esprimere la propria diversità, o ciò che viene ritenuto tale dal pensiero dominante; è anche una storia di ribellione, di presa di posizione, necessaria ad abbattere i mostri bianchi con cui si ha a che fare quotidianamente, senza nemmeno rendersene conto, fino a che non arriva un mostro nero (verdino in questo caso) in cui ci si riconosce come in uno specchio, e allora si è costretti a farsi delle domande, a ribaltare lo sguardo. Tante sfumature umane creano un quadro variopinto e divertente, vanno oltre una visione scientifica o di potenza.

«A volte ho paura che io sia nato troppo presto o troppo tardi rispetto alla mia vita» dice Giles, uno dei personaggi principali, nonché narratore dell’intera vicenda.
Non credo possano rappresentare l’intera pellicola, però queste parole mi sono vorticate nella mente per un po’, insieme al personaggio meraviglioso che le esprime; Giles incarna l’inquietudine di chi si sente solo, di chi non ha molto per cui resistere, di chi ha bisogno, magari, di una creatura da proteggere, da salvare, da riportare in libertà, qualcuno a cui dedicarsi, che ricambi un affetto puro. E non sto parlando dell’anfibio.

Mi spiace di non saper dire di più, perché davvero credo che il linguaggio del nostro Del Toro sia incredibilmente interessante, ricco di profondità da sondare, e volendo si potrebbe delineare un accurato sistema di paragoni e parallelismi tra questo film e gli altri da lui diretti, dove spesso il Mondo Altro rappresenta un’alternativa di molto migliore alla nostra realtà di guerre fredde e calde, dittature, soprusi e altre carinerie di ogni sorta, pur con tutte le sue fantasticherie inspiegabili e il mistero su cui si fonda.

Paradisi minori

(di Monica Frigerio)

Paradisi minori di Megan Mayhew Bergman, edito in Italia da NN Editore, è una raccolta di racconti che sanno di natura, di scontri, di spazi aperti, di maternità e famiglia, di sentimenti delicati. Decisamente una delle scoperte più felici di questo 2017.

“In famiglia, sono io che porto a casa i soldi e sono io la casalinga”. Tutto comincia così, con una donna che con il figlio di sette anni percorre in macchina centinaia di chilometri per andare a rivedere un pappagallo.
Il che potrebbe essere assurdo se non fosse che questo pappagallo, vecchio animale di famiglia che ora si trova in uno zoo vicino a Myrtle Beach, sa parlare con la stessa voce della madre ormai defunta. Una madre con la quale la protagonista di Housewifely Arts (tradotto Le arti della casalinga) non è mai andata d’accordo, ma che ora ha disperatamente bisogno di ritrovare al suo fianco anche se solo attraverso questo strano escamotage pennuto.
Un’overture che apre la pista ad altre undici storie molto diverse ma in fondo simili, accomunate dall’apparire di un animale che fa da controparte alla presenza umana lungo tutti i racconti e che, in qualche modo, influenza le loro vite.
Al centro quasi sempre donne in situazioni scomode, che devono scegliere tra un uomo e le loro idee, che si preoccupano di sterminare locuste in cantina piuttosto che vivere accanto al padre che soffre di demenza senile, e che fanno tutto questo camminando attraverso le loro vulnerabilità, le loro manie e fissazioni con una forza quieta e per niente invadente che lascia spiazzati e in fondo anche un po’ commossi perché in loro ritroviamo le nostre stesse debolezze e le lotte silenziose che ogni giorno combattiamo con noi stessi per far sì che la macchina vada avanti.
A fare da sfondo, quasi sottotesto, alle vicende è il Sud degli Stati Uniti, dove la stessa Bergman è nata (North Carolina) tra paesaggi selvaggi e vegetazione rigogliosa, da cui spesso le protagoniste sembrano ritrovare linfa e slancio vitale.

Per esempio in Birds of a Lesser Paradise (Uccelli di un paradiso minore), racconto che dà il titolo a tutta la raccolta, Mae, dopo essersi laureata in Biologia della conservazione, decide di ritornare nella piccola cittadina del North Carolina dove è nata perché aveva “bisogno di un posto dove poter guardare fuori dalla finestra senza vedere cose fatte dall’uomo”. Qui aiuta il padre a gestire il suo business organizzando gite di birdwatching nella palude e incontra Smith, un ragazzo di cui si infatua che vive in un quartiere abbandonato della città e lui stesso appassionato di birdwatching. Insieme i tre si inoltrano nella palude alla ricerca di un esemplare dell’apparentemente estinto picchio dal becco avorio, in un’avventura che renderà Mae “furiosamente viva”.
In The Right Company (La compagnia giusta), la narratrice lascia il marito, studioso di comportamento animale, in seguito a ripetuti tradimenti e decide di rifugiarsi in un cottage di legno lontano da tutti con la consapevolezza che si sentirà sola, ma che deve sentirsi intitolata di vivere come e dove vuole.
Sebbene non sia credente decide di attaccare alla testiera del letto un dipinto a olio della Vergine Maria con una molletta usata per chiudere i sacchetti delle patatine e ogni sera prega affinché la aiuti a rimanere casta e razionale per dimenticare gli uomini ed essere felice.
In The Two-Thousand-Dollar Sock (Il calzino da duemila dollari) una donna vorrebbe fare operare il suo cane che ancora una volta ha ingoiato un calzino senza riuscire ad espellerlo, ma lei e il marito non possono permetterselo. Per di più si ritrova ad affrontare un orso che ha scoperto le arnie piene di miele nel loro giardino e ogni giorno ritorna devastandole. Lascia che Vito, il pastore tedesco, di guardia insieme a lei durante la notte e ormai allo stremo delle forze, faccia un ultimo scatto, rapido e deciso, verso l’orso subito dopo averlo fiutato. Sa che non sarà necessario spiegare alla loro bambina come è morto il suo primo cane perché “Poppy capisce, meglio di tutti noi, l’urgenza di avere quello che si desidera […] si fida ancora del richiamo puro del desiderio” che un giorno la allontanerà da ciò che le è familiare.

La scrittura della Bergman è compatta, precisa, a tratti poetica nella sua semplicità, esattamente come i paesaggi che dipinge. La vena di humour che inserisce nei suoi racconti acuta e intelligente. Colpiscono perché sebbene siano abitati da persone che in un modo o nell’altro soffrono e hanno il cuore spezzato e la casa invasa da animali di ogni sorta, non c’è traccia di patetismo e non ci si sente a disagio per loro. Traggono forza dal loro isolamento, dal loro patto segreto siglato con le creature bizzarre che li circondano e ci attraggono perché l’idea di una libertà autentica è sempre seducente. Perché, come direbbe Thoreau, ci fanno entrare nei boschi e assaporare un po’ di quella efferatezza e spontaneità propria del regno animale.
“Riconosci l’autorità di qualcuno solo quando se l’è guadagnata” si dice alla fine del racconto che chiude la raccolta, e sembra davvero una galassia distante dal caos delle nostre città.