Intervista a Marco Marsullo

(di Andrea Lionetti)

Narratore, autore di numerose pubblicazioni, Marco Marsullo, classe 1985, è una delle più giovani e talentuose voci della letteratura italiana.
Per Einaudi Stile Libero ha pubblicato, nel 2015, il romanzo I miei genitori non hanno figli, dove un giovane diciottenne prende la parola e fa a pezzi il mondo degli adulti, e i propri genitori, smascherando la fragilità di una generazione che non è mai davvero cresciuta.

I tuoi romanzi sono una miscela di comicità e tenerezza, ma anche di situazioni drammatiche, e spesso affrontano temi scomodi, come la solitudine, la realtà della provincia campana (penso ad Atletico Minaccia Football Club) o le contraddizioni degli adulti. Come si conciliano le due cose?

In ogni autore si miscelano più forze. Come in ogni essere umano. I miei libri di questi anni sono lo specchio di ciò su cui ho posato gli occhi. Alcuni mi riguardano da vicino o riguardano da vicino i luoghi che conosco meglio. Altri toccano tematiche più universali, più lontane da me. Penso che la comicità, l’ironia, vada di pari passo con la tenerezza. L’occhio sarcastico è un occhio indulgente con le cose che riguardano gli umani. Altrimenti è un mero attacco, un’inchiesta, e non qualcosa che ti strappa una risata, perché simile a te.

I miei genitori non hanno figli ha riscontrato fin da subito un meritato successo. Si vedono molte belle cose, e di bei problemi, nel libro. Posso citarne una: «penso che quello che conta è provare a rimediare agli errori di fabbricazione tra genitori e figli. Metterci impegno».
Mi sembra un pezzo di notevole autenticità. Questa volontà di adattarsi per fare in modo che non si sparisca del tutto ha un valore universale. Ad esempio, Darwin ha scritto che è la specie che si adatta meglio a sopravvivere, un po’ come cercano di fare i personaggi del romanzo. E non lasci intendere se effettivamente ne valga la pena, se abbia o meno senso questo desiderio di adattamento.
Si può dire qualcosa a riguardo o basta la constatazione che le cose alla fine vanno così?

I miei genitori non hanno figli è un romanzo un po’ atipico rispetto a tutti gli altri che ho scritto, e atipico rispetto a quelli che scriverò negli anni a venire. È in parte autobiografico, non che importi in sé, ma è un affresco dei dolori delle famiglie. Perché credo che sia proprio il nucleo familiare il posto in cui si subiscono più dolori e ferite, a volte permanenti, a volte no. Non so, infine, se si possa porre un vero rimedio, né mi interessava raccontando la storia del ragazzo protagonista del libro. Il mio compito, anzi, la mia volontà era quella di dare voce, a volte confusa, a volte decisa, a un ragazzo di diciotto anni. E a diciotto anni le soluzioni agli enigmi non le hai quasi mai.

Parlando del giovane protagonista, nonostante i suoi diciotto anni dimostra spesso e volentieri una maturità superiore a quella dei suoi genitori. Una situazione paradossale ma più diffusa di quanto si possa credere. Ci si chiede come sia possibile che adulti inadeguati a coltivare loro stessi possano prendersi cura di adolescenti, aiutarli a orientarsi nella vita.
Anche tu ti sei posto questa domanda?

È il nocciolo più duro da digerire, questo, tra quelli presenti nel romanzo. La situazione non è poi così distante dalla realtà, spesso. E spesso quegli adulti adolescenti fanno dei danni che i loro figli pagheranno nel futuro. E li faranno pagare ai loro figli, e così via. La risposta, per me, è nei ruoli. Sono importanti, sono fondamentali per la crescita di un ragazzo. Se no rischierà di mischiarli a sua volta, creando disastri e confusioni per sé e per chi verrà.

Quanto ha influito la tua esperienza biografica nella stesura del romanzo?

Tanto, mi sono rifatto, più che ai fatti, ai sentimenti provati e che, tutt’ora, provo. Alla fine i lato autobiografico è un dato del tutto trascurabile, ai fini della lettura. La mia storia familiare è simile a tantissime altre.

Marco, a trentun anni hai già sei pubblicazioni alle spalle. Non è una realtà che si riscontra facilmente nell’attuale panorama editoriale italiano. Quali sono le tue abitudini di scrittura, e quali consigli daresti a chi volesse cimentarsi con la narrativa?

Sto scrivendo tanto e pubblicando tanto, questo mi ha portato a sviluppare un controllo marziale del mio lavoro. Non sono uno che scrive tutti i giorni, non ci penso nemmeno, se riducessi la scrittura a un lavoro quotidiano perderei i privilegi divertenti del mio lavoro, il tempo libero, a libera disposizione, su tutti. Riesco a ricaricarmi una volta finito un libro e poi catapultarmi sulla nuova storia in un lasso di tempo variabile, del tutto soggettivo e inspiegabile. Scrivo per lo più di notte, ma ho imparato (per fortuna) a mettermi a lavoro anche di pomeriggio. La mattina mai, odio fare cose la mattina. I consigli sono sempre gli stessi, fino alla nausea: leggere tantissimo, imparare dai più bravi e studiarli fino alla nausea, studiare le loro strutture, i loro aggettivi, i loro dialoghi. Poi, chiaramente, farli propri, e non imitarli. Poi scrivere. E se le cose non dovessero decollare subito con belle pubblicazioni, scrivere lo stesso. Se vi rendete conto che, alla fine, la cosa non prende forma, ragazzi, cambiate strada. Ma fino a quel punto: mai mollare.

Quali autori hanno influenzato maggiormente la tua formazione letteraria?

Niccolò Ammaniti è l’autore che mi ha fatto iniziare a scrivere. Leggendo “Branchie!” ho capito che volevo fare lo scrittore, di mestiere. Poi tanti altri, Roth, Soriano, Diego De Silva, Christopher Moore, McCarthy, Pahlaniuk quando ero più piccolino, insieme ad Aldo Nove, Dave Eggers, e via dicendo. Dài, sono troppi.

Oggi in Italia le statistiche ci dicono che si legge sempre meno, ma anche la qualità della lettura ha la sua importanza. Vorrei concludere l’intervista domandandoti che cosa significa per te la parola “letteratura”.

Significa che se hai fatto letteratura, alla fine del percorso, i libri di antologia nelle scuole e nelle università, parleranno di te. L’etichetta di scrittore letterario o di narratore, alla mia età soprattutto, non fa alcuna differenza. La strada è lunga. La letteratura è fatta di uomini e donne che hanno cambiato la storia della narrativa. Hanno creato sentieri ed esempi. Poi, l’importante è leggere e godere della lettura: il resto sono chiacchiere.

Uscirne Vivi – Alice Munro

(di Federica Tosadori)

C’è sempre una mattina in particolare in cui ti accorgi che tutti gli uccelli sono volati via.
Dal racconto Corrie

Autore, o meglio Autrice: Alice Munro

Titolo in italiano: Uscirne vivi

Titolo originale: Dear life

Casa editrice: Einaudi

Anno di pubblicazione: 2012

Genere: Racconti
1. Che arrivi in Giappone
2. Amundsen
3. Lontano da Maverley
4. Ghiaia
5. Focolare
6. Orgoglio
7. Corrie
8. Treno
9. In vista del lago
10. Dolly
11. L’occhio
12. Notte
13. Voci
14. Uscirne vivi

Sì, da questo libro in qualche modo se ne esce vivi, giusto un po’ diversi, o forse un po’ più uguali a se stessi, ma come riconfermati, con tutte le accezioni positive che questo termine più nascondere.

Alice Munro è una donna, e si sente. Forse non direi così se non lo sapessi – decido di fare questa obiezione a me stessa; eppure la stratificata delicatezza dei suoi personaggi femminili non può che essere nata da una stessa femminile finezza. Ne sentivo la mancanza senza rendermene nemmeno conto, di racconti e di autrici. Si sente in generale.

Si tratta dunque di un libro di racconti, dieci per la precisione, dieci più quattro, perché le ultime pagine sono dedicate a brevi stralci romanzati, ma in parte autobiografici. Non mi dilungherò sull’ingrato trattamento che viene spesso riservato a questo genere letterario, ma mi limiterò a dire che chiunque consideri il racconto inferiore rispetto al romanzo dovrebbe provare ad accostarsi a questa narratrice formidabile, che ha vinto il premio Nobel per la letteratura giusto l’anno dopo aver pubblicato il testo di cui stiamo parlando.

Si ha l’impressione, trovandosi improvvisamente al culmine centrale di uno di questi racconti, di aver già letto un tomo intero e che ancora si possa andare avanti all’infinito, in quella storia che ci troviamo sviscerata di fronte, quando in realtà abbiamo appena letto otto pagine e ne mancano giusto dieci alla fine. Non si risparmia Alice Munro nel mettere in scena i suoi, o meglio le sue, protagoniste: tutto quello che dobbiamo sapere lo sappiamo dopo poche righe. Ci sembra in così poco spazio di avere davanti una persona completa, qualcuno che è come se avessimo già conosciuto, eppure se razionalmente proviamo ad andare indietro per vedere che cosa ci ha davvero svelato l’autrice, ci rendiamo conto che non ha fatto altro che raccontarci dei dettagli apparentemente insignificanti: un modo di guardare fuori da una finestra, il pensiero fugace di un fastidio quotidiano. Da un nulla esce fuori un mondo interiore che altrimenti non avremmo colto. E subito ci pare di non poterne fare più a meno, di quel tocco sui capelli, di un movimento furtivo, di un ricordo che abbiamo già inconsapevolmente fatto nostro.

Si spezzano di continuo le vicende, che non sono mai lineari nel loro svolgersi, che si mescolano, soppesandosi le une con le altre, in un girotondo temporale che ci fa vedere ogni volta le cose sotto una luce differente. Il passato pesa modificando incessantemente il presente, ma anche il presente ha il suo incredibile potere sul passato. Quello che è stato è cangiante, questo sembrano dirci le voci di ogni personaggio, principalmente donne.

Apparentemente semplice nello stile, la scrittura della Munro nasconde piccole spigolature acute che rendono le già agrodolci sensazioni, ancora più acide da assorbire. C’è sempre qualcosa di irrisolto nelle vite che ci racconta, che si raccontano con coraggio e si affidano alle nostre mani. I periodi sono essenziali ma densi, sgocciolanti tensione.

Dear life e Uscirne vivi: la differenza nella traduzione non è da sottovalutare.
Dear Life sembra l’inizio di una lunga lettera, un elogio alla sopravvivenza vittoriosa. Ma Uscirne vivi non è una lettera, è un pericolo scampato miracolosamente, un periodo difficile di cui ora si possono finalmente raccogliere i resti, sublimarli e sublimarsi. Oltre la nudità percepita, passando attraverso la naturalezza con cui ci vengono raccontate tristezze acute e incomunicabilità mortali, finalmente uscirne vivi.

Saltare giù dal treno doveva comportare un annullamento. Allertare il corpo, preparare le ginocchia a introdurti in un blocco d’aria diverso. Non vedevi l’ora di sperimentare il vuoto. E che cosa ti tocca, invece? Uno stormo immediato di altre cose intorno, decise a reclamare la tua attenzione come non avevano mai fatto mentre eri seduto in treno e ti limitavi a guardarle dal finestrino. Che ci fai qui? ti domandano. Dove stai andando? Hai la sensazione di essere osservato da cose di cui non conoscevi l’esistenza. Di essere tu, l’elemento di disturbo. La sensazione che la vita intorno stia formulando sul tuo conto un giudizio a partire da punti di osservazione a te ignoti.
Dal racconto Treno.

I corti. La soffitta.

(un racconto di Monica Frigerio)

Aveva compiuto trentasei anni.

Fu pugnalato da un raggio di sole che penetrava dalle persiane semichiuse e fu un grande colpo. Un altro.

Poteva vedere tutta la polvere che ristagnava sulla superficie illuminata dal bagliore improvviso.

Sentì delle portiere sbattute, dalla strada, e gli sembrò che fosse un incitamento a lasciare perdere, che lo incoraggiassero; ma poi la macchina ripartì e lui andò a pestare il piede nello stipite della porta. Era buio.

Non aveva più niente da dire, non sapeva raccontare storie come gli sarebbe piaciuto.

Erano circa vent’anni che ci provava e adesso si era stancato di correre dietro alle parole, provare a combinarle insieme, tramite un ordine logico per creare un’immagine che a qualcuno avrebbe potuto interessare. Non ne era capace.

Estrasse dalla cartelletta che stava sulla scrivania tutti i suoi marci tentativi di dire qualcosa al mondo. Continuavano a tacere. Per poco non si era messo a scrivere di una storia d’amore tormentata tra due ragazzini… poi una notte, in preda al panico, si disse: “Ma cosa sto facendo?”.

Cancellò tutto dal computer e la pagina tornò a essere vergine, di quell’aspetto familiare che lo calmava e lo rendeva nervoso.

Quel giorno era tornato dal lavoro un po’ più tardi. Sebbene gli imponessero di uscire esattamente quando il suo turno finiva, né minuto più né minuto meno, una persona l’aveva chiamato al telefono dieci minuti prima che staccasse e non lo aveva lasciato per trenta minuti. Si chiamava Aldo Piscinas. Aveva delle lagnanze, diceva che avrebbe presto contattato un legale, che avrebbe denunciato tutti. Sì, contattato un legale. Federico era abituato, non si lasciò impressionare, pensò solo “Dovevo fare l’avvocato”.

Si trascinò in macchina il pensiero di Aldo Piscinas, c’erano trentaquattro gradi e l’asfalto era una trappola per topi. Il signor Piscinas gli ricordò il mormorio dell’acqua in una calda giornata estiva.

Salì di corsa le rampe verso la sua soffitta, la vista gli si annebbiò e vide grandi macchie nere balenargli davanti agli occhi. Si chiuse la porta alle spalle, velocemente, come se fosse di fretta; si chiuse la porta alle spalle e si chiese: “Adesso che faccio?”.

Poco dopo il raggio di sole lo colpì. Federico era stanco.

Tolse le chiavi dalla serratura, le gettò dalla finestra senza guardare dove andassero a finire e decise che da lì non sarebbe più uscito.

Jerome K. Jerome, un ozioso che oziosamente spiega i dilemmi della vita

(di Isabella Gavazzi)

Jerome K. Jerome (1859-1927) è il maestro dello humor letterario inglese. Famoso per l’opera Tre uomini in barca – per non parlare del cane (1889) e Tre uomini a zonzo (1900), divertenti taccuini di viaggio in cui ai protagonisti accade di tutto, poche volte viene ricordato per una delle sue prime – e a mio parere migliore – opere: I pensieri oziosi di un ozioso.

Questo breve volumetto, che si legge tranquillamente in un pomeriggio di pioggia o in spiaggia sotto l’ombrellone, è un continuo richiamo a situazioni che tutti, nella loro vita, hanno avuto modo di incontrare; l’autore li analizza a tratti in modo serio, a tratti in chiave parodistica. Dedicato alla sua grande amica e compagna di molte ore solitarie, la sua pipa, Jerome passa da argomenti metafisici quale la vanità, la timidezza e la memoria ad altri più concreti, come il cibo, i bambini o gli animali. Questa breve descrizione non gli rende appieno giustizia, rischiando di cadere nel banale facendolo passare per un normalissimo pamphlet di ordinaria fattura, noioso nella media e originale come tanti altri. La novità che Jerome aggiunge, volontariamente o meno, è l’abilità di riuscire a rendere sempre attuale tutto ciò che scrive, sia esso serio, sia divertente, contando che il libro è stato completato nel 1886, cioè un secolo e mezzo fa.

[…] “A me piacciono i gatti. Sono tanto divertenti senza saperlo. Hanno una tal comica dignità, una tale aria da: «Come osate!», «Fatevi in là e non mi toccate!». Nei cani non c’è nulla di altezzoso invece. Sono tutti: «Salve amico, ben trovato!», con ogni Tom, Dick o Harry nel quale s’imbattono. […] Quando volete conquistarvi l’approvazione di un felino, dovete stare attento a quello che fate, e aprirvi la strada con cautela. Se non lo conoscete personalmente, vi conviene cominciare dicendogli «povero micino». Dopo di che aggiungete «mucci mucci» in tono di comprensiva simpatia. Voi non sapete cosa significhi, e tanto meno lo sa il gatto, ma l’espressione sembra indicare un conveniente atteggiamento da parte vostra, e in genere tocca i sentimenti del felino a tal punto che, se siete ben educato e vi presentate discretamente, inarcherà il dorso e vi soffregherà il naso addosso.”

Una vena umoristica che non nasce dalla vita agiata sua o di parenti: Jerome trascorse un’infanzia di povertà nel quartiere dell’East End londinese, in situazioni economiche e familiari più che precarie. Riuscì a raggiungere la tranquillità finanziaria solo da adulto grazie ai suoi volumi che, con garbo e buon gusto, criticavano proprio le abitudini di vita della classe media, la stessa a cui lui apparteneva e che acquistava con interesse e divertimento i suoi testi.

Quindi un ozioso in cui anche noi, da oziosi contemporanei, possiamo immedesimarci, oziando di tanto in tanto.

Un detto diceva “l’ozio è il padre dei vizi”, ma nel caso di Jerome, che grazie a questo peccato ha scritto un libro, possiamo affermare che l’autore sia l’eccezione che conferma la regola.

Sotto il ghiacciaio del vulcano di Snæ

(di Luciano Sartirana)

Ho appunto letto “Sotto il ghiacciaio” (ed. Iperborea), dell’autore islandese – e premio Nobel per la Letteratura nel 1955 – Halldór Kiljan Laxness. Il testo è del 1968. Penso spesso ai premi Nobel come gente seriosa, classica nella scrittura e nel sentire, gravemente attenta al bolso destino umano. Ho invece scoperto un turboscrittore dalla lingua e dall’ironia modernissime, che parla del suo remoto Paese ma che coglie il centro dell’esistere, del narrare, del pensare occidentali.

La vicenda è apparentemente semplice: negli anni ’60, un vescovo luterano incarica un giovane studente di teologia a verificare la situazione in una sperduta parrocchia sotto lo Snæfellsjökull, uno dei grandi ghiacciai d’Islanda. Pare infatti che il parroco, Jón Jónsson detto Primus, sia gravemente mancante nelle sue funzioni di pastore d’anime. In effetti, una volta giunto sul posto, l’aspirante teologo verifica che il parroco non celebra messa né altri sacramenti, la chiesa è addirittura sbarrata con delle assi, vive con una inquietante signora che non è sua moglie, preferisce aiutare i fedeli ad aggiustare chiavistelli e a ferrare cavalli piuttosto che parlare loro di religione. Pare anche abbia seppellito una donna nel ghiacciaio invece che in terra consacrata.
Ma i fedeli ne sono entusiasti.

Il giovane è ospitato in alloggi di fortuna e spesso gli abitanti lo lasciano a digiuno, oppure gli propongono vomitevoli piatti a base di vecchio squalo; è sempre più perplesso dell’anarchismo teologico e filosofico di Jón Primus; intervista altra gente. Ma, ogni volta che crede di avere finito e sta per partire, qualcuno gli riapre l’enigma di Primus, del senso della fede tra povera gente, della donna morta nel ghiacciaio e del ghiacciaio stesso.
C’è un rude camionista fiero di scrivere poesie, di essere povero e islandese, di guidare un Tir di diciotto tonnellate. Ci sono tre vaccari statunitensi e sballoni, capitati lì per fare i becchini.

C’è soprattutto Guðmundur Sigmundsson detto Godman Syngmann, antico amico di Primus, una sorta di filosofo e ciarlatano (c’è in ballo la resurrezione di un salmone…) che afferma essere lì per stabilire un contatto fra quel luogo e alcune potenze cosmiche, e che lamenta la lotta sotterranea fra varie figure retoriche nella società islandese. Fino al conturbante incontro del giovane chierico con Úa, vera moglie di Primus, un essere a mezzo fra realtà, sogno, mesmerismo.

Laxness ci guida in questa storia stralunata con un sarcasmo sottile e un senso del grottesco senza pari. Gioca con le forme del pensiero, con la sua lingua, con il soprannaturale più o meno manipolato a fini terreni, con filosofia e teologia centrifugate in un’originale teosofia, con bufale e fantascienza. Colloca nella memoria dei protagonisti l’impresa di Otto Lidenbrock, colui che è entrato nello Snæfell per arrivare al centro della Terra, come fosse accaduto davvero piuttosto che nel libro di Jules Verne.

Attualizza una delle più fosche leggende islandesi: quattro becchini devono trasportare la cassa con il cadavere di una donna attraverso il ghiacciaio per il funerale; fanno tardi e devono dormire in un rifugio, ma non hanno niente da mangiare… la donna esce dalla cassa, dal nulla impasta per loro della farina e cuoce delle pagnotte con cui gli uomini possono rifocillarsi; il giorno dopo portano bara e cadavere a destinazione. Ridicolizza una radicata superstizione di quelle parti, che vede lo Snæfellsjökull come luogo di raduno sia di anime dannate che di atterraggi e contatti extraterrestri.
Su tutto c’è il ghiacciaio: la grande natura, il bianco sornione che tutto può racchiudere e tutto può dominare.

Il risultato è un libro godibilissimo, di una cultura, un’intelligenza, una comicità, un’invenzione narrativa davvero rare. Come ho potuto ignorare questo scrittore e questo libro fino a oggi?