Ovvero l’efficacia onirica
(di Federica Tosadori)
Una curiosità profonda, come non mi accadeva da tempo, mi ha fatto avvicinare di soppiatto a questo libro. Ci siamo osservati da lontano, come due gatti che studiano i rispettivi occhi luminosi, lui dal suo scaffale da libreria di stazione, in alto, io poco più in basso, timidamente. Era una mattina di dicembre nebbiosa e io aspettavo un treno per Mantova girovagando tra i volumi poco lontano dai binari. Lo stavo cercando ma lui non c’era in nessun reparto, e non volevo chiedere aiuto perché faccio fatica a trovare una gioia migliore di quella di scovare tra mille, il libro che si sta ardentemente aspettando di trovare. Perse le speranze mi sono recata allo scaffale delle riviste, decisa e rassegnata… a quel punto è stato lui ad ammiccarmi dalla sua posizione di “libri più letti”. D’altronde La vegetariana della scrittrice coreana Han Kang è vincitore del premio Man Booker International Prize 2016, il premio letterario dedicato alla narrativa tradotta in inglese del Regno Unito, dunque potevo proprio aspettarmelo che l’avrei trovato lì, subito all’ingresso.
Ma ormai non ci pensavo più. Mi ero già innamorata della sua copertina panna Adelphi, del suo fiore bianco ferito di rosso in copertina, della delicatezza sottile del suo essere. E la forza del suo titolo La vegetariana. Niente a che vedere con le mode, le credenze, le scelte prese, criticate, seguite oggi. Quel titolo prescindeva, era qualcosa di più. Si è soliti affermare, che è necessario amare se stessi prima di poter amare l’altro, ma secondo me prima bisognerebbe amare un libro e poi apprezzare tutta la realtà circostante. Questo è uno di quei testi che silenziosamente urla tutta la bellezza dell’esistenza. Tutta la bellezza del dolore consapevole.
Sta di fatto che me lo sono portata a Mantova e l’ho tenuto fermo lì immobile, non-letto, presa da altri impegni di letture studiose, per più di un mese. Ma ci pensavo spesso e ne pregustavo il sapore che sentivo essere agrodolce. Quante storie personali girano al di fuori dei libri senza che loro lo sappiano. Pazienti aspettano che arrivi il loro turno mentre i lettori vivono. Quando infatti, dopo un Natale fugace, ho sentito che ne avevo fortemente bisogno l’ho ripreso tra le mie mani, come quella prima volta in libreria, e l’ho aperto. Una settimana, nei viaggi in treno e in metro, in tram e nella notte, e l’ho richiuso estasiata. Ogni cosa ha più senso quando si legge il libro esatto. E quando dico esatto intendo inevitabile.
Estremamente crudo e violento, dietro il velo di pacatezza oltre il quale sembra riposare, La vegetariana è un libro capace di far riaffiorare con delicatezza una pesantezza esistenziale. I personaggi escono dalle pagine lentamente, come dei fantasmi vaporosi che prendono corpo senza fare troppi capricci, danzando coraggiosamente davanti ai nostri occhi lettori. Apparentemente la trama è molto semplice: una donna, comune, decide improvvisamente, dopo aver fatto un sogno, come ripete lei, di diventare vegetariana, avendo fino al giorno prima cucinato qualsiasi tipo di carne per il marito, un uomo altrettanto comune, così come sono comuni la sorella di lei e la sua stessa famiglia. Insieme intrecciati i personaggi ruotano intorno a Yeong-hye, la vegetariana appunto, e alla sua rinuncia, lasciando che dentro di loro si dilatino i confini rigidi all’interno dei quali avevano abitato fino a quel momento.
Sogno un omicidio.
Uccido qualcuno o vengo ammazzata… le distinzioni sono confuse, i confini si erodono. La familiarità sfuma nell’estraneità, ogni certezza diventa impossibile. Solo la violenza è abbastanza vivida da rimanere. Un rumore, l’elasticità dell’istante in cui il metallo colpiva la testa della vittima… l’ombra che si accasciava e cadeva, un baluginio freddo nell’oscurità.
Adesso i sogni vengono più volte di quante non riesca a contare. Sogni sovrapposti ad altri sogni, un palinsesto dell’orrore. Atti di violenza perpetrati di notte. Una sensazione vaga che non riesco a fissare… ma che ricordo come spaventosamente definita.
Una ripugnanza intollerabile, così a lungo soffocata. Una ripugnanza che ho sempre cercato di mascherare con l’affetto. Ma adesso la maschera si sta staccando.
Quella sensazione raccapricciante, sordida, orrenda, brutale. Non resta nient’altro. Omicida o vittima, un’esperienza troppo nitida per non essere reale. Determinata, disillusa. Tiepida, come sangue appena raffreddato.
Comincia a sembrarmi tutto insolito, quasi mi fossi accostata al rovescio di qualcosa. Chiusa dentro una porta senza maniglia. Forse solo ora mi ritrovo faccia a faccia con qualcosa che è sempre stato qui. È buio. Tutto si spegne nell’oscurità più nera.
La voce della protagonista è relegata a dei singoli brevi frammenti, che svaniscono dopo la fine della prima parte della storia, che è divisa in tre punti di vista. Sappiamo e vediamo di lei solo quello che sanno e vedono gli altri personaggi, di cui invece indaghiamo l’intimità, in un climax profondo e inaspettato. Ogni pagina è una sorpresa in questo testo così semplice e fluido alla lettura, come se toccasse solo obliquamente sofferenze individuali insanabili. La sensazione è quella di una passeggiata tra la folla in cui ci si ritrova continuamente a rimbalzare da uno sguardo all’altro, chiedendosi: ma cosa c’è che non va in questi occhi? E in questi altri?
Senza avere risposte si prosegue a camminare, e a leggere. Seul è diventata Milano, Milano diventa una città qualunque. Il coreano diventa italiano, l’italiano diventa una lingua qualsiasi, immagini di fiori violentemente colorati spuntano dalle parole del libro. Dal luogo più lontano dell’universo al minimo pensiero umano, tutto viene racchiuso nella pace aspra di queste pagine. Ogni battaglia personale, anche quella più insensata, ha la stessa dignità naturale di una foglia che si aggrappa al suo ramo durante una tempesta. Quindi anche una rinuncia, un allontanamento, un rifiuto deciso di ogni tipo di violenza rappresentano una guerra senza armi che è inevitabile in questo caso e in chissà quanti altri. La decisione della protagonista è un grido di vita, anche se si presenta come un’autodistruzione, dato che subito dopo la carne la protagonista si troverà a eliminare altro cibo, sempre di più, compiendo un percorso che la avvicina al suo nucleo vegetale. La resistenza che ci imponiamo ogni giorno, perché in fondo il libro parla di noi, è qualcosa che può essere trasformato in positivo. Come una fotosintesi clorofilliana, che risucchia tutto generando nuova energia.
E pensare che è stata tutta colpa di un incubo.