Perché il Nobel a Bob Dylan?

(di Monica Frigerio)

Il Nobel per la letteratura 2016 è finito tra le mani di Bob Dylan.

La motivazione ufficiale al momento dell’assegnazione del Premio è stata la seguente: “Per avere dato vita a una nuova poetica espressiva all’interno della tradizione della canzone americana”.

Quale è stata questa poetica?

Nelle note di copertina del suo quinto album, Bringing it all back home, Bob Dylan scrive: «Mi chiamano autore di canzoni. / Una poesia è una persona nuda. /C’è chi dice / che io sia un poeta».

In realtà ricevere o meno questo appellativo non gli è mai importato molto, è nota la sua maleducata fragilità spesso sfociata in aperto snobismo, tanto quanto la sua arte camaleontica di trasformarsi e di aggiungere negli anni sempre nuove sfumature alla sua scrittura, una caratteristica propria di quelle persone che rinchiuse dentro un’etichetta non stanno troppo bene. Lo testimonia bene il celebre verso: «Senza casa, senza meta / come una pietra scalciata».

Possiamo definirlo e non definirlo poeta, ma certo è che il linguaggio di Bob Dylan ha aperto al mondo del rock una dimensione conoscitiva che non gli era mai appartenuta.

Dylan il trovadore, colui che nella sua veste di menestrello del folk, in un clima di generale decadenza della poesia, ha saputo riavvicinarla alle persone, riportarla alla sua forma primigenia che era quella cantata.

La sua opera, soprattutto nei primi tempi, a partire dall’omonimo album d’esordio del ’62, è fortemente radicata al momento storico da lui vissuto, ossia l’America delle proteste giovanili che infuriavano dopo un decennio di congelamento e aperta censura nei confronti di tutte le arti che osavano più del dovuto superando i confini della comune decenza e dei gusti delle persone “perbene”.

Dylan è stato un interprete efficace dei fermenti culturali che hanno caratterizzato i Sessanta e li ha riprodotti nei suoi brani arricchendoli di numerose citazioni letterarie di autori a lui affini.

In primis i legami con la Beat Generation. Dylan si trasferisce nel ’61 nel Greenwich Village a New York e qui inizia una serie di fortunati incontri con diversi autori, tra i più importanti Allen Ginsberg.

Fino a quel momento la poesia beat si era modellata sui ritmi sincopati del jazz di Monk o Gillespie, con l’emergere del folk questo stile riesce a trovare nuovi sbocchi inserendo la parola cantata a una musica che era solo strumentale e ritmica, e quindi trovando il naturale collegamento con la letteratura.

Fernanda Pivano e Ginsberg si ritrovano insieme a un concerto di Bob Dylan e questo è il ricordo di lei: «I ragazzi ripetevano i versi e Ginsberg mi diceva che quella era la nuova generazione, quello era il nuovo poeta; e mi chiedeva se mi rendevo conto di quale mezzo formidabile di diffusione disponesse adesso “il messaggio” grazie a Dylan. Ora, mi diceva, attraverso quei dischi non censurabili, attraverso i jukeboxes e la radio, milioni di persone avrebbero ascoltato la protesta che l’establishment aveva soffocato fino allora col pretesto della moralità e della censura».

La poetica beat era alla ricerca di mezzi espressivi primordiali, di valori morali sinceri, liberi dall’automazione imposta dai tempi.

Dylan grazie alla sua arte li declina attraverso una nuova forma espressiva, la musica, che riesce a trovare un’eco incredibile.

Tante sono le affinità anche con Jack Kerouac, non solo per la figura dell’hobo incarnata dall’artista stesso, personaggio solitario e senza meta (di nuovo like a rolling stone), ma anche per il metodo compositivo: Kerouac voleva tornare a un modo di scrivere che fosse flusso spontaneo, poco controllato, scrisse del resto Sulla strada per tre settimane, ininterrottamente e sotto l’effetto di anfetamine; Dylan allo stesso modo componeva per lo più seguendo il suo impulso creativo, spesso stava seduto per ore sullo stesso tavolo di un caffè e riempiva pagine e pagine di qualsiasi pensiero gli passasse per la testa.

A ciò si unì la fascinazione per mondi artificiali, di visioni e sinestesie, raggiunti anche tramite l’uso di sostanze stupefacenti che richiamano il dérèglement de tous les sens del giovane Rimbaud, i cui influssi iniziano a farsi sentire in brani che compaiono nel secondo album di studio, The freewheelin’ Bob Dylan e si faranno più evidenti a partire da Another side of Bob Dylan. Al mondo del rock si apre un mondo di conoscenza che nella poetica dell’autore può essere raggiunta solo attraverso l’intuizione poetica, allo stesso modo del poeta francese, e che non teme di mettere sottosopra i nessi logici che regolano la società.

Qui il discorso potrebbe essere approfondito o estendersi oltre, si potrebbe parlare di William Blake e della Bibbia – si pensi a un brano impregnato di agitazioni profetiche come Desolation Row di cui De André fece una splendida cover  in italiano–, e tanto altro, ma questo poco basti per rispondere, almeno in parte, alla domanda di quelli che si chiedono: «Cosa c’entra Bob Dylan con la letteratura?».

La breve citazione riportata tra virgolette è tratta da Fernanda Pivano, Beat Hippie yippie, Bompiani, Milano 1977; si possono invece trovare tutti i testi delle canzoni e delle poesia di Dylan tradotte in italiano nella collana Mr. Tambourine edita da Arcana Editrice.

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