Always Happy Hour

(recensione di Monica Frigerio)

Happy Hour è una raccolta di racconti della scrittrice statunitense Mary Miller, pubblicata in Italia nel 2017 dalla casa editrice Black Coffee, che si occupa in particolare di letteratura americana contemporanea.

La raccolta arriva dopo il fortunato esordio Last Days of California e con i suoi diciassette racconti fa un ritratto impietoso di giovani donne dai venti ai trent’anni che abitano l’America calda, asfissiante, conservatrice, per gran parte ancora rurale, color grigio e terra di Siena degli stati del Sud.

Impietoso non perché si accanisca contro le sue giovani protagoniste, incolpandole di chissà che cosa se la loro vita si trascina di attimo in attimo tra lavori precari e amori altrettanto instabili e loro sembra non solo non trovino nessuno stimolo per reagire, per fare qualcosa che le aiuti a uscire fuori da questa stasi che nella sua immobilità le fagocita a velocità preoccupanti. Non trovano uno stimolo, in ciò del tutto simili alla famosa Eveline di Joyce, ma neanche lottano troppo per andare a cercarlo. A parte momenti fugaci di presa di coscienza, le donne di Mary Miller sembrano accettare pacatamente un ruolo non particolarmente grandioso che il destino gli ha assegnato, o se non proprio accettarlo almeno cercare di metterlo in secondo piano scolandosi lattine e lattine di birra a poco prezzo presa al supermercato.

Se una volontà c’è è quella di volere dimenticare, di rendersi conto di come stanno le cose ma non troppo a lungo, altrimenti diventerebbe insostenibile.

“Questa non è la mia vita, e non è neppure quella che in teoria dovrei vivere, perciò tanto vale fingere che lo sia. La verità è che più la vivo più questa vita diventa mia, diventa reale, mentre quella che dovrei vivere recede sullo sfondo e un giorno scomparirà per sempre dalla mia vista”, questa citazione è tratta dal racconto Verso l’alto in cui una ragazza viene coinvolta dal suo fidanzato, che vive in un camper, in un affare ben poco legale al solo scopo di raccogliere qualche soldo e giustamente è stata posta in evidenza in quarta di copertina perché ben coglie lo spirito di tutta la raccolta, vale a dire la sensazione di essere intrappolate in un’esistenza in cui non ci si riconosce, ma dalla quale davvero non si conoscono i mezzi per uscirne. Oppure si fa finta di non conoscerli, questo accade alla protagonista di La bella gente che parlando con una sua amica che non se la passa troppo bene ma che dice di stare facendo di tutto per rimanere a galla si trova a riflettere con sé stessa: “So che potrei fare di meglio, che è nelle mie facoltà, e che anche Aggie potrebbe, ma per qualche motivo abbiamo deciso di concederci il lusso di trascinare il nostro potenziale, di illuderci che stiamo facendo il nostro meglio. Apro la bocca e la richiudo, scelgo di tenere per me questa considerazione”.

La realtà è soffocante e opprimente come le infinite giornate estive del Sud degli Stati Uniti in cui il sudore non ti dà tregua e ti ritrovi su un autobus con gente brutta che sembra uscita di casa solo per andare a prendere altro pollo fritto o fare un giro al Walmart e ti ritrovi a chiederti come sia possibile essere finita proprio lì, in quel momento e in quella situazione, ma tra le mani hai solo un aggettivo indefinito, un qualche, che pesa, ma nello stesso tempo rende tutto più leggero.

La Miller è molto brava nel restituire tramite le sue narrazioni di vita quotidiana il senso di impotenza e disillusione verso il futuro provato dalle sue protagoniste. Nonostante la dedica “Ai miei ex”, questi racconti non parlano principalmente di amore o relazioni finite, c’è anche quello, ma è solo una parte di un quadro più ampio. La sua inquadratura è particolare, non parte mai da dove il problema è sorto e neanche si spinge a esaminare il fallimento nella sua essenza, la camera rimane fissa in un momento che non è né il prima né il dopo, ma un limbo esistenziale pantanoso nel quale le sue ragazze prendono coscienza di essere decontestualizzate, di avere sbagliato qualcosa di indefinito nel passato che le ha portate lì in quella che sembra essere una confort zone, ma che è in realtà solo un modo per defilarsi. È fortissima questa sensazione di non appartenere, di non essere qualcosa di ben messo a fuoco e definito, di avere paura per il proprio futuro, c’è Darcie del racconto Hamilton Pool che “si ricorda che non appartiene al mondo di Terry [il suo fidanzato], che non appartiene a nessun posto tranne forse la casa dei suoi genitori, ma neanche a quello”, c’è la protagonista di Prima classe che ci dice “non mi piace mai la persona che sembro. Non sono né una tipa sportiva né una secchiona. Non sono mai né bella né brutta, né grassa né magra. A un certo punto smetterò di sforzarmi di sembrare qualcosa e sarò semplicemente vecchia”.

Le donne della Miller si preoccupano del loro peso, di come staranno in bikini, si chiedono se avranno mai bambini, non vogliono essere chiamate ‘signore’, si chiedono se rischiano di risultare troppo appiccicate ai loro fidanzati. Ma fanno tutto questo nel modo meno lezioso che si possa immaginare. Non sappiamo cosa ne sarà di loro – come abbiamo detto la camera si ferma sempre sullo stesso punto –, anzi è molto probabile che non gli succeda proprio niente ed è proprio sul niente che spesso si costruisce la buona letteratura.

Se ami leggere libri di empowerment che ti motivino in maniera straordinaria a costruirti mattone per mattone una vita brillante e piena di successi, piena di muri sfondati, questo libro non fa per te. Non perché il self empowerment e il girl power e tutto ciò che si sono inventati non vadano bene, ma perché sappiamo che in fondo la vita assomiglia molto di più a quello scritto qui e l’unica cosa da fare è riderne un po’ insieme.

Cosalità

(di Federica Tosadori)

Nulla sembrava qualcosa in più di quello che era davvero. Tutto era semplicemente una cosa, impastoiata, da cima a fondo, nella propria cosalità.
Ogni Cosa è Illuminata

Als Gregor Samsa eines Morgens…

Cigolando le mie pupille si illuminarono della luce bianca del giorno. Mancava qualcosa in quel biancore abbagliante, un calore mattutino, un sapore. Ogni risveglio è una nuova vita, diceva sempre mia madre, quando scendevo in cucina ciondolando, inseguendo quell’aroma denso di brioche al burro. Io sorridevo e non capivo, e nemmeno mi interessava. Quelle parole erano solo un mantra, semplicemente il buongiorno di una donna che morbida mi abbracciava con gli occhi ridenti e marroni. Era un ricordo che indelebile era rimasto incollato alle pareti del mio cranio e ogni mattina non potevo che riosservare quella scena, odorare nuovamente quelle parole, commuovendomi. Ma qualcosa era profondamente diverso in quel cigolio meccanico dei mie occhi, che come malati vedevano un bianco quasi accecante e nessun profumo di brioche nei miei pensieri. Il ricordo della dolcezza di mia madre era solo una cosa in mezzo ad altre cose:
l’Armadio
la Finestra
la Sveglia
il Tavolo
quel Sorriso
i Vestiti della Sera prima sulla Sedia
il Comodino
quel Burro armonioso dei suoi Occhi
il Tappeto
il Poster insignificante di un Ritaglio di Giornale
ogni Risveglio è una nuova Vita
la Collezione di Fotografie.
Solo cose tra le cose, così era fatto il mondo quella mattina. Un grande oggetto pieno di oggetti, inanimati e inconcludenti, duri e fissi, immobili. Provai a ruotarmi sul fianco destro cercando accanto a me quel qualcosa che mi mancava. Non c’era presenza umana. Le mie mani si muovevano lentamente lungo i fianchi, ma non riuscivo a sentirle. Cose tra le cose.

Iris doveva essersi già alzata e con ogni probabilità era in cucina a mangiare qualcosa di veloce prima di uscire di corsa a prendere il treno. Era sempre in ritardo; c’erano poche cose che mi irritavano più di quel suo perenne non essere mai in tempo. Mai al posto giusto nel momento giusto, sempre a rincorrere se stessa. Come si poteva vivere una vita così? Eppure quella mattina il mio cervello non formulò interrogativi del genere. Non mi importava di Iris, delle sue labbra sulla tazza bianca di caffè, dei suoi capelli spettinati, della sua corsa disperata verso lo studio, del suo impegnarsi al cambiamento che evidentemente non sarebbe mai avvenuto. Non provavo fastidio, non provavo niente. Avrebbe potuto essere un fantasma, un’entità invisibile, niente nelle pareti del mio cranio, nude dal ricordo di burro materno, mi avrebbe ispirato emozioni. Riuscivo soltanto a pensare, nell’immobilità dei miei movimenti, a come avrei potuto sciogliere quella stessa immobilità. Avrei richiuso gli occhi cigolanti e mi sarei rimesso a dormire, solo per risvegliarmi dentro una nuova vita. Ma non potevo prendere sonno finché non fossi riuscito a muovermi, e non potevo muovermi senza prima riprendere sonno. Cosa tra le cose. Lentamente mi accorsi di essere ormai definitivamente sveglio. La mia testa di piombo però non riusciva a staccarsi dal cuscino e la mia pelle liscia in modo innaturale pareva insensibile alla carezza delle lenzuola chiare. Cominciai a sentire degli strani rumori provenire dal fondo del letto. Era come un muoversi di ferro e metallo, meccanismi che riprendono vita dopo un lungo periodo di silenzio. Fui preso improvvisamente dal panico, unica sensazione davvero umana di cui mi ricordi in quella mattina, ma di fatto durò poco, molto poco, fino a quando non mi accorsi che si trattava dei miei legamenti cigolanti.

Cosa mi è successo? Formulai nel mio cervello scolpito alcune probabilità: ero stressato dal lavoro, da Iris, dalla vita intera; da quella città troppo stretta, dagli orari assurdi della fabbrica, dai ricordi frustrati di qualcosa che non era andato come desideravo. Era chiaro che fossi terribilmente stanco di tutto, stanco della solitudine pungente provata ogni sera prima di andare a dormire; e poi degli incubi inutili e dolorosi. Forse ci ero dentro, a uno di quegli incubi terribili, in cui insetti giganti e streghe maledette mi torturavano. Eppure intorno a me e nella casa tutta, non c’era nessuno, niente animali e streghe, solo io con un corpo immobile di ferro gelido. Doveva essere molto tardi ma io non potevo alzarmi dal letto per andare a lavorare. Passarono delle ore intere e vuote in cui i miei pensieri e le mie emozioni diventavano plastica; avevo come la sensazione di poterle inscatolare da qualche parte dentro di me, archiviandole e quindi dimenticandole. Un’insensibilità meravigliosa si impossessò di ogni mia singola particella, materiale e non. O meglio, ogni mia singola particella immateriale diventava sempre più calcarea, fino a che non mi parve di essere composto semplicemente da piccoli sassolini grigi, anaffettivi.

Non mi alzai da quel letto fino a quando Iris non tornò a casa. Sentii il suono tintinnante delle chiavi nella porta e mi sembrò infinitamente simile a quello che producevano le mie dita ogni volta che tentavo di muoverle. Lei si accorse subito che non ero uscito di casa. Corse in camera e spalancando la porta gridò, esprimendo una paura raggelante che ebbe il potere di prosciugare quelle ultime gocce di sangue che sentivo fluire ancora dentro di me. Ero diventato un automa perfetto, senza sogni, senza paure, senza cuore.
«Cosa ti è successo amore mio! Oddio! Sei bianco, sembri un cadavere! Stai bene? Ti prego dimmi qualcosa?» Si era fatta vicina al mio orecchio, alla mia pelle laminata. Mi accorsi che potevo parlare ancora, avrei potuto aprire le labbra e far scricchiolare la mia lingua ruvida a formulare parole. Avrei detto: “Sto benissimo, non mi importa di nulla, nemmeno di questa tua paura amorevole che solo ora sei riuscita a tirare fuori, ora che non sono più un essere umano e non mi serve più”. Ma non dissi niente perché non mi interessava, non era importante. E il tocco delle sue mani su di me non era che un fastidioso calore che mi impediva di cancellare gli ultimi ricordi di emozioni umane.

Passarono tanti giorni e tante notti senza che io ripresi mai più sonno o potessi provare a svegliarmi da quella situazione. Ero riuscito ad alzarmi dal letto e ora non avevo più voglia di sdraiarmici, abbracciando Iris nella notte. Solo desideravo stare in piedi davanti alla finestra, a osservare le altre mille finestre di quella città senza senso, senza provare rabbia o invidia per le vite degli altri. Mi muovevo piano e rumoroso in giro per la casa, con la consapevolezza di aver perso il lavoro, di aver perso ogni cosa, ogni amico, ogni gesto della mia precedente vita umana. Ma nulla mi toccava o mi faceva male, solo ogni tanto mi pareva di sentire quel profumo di burro nella periferia del mio cervello. Quello pseudo ricordo mi riattivava qualcosa, qualche meccanismo ancora morbido di carne. Ma sostanzialmente niente cambiava e il tempo passava senza che io sentissi la pesantezza della noia, il vuoto nero in cui spesso prima cadevo nauseabondo.

Iris era diventata uno straccio magro e grigio. Usciva di casa prestissimo al mattino e tornava sempre più tardi, sempre più al buio. Si infilava sotto le coperte senza nemmeno passare dalla cucina o dalla doccia e si addormentava piangendo. Al mattino appena apriva gli occhi mi osservava nel terrore puro e lentamente capii che mi odiava in un modo così vero che arrivai a comprendere, nella mia mente di macchina, che niente di quello che era stato tra noi poteva essere più autentico di quel sentimento così categorico e definitivo. Ma io soltanto lasciavo scorrere ogni cosa della vita rosa e delicata di quell’essere microscopico che occupava uno spazio tra le stesse quattro pareti ben note.
Quando Iris una sera non tornò più a casa mi resi conto che la mia trasformazione in cosa tra le cose era giunta davvero al termine. Camminai per la casa nel silenzio e nel buio più profondo, totalmente vuoto e insensibile a ogni oggetto: le tazze della colazione di giorni nel lavandino, con le loro tracce di biscotto molliccio, la spazzatura piena di carte e avanzi di cibo non mangiato, il divano rosso su cui giaceva inerte il libro che stavo leggendo prima di tutto questo, il letto disfatto senza vita, e ancora la collezione di fotografie di sconosciuti in cui troneggiava la figura di una donna impellicciata che non potevo davvero sapere chi fosse. E io, bambola meccanica abbandonata, senza sbattere le ciglia mi sedetti cigolando su una sedia bianca fredda di insignificanza, e immobile mi fissai lì, guardando il nulla davanti a me e sentendo il nulla dentro le mie ossa rigide di metallo.

Tutto ciò che segue è frutto delle mie estrapolazioni sulla realtà, perché un giorno smisi di percepire come dotato di senso qualsiasi tipo di linguaggio umano: Iris vendette quell’appartamento a una famiglia di borghesi allegri che non potevano nemmeno immaginare cosa vi fosse accaduto dentro. Così quando, con tutta la loro spensieratezza di famiglia felice, varcarono la soglia, ammutolirono nel vedermi nudo e fisso in un angolo della camera da letto, perdendo nel sempre di quell’attimo ogni gioia possibile. I bambini subito fuggirono nelle altre stanze terrorizzati, o almeno questo è il sentimento che parevano disegnare le loro bocche spalancate. La moglie, sul muro le sue spalle, iniziò a urlare, con due grandi occhi cupi di un azzurro azzardato, mi squadrava sperando di non essere a sua volta guardata. L’uomo di famiglia decise che il compito era suo. In pochi giorni mi ritrovai nel buio più angusto e infinito. Dei muratori, chiamati immediatamente, con la massima velocità e costanza mi avevano costruito una stanza intorno. Nessuno aveva potuto spostarmi: i miei piedi come radici ancorate al pavimento, ogni muscolo teso come corteccia di bronzo, mi rendevano pesante e inamovibile. Io, albero senza foglie e respiro, cosa tra le cose, metallico di ricordi e desideri inespressi, non ero più io, non ero più niente, solo un oggetto chiuso senza aria in un buco.

Adesso, dal nero, dietro alla vita degli altri, non faccio che ascoltare il suono dei giorni di chi di giorni di carne ne ha ancora. Non sento il tempo che passa e so che sono niente, che la famiglia di là ha dimenticato la mia assente presenza dietro ai mattoni imbiancati, sulle cui pareti saranno appoggiati quadri e foto e ritagli di fiori colorati. Solo ogni tanto un brivido strofina i miei interni di rotelle e meccanismi e mi pare di sentire come rabbia frustrata tutta l’aria di sole che non posso più respirare. Soffoco, soffoco per attimi lunghi e arrivo alla morte con tutto il mio peso di immobile, fino quasi a percepirla, concreta e densa. Ma mai, mai mi ci perdo dentro, nel suo nero incubo. Resto alla fine sempre qui, impossibilitato al respiro. Capita molto raramente che dalle fessure impercettibili del muro, arrivi al mio ferroso essere un certo odore di burro mattutino, di colazioni bianche, un sorriso. Mi scuoto inconsapevolmente e so che dall’altra parte il mio cigolio gela il sangue carnoso e vivo, soffoca il respiro per un secondo inafferrabile a chi oltre il muro, non ancora è diventato cosa tra le cose, non ancora ha dimenticato di esistere.

IL CAPPOTTO

(un racconto di Monica Frigerio)

Konstantin Fëdorovič passava la maggior parte delle sue giornate nei vicoli dietro la stazione ferroviaria Kursky. Qui si concentrava il meglio della società moscovita.

C’era chi amava appostarsi accanto alle casse per racimolare qualche copeca, chi stava all’uscita del metro, i più temerari ogni tanto tentavano qualche criminuccio andando a frugare nelle borse esposte in bella vista… e poi c’era Volodja, detto Ezhik (il riccio).

Era un ex progettista con moglie e figli che a un certo punto della vita aveva sentito il richiamo monastico e si era spinto per le strade a predicare la parola di Dio, o almeno di una versione molto personale di Dio che si era fatta. Aveva sempre due lividi violacei stampati sugli zigomi, non era mai chiaro se per il freddo o per l’alcol. Lo chiamavano così per via della corona di capelli ispidi che si ritrovava in testa.

Konstantin lo conobbe una mattina in cui le temperature erano scese di molto sotto lo zero. Stava tutto intirizzito in un androne della stazione, coperto con tutto ciò che aveva trovato nelle vicinanze, quando si vide comparire una figura oscura davanti agli occhi. La luce lo illuminava da dietro e Kostja pensò inizialmente di essere morto e trovarsi al cospetto di uno spirito ultra terreno. Invece Ezhik si limitò a tirare fuori una bottiglia dal cappotto liso.

«Ma lo sai che non c’è migliore tisana mattutina di un bel bicchiere di vodka del bufalo?»

Diventarono amici. Amavano appostarsi fuori dai negozi intorno alla stazione, o meglio Ezhik lo amava, era in qualche modo ossessionato dai commercianti.

«Li vedi, Konstantin, tutti questi qui? Tutta questa maledetta imitazione della bontà… si strapperebbero le budella per recitare le loro gentilezze coi clienti, poi prova ad andare a chiedergli un pezzo di pane…»

«Eh dai Volja, lo sai che questo è il loro lavoro, non possono mica stare dietro a ogni malcapitato che va a bussare alla loro porta.»

«Non è ciò che voleva Dio, perdio!»

Un giorno presero insieme il tram per andare sulla Tverskaja a vedere cosa fosse successo, un gruppo di senzatetto aveva occupato un edificio abbandonato creando confusioni con la polizia.

Ezhik stava facendo perdere la testa a una passeggera che sedeva di fronte a lui.

«Ehi bella signora, me lo regala un pezzo della sua pelliccia?»

La bella signora coperta di imbarazzo come un macigno non si scostò di un millimetro, ma tutti intorno scoppiarono a ridere.

Fu lì che Kostja la rivide.

Erano seduti sullo stesso tavolo della biblioteca, tanti anni fa. Mentre se ne stava per andare Kostja, sopra pensiero, aveva infilato per sbaglio il cappotto di lei appeso alla parete. Quando se ne accorse gli gridò dietro: «Ma dove pensa di andare con la mia giacca?».

Nel tempo la situazione iniziò a farsi più dura, i genitori di Kostja, che erano dei Bianchi, emigrarono in Europa, mentre lui decise di restarle accanto, a quel tempo le sembrava tanto magrolina e indifesa. La famiglia lo escluse completamente.

Poi lei dovette decidere tra difendere l’amore o la carriera e se ora il suo nome compariva su tutti i giornali mentre lui girovagava per la stazione Kursky, si capisce bene come andarono a finire le cose.

Ezhik gli ripeteva sempre che non c’è nessun paese dove si prendano le cose, ogni cosa, tanto sul serio che come in Russia.

Se solo quella sera non si fosse distratto.