Alcune brevi considerazioni su Thomas Bernhard

(di Monica Frigerio) Partirò da lontano, da un ricordo. Lessi ai tempi dell’università un libro di Andrej Sinjavskij, scrittore e critico letterario sovietico, credo sconosciuto ai più, e questo libro si intitolava Buona notte!. Devo averlo preso in prestito in qualche biblioteca perché non lo trovo da nessuna parte e se lo cerco online è ovunque fuori catalogo. Comunque, a un certo punto Sinjavskij parla della prima volta in cui lesse Delitto e castigo di Dostoevskij. Disse che lo leggeva disteso sul letto, leggeva qualche pagina e poi scagliava il libro forte contro il muro, si alzava, andava a riprenderlo e dopo qualche pagina lo scagliava di nuovo contro il muro. Disse che questo era l’unico modo per leggere Delitto e castigo di Dostoevskij. Thomas Bernhard in tutto questo potrebbe c’entrare per il fatto che ne Il soccombente cita la letteratura russa tra le letture preferite di Werheimer perché Wertheimer ama libri in cui venga descritta la miseria umana, la mancanza di ogni via di scampo, l’insensatezza e l’inanità di ogni sforzo, libri nei quali tutto è sempre e continuamente devastante e micidiale (cito dal libro) e la letteratura russa, di tutte le letterature, è la più micidiale. C’entra anche per il fatto, e di qui il ricordo, che capita anche a me di volere scagliare il libro contro il muro mentre leggo Bernhard, perché è brutale, è onesto, è diretto, perché lo invidio per la sua cattiveria incantatrice, che fa esplodere un’energia pronta al consumo nonostante la consapevolezza che io no, non potrò mai arrivare a quel livello, e perché tutto ciò che è valido ti disturba in qualche modo e questa è una lezione ormai lapalissiana. Bernhard ha scritto parecchio, sono certa di non avere letto tutta la sua produzione, ma da poco ho terminato di leggere Estinzione, l’ultimo romanzo da lui scritto. Non credo che abbia molto senso parlare di un suo libro in particolare rispetto a un altro, i temi su cui si concentra sono quasi sempre gli stessi, il suo stile unico e inconfondibile e per questo si può dire, con qualche margine di generalizzazione, che Bernhard abbia scritto nella sua vita sempre lo stesso libro. Si parla di solitudine, malattia, morte, della grande ottusità del popolo austriaco (e non solo), c’è in essi la volontà di definire il mondo attraverso un’idea di cui spesso si fanno portavoce studiosi o intellettuali inconcludenti o poco più, i suoi romanzi sono di frequente lunghi monologhi che vanno avanti ininterrotti senza divisioni in capitoli o paragrafi in un flusso che non conosce pause, ma che ti tengono incollati alla pagina perché la sua prosa maniacale, vorticosa, la continua ripetizione di concetti fino all’ossessione funzionano come una sorta di tecnica della verità dell’arte letteraria, solo esagerando in questa maniera, solo sfruttando al massimo la sua cosiddetta arte dell’esagerazione, si arriva allo svelamento della verità e quindi alla percezione (se si può parlare poi ‘solo’ di percezione) che tutto ciò che si sta leggendo sia in effetti vero, indispensabile. Il ritmo è calcolato in base a una continua tensione tra serietà e ironia, ci si affanna tra le pagine, ma si ride anche perché, in fondo, questo contemptus mundi portato all’ennesima potenza ha in sé il germe del comico. Se si dovesse descrivere Thomas Bernhard con due parole utilizzerei: temperamento e coerenza. Mi ha fatto sorridere un’intervista che rilasciò in cui disse che il suo stile letterario derivava in effetti dal suo stile di vita, che non avrebbe potuto scrivere quello che ha scritto senza che nella sua vita venisse inevitabilmente fatta terra bruciata intorno a sé, senza che nel suo quotidiano vigesse la stessa spregiudicatezza e la stessa intransigenza che si respira nei suoi libri. Ho apprezzato molto anche delle osservazioni scritte da Nicola Lagioia, ormai anni fa, in occasione dell’uscita in unico volume per Adelphi dei vari romanzi che costituiscono l’Autobiografia di Bernhard, le ho apprezzate perché hanno sicuramente aggiunto dei tasselli di consapevolezza al perché mi sia sempre tanto piaciuto il suo tipo di prosa. Lagioia parla di questi cinque romanzi ((L’origine – un accennoLa cantina – una via di scampo,  Il respiro – una decisioneIl freddo – una segregazione, per ultimo Un bambino) come di un manifesto vivo della resistenza umana, un rifiuto deciso alla possibilità che il nucleo irriducibile della nostra dignità venga schiacciato da ciò che gli è ostile e contrario e proprio per questo siamo il quanto più possibile lontani da un’ossessione e un virtuosismo fini a sé stessi: il come scrive è in tutto e per tutto funzionale a quello che scrive. Ragione per cui i vortici linguistici di Thomas Bernhard non hanno niente di gratuito: sono la paziente, tenace ruminazione del male. E quindi, continua con questa metafora “erbivora”, più il male è grande e tenace, tanto più la lingua a mo’ di mastificazione-rigurgito-masticazione dovrà impegnarsi a sfibrarlo, sfaldarlo, polverizzarlo.  
L’andatura di Bernhard è così non semplicemente spiraliforme, ma discontinua nella sua commuovente coerenza – avanza, incontra l’ostacolo, ci si avvolge intorno con una pazienza e una diligenza che possono durare pagine e pagine (le quali, essendo necessarie a superare l’ostacolo in questione, difficilmente potranno risultare di conseguenza anche eccessive) ruminandolo finché non ne resti più niente – fino a quando cioè, visto che il male è eterno, un ostacolo di tipo nuovo si sia già ricomposto come una nera concrezione qualche passo più avanti. (https://www.minimaetmoralia.it/wp/approfondimenti/lautobiografia-di-thomas-bernhard/)
  Si tratta di arrivare alla meta consunti, è vero, ma Bernhard non risulta mai stucchevole, mai eccessivo nelle sue invettive, che in effetti sono eccessive, perché si è conquistato a fatica ogni parola, e ha evitato in qualsiasi modo che il suo nucleo venisse intaccato, ancora una volta temperamento e coerenza. Ogni pensiero, ogni fatto o azione vengono spremuti, ribaltati, osservati da tutte le angolazioni possibili e di continuo per improvvise analogie o salti inspiegabili si passa da un argomento all’altro, niente viene veramente esaurito perché la verità, in fondo semplice e complicatissimo filo motrice di tutta la sua produzione, è inafferrabile quindi non si può fare altro che andare avanti, pur sfiancante che sia, parlare, parlare, ancora parlare, con un Gambetti che sia, e camminare. Camminare è il romanzo secondo Bernahrd che, sotto tutti gli aspetti, meglio gli sia riuscito. Termina così e così vorrei terminare qui:  
L’intensità va accresciuta sempre di più, può essere che un giorno questo esercizio oltrepassi il limite della pazzia, ma, in merito, non posso avere alcun riguardo, così Karrer. Il tempo in cui usavo riguardi è passato, non uso più alcun riguardo, così Karrer. Lo stato di indifferenza in cui mi trovo, così Karrer, è uno stato filosofico da cima a fondo. (Camminare, Thomas Bernhard, edizione Adelphi 2018)

La storia di Yoro

(di Nadia Kasa)

Secondo la critica, Marina Perezagua è una delle più importanti scrittrici della nuova scena letteraria spagnola. Ha pubblicato le raccolte di racconti Creature dell’abisso e Latte. Yoro è il suo primo romanzo, pubblicato prima in Spagna, e quest’anno in Italia dalla casa editrice La nave di Teseo. La scrittrice oggi vive a New York dove insegna all’Università.
La protagonista della storia è una donna che si fa chiamare H – nome che ha un preciso significato, perché H è una lettera muta così come si sente la donna, ma anche perché legata all’elemento dell’idrogeno, che le ha portato via ogni cosa – sopravvissuta all’esplosione della bomba di Hiroshima del 6 agosto 1945. La storia inizia proprio dal minuzioso e attento racconto dell’esplosione. La luce che accecò la città e i suoi abitanti; il calore, così forte da pensare che la vita sulla Terra fosse terminata; la nube tossica che impediva la cosa più naturale che l’essere umano dovrebbe fare: respirare; gli ospedali colmi di persone dall’identità sconosciuta, a causa della mancanza di lembi di pelle, carne, occhi; e ancora, le ombre lasciate sui muri dalle persone vicino l’esplosione. Un racconto atroce che fa porre – anche al lettore meno scrupoloso – molte domande sulla crudeltà che l’uomo è in grado di perpetrare.
L’esplosione rappresenta l’evento scatenante che cambia la vita di H, i suoi obiettivi, il suo carattere. H cresce poi a New York, adottata da una famiglia americana – strano destino visto che proprio gli americani sganciarono la bomba – e nel suo affrontare le difficoltà di una persona che ha subito un tale trauma, incontra Jim, un ex marine americano sopravvissuto agli orrori della guerra in Giappone, di cui si innamora in maniera totale. Anche Jim è una vittima e sembra proprio che le loro strade si siano incrociate per una precisa ragione: trovare Yoro. Yoro è una bambina che fu affidata a Jim e cresciuta come una figlia durante la sua missione. Yoro è una persona, ma anche un vero e proprio obiettivo da ricercare e tale diviene anche per H, che tanto avrebbe voluto una figlia, ma che in maniera logica e concatenante non potrà mai avere a causa della bomba.

Il romanzo può essere collocato all’interno del genere storico. Gli avvenimenti sono reali, documentati, ma i personaggi sono frutto della fantasia della scrittrice. Nonostante ciò, fino alla fine il lettore crede costantemente alla veridicità dei protagonisti, tanto da immedesimarsi negli obiettivi di questi.
Yoro non è solo la storia di una vicenda ambientata durante la guerra che spiega il seguito dei personaggi che l’hanno vissuta, ma anche la storia degli emarginati, degli esclusi dalla società, di quelli che vengono considerati gli abietti. Inoltre, in parallelo, i riferimenti alla sessualità sono molti: la sensazione di sentirsi inadeguati; il sesso utilizzato come strumento per nascondere le proprie fragilità; il coraggio di cambiare e imboccare strade diverse rispetto a quelle da cui si partiva. H, è costantemente combattuta, isolata, si è sempre sentita donna, ma non sempre è stata considerata tale dalla società. E anche quando vuole un figlio, la bomba glielo impedisce. Jim, d’altro canto è stato privato di ciò che più amava. Yoro diventa una ricerca fondamentale per entrambi, per Jim rappresenta la liberazione di una missione che non ha terminato, una missione personale; per H – nonostante non abbia mai conosciuto Yoro, sente di avere con lei un legame profondo – la bambina, rappresenta la possibilità di diventare madre, ma anche di salvare sé stessa.
Tutta la storia è articolata in una serie di avvenimenti atti alla ricerca di Yoro, viaggi, incontri, confessioni personali, delle vere e proprie tappe che H e Jim devono affrontare per arrivare al termine della ricerca. Anche il finale, per nulla scontato, per nulla prevedibile lascia il lettore sorpreso.
L’ultimo tema importante del romanzo è il rapporto tra madre e figlia, un legame di risonanza tra una calamita fatta di un magnete speciale, quello dell’amore.
Marina Perezagua non narra la storia da una prospettiva esterna, ma parla direttamente con il lettore. Si rivolge a lui rendendolo partecipe degli episodi narrati via via senza gradualità emotiva. Espone in maniera diretta tutto ciò che osserva, rendendolo vivo agli occhi di colui che legge.
Il suo stile narrativo ha una propria dolcezza musicale, fatta di accordi bassi e acuti improvvisi; di termini forbiti, ma anche di tanta semplicità. Colui che si approccia a questo stile comprende che non ci sono mezzi termini, che la vita ha periodi di alti e bassi e che le difficoltà vanno affrontate a testa alta nonostante si pensi siano troppo per noi.
In fondo, ciò che mi sono messa in testa, è che ognuno di noi è alla ricerca di una Yoro, di un suo obiettivo personale, di un’ambizione da perseguire che è più grande di qualsiasi altra cosa e che ci dà la forza di vivere e lottare quando tutto sembra andare per il verso sbagliato.

Dal libro…
Le racconto una cosa. A me piace molto essere accarezzata. Ero arrivata a tediare il povero Jim per le innumerevoli volte che gli avevo chiesto di accarezzarmi le braccia, i capelli o le gambe mentre guardavamo un film, o prima di addormentarci. Qualche volta, per risparmiargli quel capriccio, provavo ad accarezzarmi da sola, ma non era la stessa cosa, le carezze mi rilassavano solo se era la mano di un altro a farmele. La spiegazione è – o almeno quella che mi sono data io – che la pelle prova piacere soltanto se il piacere arriva in modo imprevisto, a sorpresa, quando la carezza avviene senza che il cervello ne conosca l’intensità, il momento o il punto esatto in cui la riceve. Ebbene, credo che con la tristezza succeda la stessa cosa. La tristezza, come il piacere della carezza, si produce su un terreno vergine, e affinché faccia effetto è necessario che accada come se fosse la prima volta. Nel mio caso, ho come l’impressione che, di tante tristezze che ho vissuto, ormai nessuna possa cogliermi di sorpresa; sono un braccio, una gamba, un capello che ha provato tante volte la stessa sensazione da aver perso la capacità di rattristarmi. Tuttavia, potevo, e posso ancora, rallegrarmi, perché nonostante ciò che ho fatto sono una donna buona, e le persone buone non perdono mai la facoltà di provare gioia.