I limiti della libertà

(di Andrea Lionetti)

Quando pensiamo alla parola “libertà”, le prime cose che vengono in mente sono l’autonomia di pensiero e di azione; l’idea di prendere decisioni, convinti di essere i migliori giudici di noi stessi. Sono libero, dunque dico e faccio ciò che voglio. Lo stesso accade quando si pensa alla parola “creatività”. La creatività deve vivere un rapporto antitetico rispetto ai vincoli, alle limitazioni e restrizioni di ogni sorta. La creatività è libertà: un’equazione diffusa che non può permettersi ostacoli. Ma è davvero così?

Un uomo greco di condizione libera si sarebbe limitato a vedere la libertà nel semplice fatto di non essere un servo; ancor prima dei diritti politici era la coscienza di non essere proprietà altrui a definire la libertà. E questo bastava, almeno in una società arcaica. Ma senza andare troppo indietro nel tempo mi è capitato qualche giorno fa di avere una conversazione con uno studente di Architettura a Milano, il quale mi raccontava di non sopportare alcuni atteggiamenti diffusi presso la gente della propria città di origine, Ragusa. In particolare mi ha colpito ciò che ha affermato a proposito dell’impatto psicologico avuto dalla raccolta differenziata su sua zia, che infastidita dalle troppe regole impostele avrebbe detto: “Mi hanno tolto la libertà di buttare l’immondizia”. “No, zia, ti hanno tolto la libertà di inquinare”.
L’impressione immediata che ne deriva è che siffatte idee di libertà non siano altro che forme di arbitrarietà, il “fare il comodo proprio” da cui Platone mette in guardia nelle celebri pagine della Repubblica dedicate alla critica del sistema democratico (ateniese), ben diverso da quel “vivere a modo proprio” (nel rispetto delle leggi e della libertà altrui) che Pericle esalta nell’Epitaffio tucidideo.
Dirò di più: la libertà è una forma di limite all’arbitrario. Lo si può osservare in diversi ambiti: scientifico, politico e artistico.

Si può dire ciò che si vuole parlando di fisica? Ovviamente no. Dobbiamo dedurre un carattere dogmatico della scienza come diretta conseguenza? Sempre no.
La scienza non ammette la dittatura di un solo paradigma; al contrario, lascia sempre spazio al dissenso. Qualora sia supportato da argomentazioni razionali basate sul metodo sperimentale, dunque convincenti. Non esistono ortodossie, ma verità sempre passibili di rettifica. Allo stesso tempo la scienza non può sostituirsi né alla filosofia né alla religione. Il darwinismo spiega l’evoluzione della vita ma non il perché di essa; possiamo parlare della teoria del Big Bang ma non sapere la ragione per cui nacque l’universo. E il bello è che la scienza non solo non pretende di farlo ma non ha mai lanciato nemmeno il guanto di sfida.

La scienza non è democratica è il titolo del libro di un noto medico che sta vivendo una seconda vita, quella della celebrità social, Roberto Burioni, salito alla ribalta come strenuo difensore delle tesi anti-NO VAX, o più semplicemente della conoscenza scientifica. Siamo liberi in una società libera, quindi nulla di male se decidiamo di non vaccinare i nostri figli in nome della libertà. Non occorre argomentare la scelta, né vedere l’attendibilità delle ragioni proposte, ammesso che esistano. Qualunque imposizione, anche quella razionale basata sulla disciplina medica, è un nemico che mina la nostra libertà.
Il titolo del libro di Burioni afferma una verità scomoda che necessita comunque di una precisazione: la democrazia contribuisce più di ogni altro regime politico alla diffusione del sapere e permette a chi lo voglia di accedervi, ma non è detto che tutti ci riescano, quindi se per democrazia intendiamo “la tirannia della maggioranza” (i social network ne sono un esempio), allora la scienza non è democratica, così come l’intero sapere umano. La maggioranza è sempre stata un’arma a doppio taglio: previene da forme di assolutismo ma può anche condurci verso di esse. Hitler arrivò al potere grazie a elezioni democratiche, non attraverso l’uso della forza; e i colpi di stato della storia ateniese avvennero tutti entro i limiti della legalità. Come? Manipolando il dèmos. È la forza della demagogia.

Il sociologo Arnold Hauser ha scritto: “Ogni opera d’arte scaturisce dalla tensione fra i propositi dell’artista e le resistenze che egli incontra – da parte dei motivi vietati, dei pregiudizi sociali; […] Interamente libero l’artista non è nemmeno nelle più liberali democrazie: anche qui lo vincolano innumerevoli riguardi estranei all’arte. In linea di principio non c’è differenza fra il diktat di un despota e le convenzioni della società più liberale”.

In tal senso, la differenza fondamentale tra un sistema totalitarista e uno liberale riguarda solo la circolazione della cultura. Niente di più. Conosciamo capolavori dell’arte e della letteratura ispirati ad atrocità e che sono fioriti grazie a insopportabili sistemi di repressione. L’Unione sovietica ha prodotto Pasternak. Dalla Berlino nazista è fuggito Brecht, la cui opera è pervasa dal ricordo di quegli anni bui. E persino l’arte di regime ha arricchito il patrimonio umano. La Riefenstahl e le sue pellicole ne sono un esempio.
La creatività nasce dal confronto tra i vincoli e noi stessi: senza limiti un uomo non è tale, e i vincoli rendono la libertà degna del nome che porta. Intorno vi è solo l’arbitrario, alibi per chi alla libertà non dedica nemmeno un istante di riflessione.

Eppure la nozione di arbitrarietà è marcata da una componente soggettiva non indifferente. Per chi ci crede, la magia può risultare migliore della scienza. Questo esempio richiama ancor di più la necessità di porre vincoli al fine di attuare il passaggio alla libertà. Credo che noi europei, in virtù delle nostre radici greche, dovremmo sentire maggiormente il peso della salvaguardia della libertà. In fin dei conti deriviamo da un popolo giovane, che ai libri sacri ha preferito la poesia, ai sacerdoti i filosofi, al dogma delle monarchie assolute il confronto sulla migliore costituzione e il disprezzo verso l’autocrate.

Ottobre Rosso e letteratura

(di Monica Frigerio)

Ricorre quest’anno il centenario della Rivoluzione russa e, qualunque giudizio uno possa avere del bolscevismo, è un fatto che aprì le porte a una serie di eventi e fenomeni che rimarranno incisi nella storia dell’umanità per la forza con cui si imposero e gli obiettivi che ci si prefissò di raggiungere.

Un evento che rimescolò le carte della società nel modo più radicale immaginabile, e – soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’50 – questo è vero anche per quello scompartimento chiamato letteratura.

Anni magici e terribili. Terribili perché, si sa, l’aria che tirava non era delle migliori e per una parola sbagliata (tanto peggio se scritta) potevi morire; magici perché, quando la situazione è tale, non si può fare altro che resistere e l’arte seppe trovare dignitosamente il modo di farlo.

Le specifiche condizioni storiche che si vennero a creare durante l’epoca sovietica determinarono inconsapevolmente la nascita di una stagione letteraria irripetibile durante la quale, forse per la prima e unica volta dopo l’invenzione della stampa, il libro smise momentaneamente di essere un prodotto di mercato per essere altro, principalmente arte in sé per sé, ma anche difesa, arma da taglio.

Le violenze del comunismo sovietico lasciarono dietro di sé milioni di vittime – questo è noto –, ma allo stesso tempo la parola, mai così viva e corporea, si trasformò sia nell’unica possibile arma in grado di fendere il potere centralizzato, dotato di ben altri mezzi di difesa, sia nell’unico possibile scudo dietro al quale rifugiarsi per scordare momentaneamente l’orrore e ritrovare un ricordo di libertà.

Parliamo ovviamente di quel tipo di letteratura che si colloca al di fuori dei confini del cosiddetto realismo socialista appoggiato dal PCUS, le cui “sacre” norme e modelli espressivi vennero decretati e approvati nell’agosto del 1934 sotto l’egida di Maksim Gor’kij durante il primo Congresso dell’unione degli scrittori sovietici. Parliamo di quegli scrittori cosiddetti “clandestini” che non accettarono che le loro opere fossero nient’altro che dei tasselli perfettamente combacianti all’interno del grande puzzle sovietico e dell’immagine che di esso si voleva propagandare. Parliamo di quegli scrittori per cui vivere o scrivere erano sinonimi e se scrivere significava essere condannati alla prigionia, non smettevano comunque di vivere.

Il partito ebbe sempre chiara l’importanza che arte e letteratura potessero avere sulla società, nella diffusione di idee e nella formazione della coscienza del popolo: per questo sin dagli anni Trenta si impose, al fine di avere maggiore controllo sulla cultura, l’unificazione di tutte le associazioni di letterati nell’unica Unione degli scrittori sovietici. Coloro che non aderivano erano considerati sostanzialmente dei nemici, dei paria.

Il clima per i letterati, e la fioritura della cultura in generale, si fece momentaneamente più disteso durante il periodo del disgelo, nonostante tutte le contraddizioni che lo caratterizzarono, in modo particolare dopo il famoso discorso di Nikita Chruščëv al XX congresso del Partito comunista sovietico nel 1956 durante il quale alcuni processi poco ortodossi degli anni Trenta vennero definiti delittuosi. Ma quando Leonid Brežnev subentrò al precedente segretario generale la politica del partito tornò a guardare al passato e questo significò maggiore pressione, controllo, ingerenza negli affari culturali. Durante l’epoca della stagnazione la violenza si fa meno fisica, ma si vieta tutto, per principio, e si da la caccia alla parola in quanto tale, dirà in un suo romanzo lo scrittore Andrej Donatovič Sinjavskij (il cui processo a metà degli anni Sessanta, insieme a quello di Brodskij, rappresentò uno dei casi letterari più eclatanti di quegli anni): “Da molte tempo al KGB non picchiano, ma a furia di fatti – colpi bassi, promesse, inganni, minacce o soprattutto di logica, di logica! si spinge l’imputato verso la redenzione”.

Dunque di fronte a dei cacciatori dal fiuto così fino, gli scrittori non allineati, gli outsider, non possono fare altro che rispondere con altrettanta astuzia e sottigliezza mettendo in piedi un sistema di autopubblicazione, non autorizzata ufficialmente, che spesso assume i tratti dell’impresa eroica: l’universo del samizdat.

Il samizdat (dal russo samsebjaizdat che significa autopubblicazione) è il nucleo centrale della resistenza letteraria russa che, tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Ottanta, permise di far diffondere illegalmente milioni di testi tramite i mezzi più rudimentali possibili, tra fotocopiatrici fatte in casa e incredibili personaggi che potremo considerare dei database umani che memorizzavano centinaia di versi pur di far sì che questi non venissero sequestrati.

Si ragionava, in fondo, come poteva farlo con molta schiettezza il detenuto di un campo di prigionia, dice ancora Sinjavskij: “Loro pensano a come chiavarci otto ore al giorno, l’orario di lavoro. Noi pensiamo a come chiavare loro ventiquattro ore su ventiquattro”. I meccanismi che regolano il samizdat rappresentano una sorta di ritorno all’epoca medievale poiché c’è la percezione, forte, che i propri manoscritti possano da un momento all’altro essere requisiti, bruciati, fatti sparire per sempre, un’instabilità che ha davvero poco di moderno. Nonostante questo, quasi paradossalmente, si tratta anche di una stagione di grande fioritura culturale: il mondo letterario nella sua autenticità si sostituisce alle grette leggi di mercato, tra scrittori e artisti si offre reciproco conforto e stimolo, si rinsaldano i propositi creativi. Le persone si incontrano in segreto nelle cucine delle loro case comuni, in piccoli circoli, bevendo vodka e parlando di letteratura come se questa fosse davvero l’unica cosa che possa dare loro la forza di andare avanti.

L’importante è non essere fagocitati dalle fauci dell’oscurantismo sovietico, resistere, e l’unico modo per farlo è affidarsi totalmente alla lingua, credere all’arte come in nient’altro nella vita.

Cos’erano, del resto, gli scrittori agli occhi della polizia politica sovietica se non i peggiori criminali.

 

(nell’immagine un’opera dell’artista della soc-art Leonid Sokov).

 

Il pericolo di scrivere libri

(di Luciano Sartirana)

Più d’uno pensa che la letteratura sia solo un diletto, tutto sommato innocuo… sono passati i tempi in cui un libro coraggioso o idee troppo avanti per l’epoca portavano dei guai all’autore.
Ipazia viene trucidata da fondamentalisti cristiani l’8 marzo del 415 d.C.
Il 7 febbraio 1497, a Firenze, un invasato di nome Savonarola dà fuoco a libri e opere d’arte immorali.
L’Inquisizione ha mandato al rogo autore e libro per secoli. Giordano Bruno è finito così, Galileo Galilei ha rischiato grosso, l’Indice dei libri proibiti dalla Chiesa è esistito fino a poco tempo fa.
Stalin non amava Majakovskij (suicida nel 1930), Mandel’stam (muore in un gulag nel 1938), Babel e Mejerchol’d (giustiziati nel 1940).
I nazisti incendiano i testi degenerati di autori ebrei, omosessuali, socialisti (Zola, Freud, Hemingway, Darwin, Schnitzler, Kafka tra gli altri), passando poi alle persone stesse.
Le dittature militari di Grecia (vietati Sofocle, Tolstoj, Twain, Euripide, Eschilo, Aristofane, Ionesco, Sartre, Pinter, Dostoevskij…), Argentina, Uruguay, Cile (vietato Proust, tra gli altri) proseguono la tradizione.

Era quando eravamo incivili, direbbe più d’uno.
Ma è bene continuare a tenere gli occhi aperti, perché bastano episodi anche minimali per rituffarci nell’intolleranza, nell’ignoranza, nella persecuzione.
Nel 2017 il milanese Domenico Del Coco pubblica Sulle ali del sogno, storia fantasy dell’amicizia fra Arnor, figlio di un brigante cresciuto in un castello magico, e Grethe, figlia del capobrigante rivale; il loro affetto porta la pace alle fazioni; per lettori sui dieci anni.
Succede l’incredibile: un sito fondamentalista cattolico inizia una violenta campagna su web contro questa pericolosissima trama:
http://gianlucacolucci.org/2017/09/07/attenzione-al-libro-sulle-ali-del-sogno/

Un’aggressione sostenuta poi su Facebook da più di un soggetto:
– “I messaggi di quel libro sono satanici. Per tanto non va letto nè da ragazzino nè da adulto.” (notare il “nè”).
– “Non leggetelo, per la salvezza Divina e l’illuminazione di Dio!”.
– “Deve essere censurato e bruciato!”.
– “Questo libro è diseducativo e immorale quanto Harry Potter!”.

Ci si potrebbe anche ridere su: di gente originale ce n’è.
Ma ce n’è anche di gente che dalle parole passa ai fatti, e Ipazia è stata maledetta a lungo a parole prima di essere zittita per sempre.
Qualche fatto è già occorso: pochi giorni dopo la recensione, tre case editrici hanno rifiutato di pubblicare un altro libro di Del Coco, dicendogli chiaramente che era per non avere rogne.
Ieri e oggi, un libro è sempre libertà.