Ottobre Rosso e letteratura

(di Monica Frigerio)

Ricorre quest’anno il centenario della Rivoluzione russa e, qualunque giudizio uno possa avere del bolscevismo, è un fatto che aprì le porte a una serie di eventi e fenomeni che rimarranno incisi nella storia dell’umanità per la forza con cui si imposero e gli obiettivi che ci si prefissò di raggiungere.

Un evento che rimescolò le carte della società nel modo più radicale immaginabile, e – soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’50 – questo è vero anche per quello scompartimento chiamato letteratura.

Anni magici e terribili. Terribili perché, si sa, l’aria che tirava non era delle migliori e per una parola sbagliata (tanto peggio se scritta) potevi morire; magici perché, quando la situazione è tale, non si può fare altro che resistere e l’arte seppe trovare dignitosamente il modo di farlo.

Le specifiche condizioni storiche che si vennero a creare durante l’epoca sovietica determinarono inconsapevolmente la nascita di una stagione letteraria irripetibile durante la quale, forse per la prima e unica volta dopo l’invenzione della stampa, il libro smise momentaneamente di essere un prodotto di mercato per essere altro, principalmente arte in sé per sé, ma anche difesa, arma da taglio.

Le violenze del comunismo sovietico lasciarono dietro di sé milioni di vittime – questo è noto –, ma allo stesso tempo la parola, mai così viva e corporea, si trasformò sia nell’unica possibile arma in grado di fendere il potere centralizzato, dotato di ben altri mezzi di difesa, sia nell’unico possibile scudo dietro al quale rifugiarsi per scordare momentaneamente l’orrore e ritrovare un ricordo di libertà.

Parliamo ovviamente di quel tipo di letteratura che si colloca al di fuori dei confini del cosiddetto realismo socialista appoggiato dal PCUS, le cui “sacre” norme e modelli espressivi vennero decretati e approvati nell’agosto del 1934 sotto l’egida di Maksim Gor’kij durante il primo Congresso dell’unione degli scrittori sovietici. Parliamo di quegli scrittori cosiddetti “clandestini” che non accettarono che le loro opere fossero nient’altro che dei tasselli perfettamente combacianti all’interno del grande puzzle sovietico e dell’immagine che di esso si voleva propagandare. Parliamo di quegli scrittori per cui vivere o scrivere erano sinonimi e se scrivere significava essere condannati alla prigionia, non smettevano comunque di vivere.

Il partito ebbe sempre chiara l’importanza che arte e letteratura potessero avere sulla società, nella diffusione di idee e nella formazione della coscienza del popolo: per questo sin dagli anni Trenta si impose, al fine di avere maggiore controllo sulla cultura, l’unificazione di tutte le associazioni di letterati nell’unica Unione degli scrittori sovietici. Coloro che non aderivano erano considerati sostanzialmente dei nemici, dei paria.

Il clima per i letterati, e la fioritura della cultura in generale, si fece momentaneamente più disteso durante il periodo del disgelo, nonostante tutte le contraddizioni che lo caratterizzarono, in modo particolare dopo il famoso discorso di Nikita Chruščëv al XX congresso del Partito comunista sovietico nel 1956 durante il quale alcuni processi poco ortodossi degli anni Trenta vennero definiti delittuosi. Ma quando Leonid Brežnev subentrò al precedente segretario generale la politica del partito tornò a guardare al passato e questo significò maggiore pressione, controllo, ingerenza negli affari culturali. Durante l’epoca della stagnazione la violenza si fa meno fisica, ma si vieta tutto, per principio, e si da la caccia alla parola in quanto tale, dirà in un suo romanzo lo scrittore Andrej Donatovič Sinjavskij (il cui processo a metà degli anni Sessanta, insieme a quello di Brodskij, rappresentò uno dei casi letterari più eclatanti di quegli anni): “Da molte tempo al KGB non picchiano, ma a furia di fatti – colpi bassi, promesse, inganni, minacce o soprattutto di logica, di logica! si spinge l’imputato verso la redenzione”.

Dunque di fronte a dei cacciatori dal fiuto così fino, gli scrittori non allineati, gli outsider, non possono fare altro che rispondere con altrettanta astuzia e sottigliezza mettendo in piedi un sistema di autopubblicazione, non autorizzata ufficialmente, che spesso assume i tratti dell’impresa eroica: l’universo del samizdat.

Il samizdat (dal russo samsebjaizdat che significa autopubblicazione) è il nucleo centrale della resistenza letteraria russa che, tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Ottanta, permise di far diffondere illegalmente milioni di testi tramite i mezzi più rudimentali possibili, tra fotocopiatrici fatte in casa e incredibili personaggi che potremo considerare dei database umani che memorizzavano centinaia di versi pur di far sì che questi non venissero sequestrati.

Si ragionava, in fondo, come poteva farlo con molta schiettezza il detenuto di un campo di prigionia, dice ancora Sinjavskij: “Loro pensano a come chiavarci otto ore al giorno, l’orario di lavoro. Noi pensiamo a come chiavare loro ventiquattro ore su ventiquattro”. I meccanismi che regolano il samizdat rappresentano una sorta di ritorno all’epoca medievale poiché c’è la percezione, forte, che i propri manoscritti possano da un momento all’altro essere requisiti, bruciati, fatti sparire per sempre, un’instabilità che ha davvero poco di moderno. Nonostante questo, quasi paradossalmente, si tratta anche di una stagione di grande fioritura culturale: il mondo letterario nella sua autenticità si sostituisce alle grette leggi di mercato, tra scrittori e artisti si offre reciproco conforto e stimolo, si rinsaldano i propositi creativi. Le persone si incontrano in segreto nelle cucine delle loro case comuni, in piccoli circoli, bevendo vodka e parlando di letteratura come se questa fosse davvero l’unica cosa che possa dare loro la forza di andare avanti.

L’importante è non essere fagocitati dalle fauci dell’oscurantismo sovietico, resistere, e l’unico modo per farlo è affidarsi totalmente alla lingua, credere all’arte come in nient’altro nella vita.

Cos’erano, del resto, gli scrittori agli occhi della polizia politica sovietica se non i peggiori criminali.

 

(nell’immagine un’opera dell’artista della soc-art Leonid Sokov).

 

Milano raccontata da Luigi Vergallo

(recensione di Nadia Kasa)

Milano frammenti è la storia di un ragazzo; di una piccola banda criminale; di un amore sofferto. Il protagonista è Marco Corbacci, ha trentacinque anni, abita nel quartiere Ticinese e per vivere “si arrangia”. Così come si arrangiano i suoi amici: Francesco e Giovanni. È insieme a loro che progetta i furti. In principio, piccole cose – Marco iniziò con un martello – poi, furti più consistenti. Nonostante la vita in apparenza sbandata, Marco e i suoi amici hanno valori, ideali e un rispetto che li caratterizzano. È questo il focus che convince il lettore a proseguire la lettura: la volontà di vedere che tipo di scelte faranno i personaggi.

La malavita rappresenta, in qualche modo, il demone da cui sono fatalmente attratti i protagonisti. Un demone che consente loro di “tirare avanti”. Ma oltre a questo, si intrecciano anche gli episodi personali. Marco è infatti coinvolto in un amore poco equilibrato, fatto di litigi e conflitti interni. Si percepisce la volontà di stare insieme, ma allo tempo le difficoltà appaiono insuperabili.

Nella storia vengono rappresentati due modelli di realtà. Il primo è il crimine, da cui tutti i giovani e non, almeno una volta nella vita, sono stati attratti, perché accorcia le strade e pare rendere tutto possibile, in primis il raggiungimento del benessere. Tutti noi dovremmo essere dei piccoli antropologi per comprendere da dove nasce tutto ciò: famiglie disgregate, valori sbagliati, violenza, quartieri dove un giovane può farsi un’idea sbagliata del mondo. E poi, quel mondo ti punta il dito chiamandoti: delinquente. Quando invece, è quello stesso mondo che ti ha reso quello che sei. Non è una giustificazione ad azioni sbagliate, illegali, immorali. Ma, tutto ciò porta a una riflessione: comodamente dalle nostre poltrone, puntiamo il dito contro il tale assassino e il tale ladro di borse. Ma è giusto giudicare così, senza remore? Perché qualche volta invece – in modo più costruttivo – non proviamo a ragionare sulle cause che hanno portato a quell’azione?

Il secondo modello di realtà è l’amore malato, sofferto, possessivo, da cui tutti – o quasi – siamo stati attratti, con una forma di masochismo tipica dell’essere umano. Ma questa volontà, di far funzionare le cose a ogni modo, pare caratteristica di generazioni lontane dalla mia, di generazioni abituate alla sofferenza, alla povertà, al bisogno di avere di più. Forse è uno stereotipo o forse una grande verità: sembra che oggi più di ieri, le coppie abbiano l’attitudine a lasciarsi per un nulla. Alla prima difficoltà il palazzetto costruito con leggere assi di legno crolla, talvolta si incendia. E così, ci si ritrova ad avere questo bisogno inesauribile di essere amati, ma si è incapaci, in prima di persona, di amare. Si dimostra un’incapacità di andare oltre le parole buttate a caso in un momento di rabbia o le azioni fatte superficialmente. Questo porta a una solitudine che si ama – più che altro si giustifica – e si odia.

Nella prima pagina di Milano frammenti viene trascritto: i personaggi e i fatti narrati sono frutto di pura fantasia e non hanno alcun rapporto con persone e realtà esistenti o esistite. Ed è vero di sicuro. Ma io ci ho visto solo estratti di realtà.