Pirata di ritorno

(di Federica Tosadori)

Dodici anni che aveva abbandonato la strada di casa. Si strofinò gli occhi poco prima di scendere sul molo, entrambi i piedi ora ben saldi alla terra e un dondolio ormai solo immaginato, ché non te lo levi più di dosso il mare. Ogni grammo della sua carne era salato, come quel manzo in scatola che gli era capitato di trangugiare in qualche isola dove avevano attraccato. Appoggiò le scarpe una davanti all’altra e si ricordò che camminare in un posto conosciuto non è mai la stessa cosa: si prova una sensazione di sicurezza, la certezza che qualcosa di sé possa rimanere per sempre. I suoi compagni gli dicevano che era un pirata troppo romantico per essere allo stesso tempo un contrabbandiere delle onde. Ma lui non credeva che le definizioni che il mondo confezionava potessero essere così definitive. Per anni si era sforzato di corrispondere alla sagoma in cui doveva rientrare, fino a macerarsi il fegato nell’alcool e l’anima nel dolore del rimuginio permanente. Quando si era arreso alla sua natura di malinconie e desideri inesauribili, allora una calma universale l’aveva abitato, e si era accettato. Dunque che dicessero i suoi amici: lui infine si era compreso.

C’era vento quel giorno, e passava tra le casse di pesce appena sbarcato, tra i teli bianchi e le travi delle barche, tra le vele e tra le vene dei pirati arrivati da poco. Ognuno si disperse come goccia tra i vicoli del porto, stradine di pietra e panni alle finestre che parevano dipinti sui muri, così azzurri e secchi di sole. Lui però non vagava a caso in cerca di cibo o di calore, risaliva la strada principale, quella del mercato, negli odori delle cose, del cotone e delle donne del posto. Sentiva il profumo delle colazioni arrivare dalle finestre, caffè e pane fresco. Come in un ricordo proseguiva.
«Tommaso…?»
Una voce titubante lo risvegliò dai pensieri.
«Sì sono io!» biascicò, come se il suono fosse rimasto incastrato tra i muscoli del petto.
«Quanti anni sono… incredibile… non so nemmeno come ho fatto a riconoscerti! Sono Gianmarco!»
«Gianmarco della famiglia dei calzolai? Proprio tu?»
«Io in persona!»
Sorrisero i due uomini e senza indugio si abbracciarono come due vecchi amici.
«Davvero è incredibile vederti ancora, non si immaginava più che saresti tornato! Vai verso casa? Vengo con te, così mi racconti che cosa vuol dire fare il pirata!»

Ma sulla strada di casa Tommaso non aprì quasi nemmeno bocca. La lingua di Gianmarco sciorinava parole, lieto forse di aver trovato un ascoltatore finalmente così tanto attento. Gianmarco disse a Tommaso che in paese erano successe molte cose dalla sua partenza. Morti, nascite, unioni e persino qualche atto di sangue inaspettato. Gianmarco non pensava che un pirata potesse rimanere turbato da racconti di omicidi e assassinii vari, anzi un po’ esagerava nel descrivere i dettagli di tali eventi, proprio perché non voleva essere visto come un povero ingenuo dall’amico ormai cinico e indurito. Non poteva immaginare quanto l’animo di Tommaso venisse rimescolato da questi racconti. Non aveva mai ucciso nessuno nel suo viaggio per i mari, era addirittura capitato che si fosse rotto praticamente tutte le ossa del corpo per poter salvare una ragazza incontrata in un villaggio depredato, che un suo compagno aveva scelto come trofeo di guerra. Era scivolato malamente da un’altezza spropositata, ma lei aveva potuto scappare lontano, non essendosi ferita, protetta dal suo corpo. E mentre se ne stava sdraiato per terra cercando di capire cosa dentro di lui fosse rimasto intatto, i compagni che gli passavano vicino lo deridevano: «Che romanticone il nostro Tommaso!». L’avevano poi trascinato sul vascello ed era rimasto immobile almeno un mese. Per tutto il tempo non fece altro che pensare a quanto fosse strano che ci si potesse rompere ogni cosa dentro e fuori la pelle restare illesa, una gomma isolante, e le ossa mischiate e spezzate come rami secchi sotto. Provò per la prima volta la sensazione di potersi perdere in fantasie strepitose e incredibili, la sua mente fissata all’immagine di suo fratello, lontano.

«Ho paura di tornare a casa.»
Le parole di Tommaso arrestarono il flusso sproloquiante di Gianmarco, il quale si stupì profondamente di questa affermazione.
«Perché?»
«Non lo so.»
«Non credere che sia cambiato molto a casa tua eh…»
«Ah no?»
«No no, anzi tuto proprio uguale. Tua sorella è ancora lì, non ha trovato nessuno che volesse sposarla, tua madre e tuo padre sono ancora in vita, sani e forti come una volta, e lavorano il campo a occhi chiusi ormai. Tuo cugino ancora vuole fare il soldato, e si esercita in cantina con la sua spada di legno. Tua zia si occupa della casa e rammenda le calze di tutto il paese, come una volta. Perfino tuo fratello non è cambiato, come se il suo tempo non corrispondesse al nostro.»

Si salutarono, poco prima del sentiero di ghiaia ed erba secca che avrebbe condotto Tommaso all’uscio. Fu grato a Gianmarco di averlo accompagnato lungo il cammino, ma in realtà avrebbe voluto scoprire tutto quanto da solo, anche se nulla era cambiato. E forse proprio per questo. Ora un’amarezza occulta l’aveva invaso. Fu accolto con il calore più affettuoso che potesse aspettarsi: tutti lo abbracciarono e lo baciarono, contenti come non mai del suo ritorno. Scambiò qualche parola con ognuno di loro, con i genitori che erano stati richiamati dal campo, con la zia dagli occhi lucidi, con il cugino più alto di lui e si stupì della tristezza velata della sorella, che era così bella, impensabile che nessuno avesse voluto sposarla.

Poi finalmente poté recarsi dal fratello.

Si guardarono a lungo, Tommaso seduto, il fratello sdraiato nella sua immobilità di infermo. Non una parola fu proferita. Gli sguardi sembravano dirsi: “Siamo rimasti gemelli, e la tua immobilità sarà sempre la mia, e i tuoi viaggi saranno sempre anche i miei”. Poi Tommaso avvicinò la sua bocca all’orecchio del fratello e gli raccontò ogni cosa vista e provata, annullandosi in quella purezza di vita non vissuta che aveva davanti, che era parte di lui, che era lui stesso. Una primitiva gioia travolse entrambi.