I ricchi di Joyce Carol Oates

(di Monica Frigerio)

“The reality would be hell, but then reality is always hell.”

I ricchi, traduzione italiana dell’originale Expensive People, è il secondo capitolo dell’‘Epopea americana” di Joyce Carol Oates, pubblicato per la prima volta nel 1968 e riproposto quest’anno in Italia dal Saggiatore.

Segue Il giardino delle delizie, primo capitolo della saga, ma da questo si distingue per tecnica e toni, quasi fossero l’opera di due penne diverse.

Dalla drammaticità e linearità di stile del primo, dove la trama è l’elemento fondante di tutto il romanzo, si passa a una noir comedy più à la Vladimir Nabokov, pungente e avvincente, già a partire dall’incipit che recita “Ero un assassino bambino”, efficiente preludio per l’Inquietante a venire.

Ma già l’immagine in copertina ci immerge nello spirito del libro, la cui protagonista incontrastata è l’America wasp (white anglo-saxon protestant) degli anni ’60 con il suo corredo di valori marcescenti che la Oates si diverte a smantellare uno a uno.

Temi già noti, conosciuti, e probabilmente di facile presa sul lettore, ma a cui i grandi scrittori sanno sempre dare nuova vita, in modo in questo caso sorprendente considerata la giovane età dell’autrice al momento della composizione.

Come in molti dei suoi racconti, la Oates va alla ricerca del nucleo fondante di violenza e potere al di là delle loro apparenze, al di là di villette dal giardino perfetto, di collane di perla e party costosi, qui attraverso la voce narrante di Richard Everett, che si auto-introduce da subito come un ragazzo di cui il lettore preferisce non sapere l’età, che pesa centotredici chili, recluso in casa, dove divora tonnellate di cibo per dar voce al suo degrado interiore.

Il romanzo che abbiamo tra le mani, infatti, altro non sarebbe che la messa per iscritto delle sue memorie, il racconto della Disintegrazione della sua infanzia tra scenari più che borghesi, trascorsa osservando minuziosamente i gesticolamenti di due genitori ingombranti e per lui quasi incomprensibili, inarrivabili.

Il padre Elwood, rumoroso, spavaldo, patetico e attraente allo stesso tempo; la madre bellissima, algida, affascinante scrittrice di origini misteriose, Natashya Romanov Everett. Una madre che il fragile, rachitico Richard ama con terrore, senza speranze, cercando di compiacere nelle sue idiosincrasie.

Questo fino a quando l’imbroglio e gli inganni non si palesano, fino a quando verrà compiuto l’unico gesto possibile da parte del figlio.

Una satira grottesca, forse a tratti ancora poco matura, un ingrediente che tuttavia rende la brutalità di ciò che si vuole raffigurare ancora più efficace; che sa sconfinare oltre i limiti della storia narrata per diventare anche un ritratto sociale dell’America di quegli anni.

Ci sembrerà quasi di poter davvero camminare attraverso le vie di Cedar Grove piene di case meravigliose circondate da bianchi steccati, sembrerà di intravedere sorrisi bianchi e smaglianti provenienti da donne con acconciature perfette, di percepire l’aria fragrante e l’atmosfera insicura di quella mattina di gennaio quando tutto ebbe inizio, senza sapere se essere entrati in un sogno o in un incubo, ma con la risposta a sole poche pagine di distanza.

 

 

G. Simenon, La neve era sporca

(di Alice Borghi)

Inevitabile come la primavera, per fortuna torna la voglia di leggere i cari vecchi gialli. E allora subito salta alla mente il nome di Georges Simenon, perché come non si può non pensare al commissario Maigret? Ecco che mi arrampico sulla libreria in cerca di qualcosa da divorare (leggendo) in un pomeriggio di sole, ma niente, di Maigret non c’è traccia. Mi capita invece tra le mani questo volume con una bella copertina rigida e la quarta di copertina è tutto un programma: “il romanzo più dostoevskijano di Simenon”.

Non è un romanzo giallo stile Maigret, è più un noir, un romanzo psicologico alla maniera di Dostoevskij, appunto. Alle volte mi ricorda un po’ I demoni: il protagonista è un ragazzo giovane, ma già uomo, che vuole avere il proprio posto, vuole solo essere, e lo fa lasciandosi trascinare con indifferenza, come Stavrogin, in un crimine mai chiarito, e perciò ingigantito dalla reticenza con cui viene presentato. Alla fine, quindi, il giallo c’è, e quindi non sarò certo io a rovinarvi la sorpresa di scoprirne le vicende. L’atmosfera della prigione e degli interrogatori è proprio quella di Delitto e castigo: un perpetuo oscillare tra timore, nevrosi e risolutezza. Non manca neanche la protagonista femminile, la nuova Sonja angelica, pensiero fisso del novello Raskolnikov.

Però, e non lo dico senza una punta di risentimento, Simenon è una spanna sopra D., è più contemporaneo, meno dogmatico, fortunatamente: niente prospettiva escatologica/salvifica. Alla fine resta solo una patina di disperazione, una grigia sospensione degli istinti, un puro pensare senza oggetto, una nebbia che non può essere dissolta.