(di Alice Borghi)
Inevitabile come la primavera, per fortuna torna la voglia di leggere i cari vecchi gialli. E allora subito salta alla mente il nome di Georges Simenon, perché come non si può non pensare al commissario Maigret? Ecco che mi arrampico sulla libreria in cerca di qualcosa da divorare (leggendo) in un pomeriggio di sole, ma niente, di Maigret non c’è traccia. Mi capita invece tra le mani questo volume con una bella copertina rigida e la quarta di copertina è tutto un programma: “il romanzo più dostoevskijano di Simenon”.
Non è un romanzo giallo stile Maigret, è più un noir, un romanzo psicologico alla maniera di Dostoevskij, appunto. Alle volte mi ricorda un po’ I demoni: il protagonista è un ragazzo giovane, ma già uomo, che vuole avere il proprio posto, vuole solo essere, e lo fa lasciandosi trascinare con indifferenza, come Stavrogin, in un crimine mai chiarito, e perciò ingigantito dalla reticenza con cui viene presentato. Alla fine, quindi, il giallo c’è, e quindi non sarò certo io a rovinarvi la sorpresa di scoprirne le vicende. L’atmosfera della prigione e degli interrogatori è proprio quella di Delitto e castigo: un perpetuo oscillare tra timore, nevrosi e risolutezza. Non manca neanche la protagonista femminile, la nuova Sonja angelica, pensiero fisso del novello Raskolnikov.
Però, e non lo dico senza una punta di risentimento, Simenon è una spanna sopra D., è più contemporaneo, meno dogmatico, fortunatamente: niente prospettiva escatologica/salvifica. Alla fine resta solo una patina di disperazione, una grigia sospensione degli istinti, un puro pensare senza oggetto, una nebbia che non può essere dissolta.