Dove nessuno ti troverà. Alicia Giménez-Bartlett

Si parte da una storia vera.
Dal luglio 1936 all’aprile 1939, la Spagna è devastata dalla Guerra Civile: le truppe fascio-nazionaliste del generale Franco aggrediscono il legittimo governo di centro-sinistra, eletto nel febbraio 1936. Da lì inizia la resistenza, che vede migliaia di volontari stranieri in aiuto dei democratici, i bombardamenti tedeschi su Guernica e quelli italiani su Barcellona (una delizia che ci ricordiamo poco…), le fucilazioni di massa, le violenze private, 500.000 o un milione di morti… la vittoria dei fascisti di Franco, che instaura una feroce dittatura fino alla sua morte nel 1975.

Pochi sanno che gruppi di partigiani hanno continuato la resistenza sulle montagne fin quasi la metà degli anni ’50. Tra questi c’è la Pastora, personaggio di ambigua identità e con una fama terribile. La Pastora ha ucciso 29 persone inermi. La Pastora ha occhi di fuoco, non puoi guardarla. La Pastora vive di rapine e sequestri. La Pastora è invincibile, la Guardia Civil non la prenderà mai. La Pastora vive da sola in una grotta, nemmeno gli altri partigiani vogliono avere a che fare con lei.
La Pastora è un mistero che fa rabbrividire nelle notti più buie.

Nel 1959 – e qui inizia il romanzo e la parte di finzione – un cinico giornalista di Barcellona, Carlos Infante, viene convinto a suon di franchi da un criminologo parigino, Lucien Nourissier, a cercare questa obliqua figura di combattente, per studiare un fuorilegge decisamente eccentrico. Da questo momento il ritmo degli eventi, degli incontri e degli scontri, delle azioni audaci o incoscienti, della conoscenza sempre più profonda di sé e della Spagna diventa sempre più vertiginoso, acre, indiavolato. La Guerra Civile è entrata nella vita di ognuno, e ognuno può essere stato vittima, carnefice, delatore; o lo è ancora. Ogni parola può significare tutt’altro. L’onnipresenza della Guardia Civil e dei torti distribuiti a largo raggio diffonde il sospetto tra le mura, i casolari, i vigneti, le osterie. Tra le famiglie stesse. Arrivare alla Pastora significa attraversare un inferno dantesco mascherato, fatto più di paesaggi agresti che di aggressività manifesta. Ma basta un niente per finire nel niente.

Nonostante la durezza della storia, che ci racconta in modo molto concreto cosa può essere una guerra civile, vi si sviluppa il rapporto fra Carlos e Lucien: solo e arrochito dalla vita l’uno, aristocratico e idealista l’altro, uno scontro assicurato. Il loro continuo duello – nell’attesa di incontrare la Pastora – è agile, divertente, filosofico, maschile, acido, alcolico, bugiardo, amicale, sfacciato, catastrofale. Due cialtroni. Ne succederanno di tutte.
È un viaggio nel profondo di due uomini e nell’intimo di una nazione. Stile piacevolissimo eppure grande (quello che ti aspetti in un romanzo del nuovo millennio) che non ci risparmia niente di quello che è giusto sapere. Lo leggi di un fiato, non smetti volentieri, ci pensi durante la giornata e mentre fai altro.
La Pastora – e qui torniamo a ciò che è veramente avvenuto in quella Spagna – ti aspetta in montagna, con il suo mitra puntato sulla tua fronte.
E non avrai di fronte la persona che ti attendi.

Alicia Giménez-Bartlett, “Dove nessuno ti troverà”, Sellerio 2011.

Un libro – “Mater terribilis”, di Valerio Evangelisti

Cahors (Francia), 1362. L’Inquisitore generale del Regno d’Aragona deve investigare sulla morte di due suoi confratelli; si troverà a combattere enormi sciami di cervi volanti che paiono governati da una mente, anomalie temporali, torbide figure di frati deformi. Soprattutto, la sua lotta sarà contro un’eresia che identifica lo Spirito Santo come figura femminile, o la Madre come quarta figura di una Trinità incompleta.
Sempre Francia, prima metà del ‘400. La guerra dei Cento Anni ha Giovanna d’Arco tra i suoi grandi protagonisti, e c’è una lotta sia francese che inglese contro di lei perché condottiera donna.
Europa centrale, XXI secolo. Guerra fra forze europee e coalizione di mercenari: entrambe le armate sono composte da mutanti ricostruiti in laboratorio, privi di volontà propria e manipolati da allucinazioni elettroniche.

Cosa lega queste tre storie che compongono “Mater terribilis”, di Valerio Evangelisti?
L’Inquisitore generale d’Aragona. Si chiama Nicolas Eymerich, dominicano catalano. Duro, crudele, coltissimo e intelligentissimo individuatore di magia perversa, eresia, nemici della Chiesa cattolica apostolica romana in ogni dove. Fa confessare chi e come vuole. Individua legami che neanche il presunto colpevole sapeva di conoscere. Traccia trame insospettabili e individua guerre sotterranee come nessuno. Condanna, persone e intere città, al sangue e al fuoco. I fili razionali del tomismo e dell’aristotelismo istoriano il suo mondo intellettuale in modo inflessibile e senza che il mondo reale ne possa uscire indenne. Ha familiarità con il represso tormento interiore per i suoi metodi, ma soprattutto con l’attrazione per il dolore – altrui, perlopiù – come per penitenza e austerità. Teme il sentimento, l’arrendevolezza, il contatto fisico. Ha in grande e morboso sospetto tutte le donne.
Eymerich vive nel suo tempo, ma l’influsso dei suoi pensieri e dei suoi metodi travalica i secoli, deformano esistenze, provocano guerre. La mente e la sua rappresentazione – il suo reale ordine divino – sono superiori alla realtà comune. Elementi di pensiero tragico, titanico, violento che viaggiano frattalmente nel tempo. L’eresia è in agguato nel tempo… come non può esserlo il suo maggiore nemico, l’Inquisitore?

La trama, anzi le tre trame, sono d’acciaio, decisamente conseguenti e sempre molto tese e imprevedibili. Thrilling puro. Romanzo gotico con dinamica da fantascienza. Elettroshock narrativo ad alta tensione, come è scritto in copertina. Una scrittura che è un’arma da taglio: non si smette un momento di seguire vicende vertiginose e personaggi atroci. Ma soprattutto non si smette un momento di sentire su di sé gli occhi di ghiaccio di Eymerich, avvertire il suo disprezzo, sperare di non essere beccato neanche un giorno nella vita da un personaggio del genere. Ipotesi invece possibile, perché – se un tempo erano la Chiesa e l’Inquisizione a detenere indagine, accusa, sangue e punizione – gli Stati e le polizie di oggi, i poteri economici e le mafie non sono certo da meno.

Ma Eymerich va ancora più a fondo, non basta esiliarcelo razionalmente nel mondo di certa politica. Eymerich sei tu, sono io, è la violenza che talvolta ci sentiamo dentro, l’odio per le diversità, il risentimento per ciò che non abbiamo e il capro espiatorio che facilmente ci troviamo. La rabbia sottile, l’aggressione strategica, la pulsione di morte, l’attrazione per il dolore inflitti e l’espiazione comminata. La vendetta. La simpatia per il demonio. Non ci si sente del tutto tranquilli neanche con se stessi, a leggere “Mater terribilis”…

Valerio Evangelisti ha scritto dieci romanzi più un racconto dove il protagonista – il Dominus – è l’Inquisitore generale d’Aragona. Perché parliamo di “Mater terribilis” (che non è il primo della serie) come pietra miliare e come ottimo consiglio per conoscere questo autore, se ancora non lo avete frequentato?
Perché in tutto il ciclo la questione, il conflitto centrale è fra l’uomo Eymerich e la donna, il valore dell’emozione e della sessualità inviso all’Inquisizione e da controllare senza sconti, la vita della singola persona contro la dottrina che deve averne sopravvento. Contro una teologia a guida femminile che avrebbe potuto cambiare la storia.
Sei pronto per Nicolas Eymerich?

Valerio Evangelisti, “Mater terribilis”, Mondadori 2003.

Un libro – “Estranei”, di Nadia Dalle Vedove

Una donna e un uomo. Un appartamento, monolocale di lei nella Milano contemporanea, asettica e impenetrabile. Un annuncio sul giornale. Una telefonata e l’incontro. Lei sta traslocando: l’amore finisce oppure non finisce mai?
Un dilemma soggiace alla pièce teatrale. Due estranei si ritrovano per scrivere una lettera d’addio al reciproco partner, in quanto, da soli, non trovano “le parole per dirlo”. I due si interrogano, per capire cosa sia successo all’uno e all’altra. Prendono un tè. La scena è scandita da luci e ombre e dal passaggio di lei sugli scatoloni di casa, in cui sta collocando alla rinfusa gli oggetti, prima di andarsene. Cercano, entrambi, le parole, il linguaggio, accomunati da un “addio” che incalza, deve essere raccontato, sfogato, detto.
Come fare?
I due sono parte di un gioco, che pare spopoli, in cui due perfetti sconosciuti si incontrano per essere l’uno il ghostwriter dell’altra, perché “lasciarsi” non è mai una affare così semplice e scontato. I protagonisti della scena si criticano: lei afferma “ … dentro a questa rete per sfigati: due estranei che si aiutano a scrivere lettere d’addio. Siamo ridicoli, non trova?”.
Il dialogo è incalzante. Si “sente” la rabbia di lei, il sarcasmo imperante, cui fa da contrasto la calma quasi imperturbabile, inizialmente, dell’uomo, sconosciuta e improvvisata presenza nella stanza. A un certo punto la scoperta, l’avvicendarsi di lui che si svela e tutta la scena assume un senso chiaro, esplicito. L’incontro assume il suo vero volto, in un crescendo di scambi verbali crudi, a volte, molto diretti.

Una storia giunge al capolinea, lo si percepisce, ma gli anni passati assieme, i giorni, i ricordi, le resistenze “dell’amore che fu” prendono il sopravvento e trattengono dal dire e dal fare. Il tema diventa allora “come dirlo’”: e se fosse un estraneo a trovare spiegazioni al posto nostro, a sostituirsi a noi nell’ammettere all’altro o all’altra che è tutto finito? Ci toglierebbe un peso enorme, forse, dandoci la possibilità di “non metterci la faccia”, mentre tagliamo i ponti di un legame che, tutto sommato, ci è rimasto dentro, conficcato nel cuore, ma allo stesso tempo si spinge altrove. Ci si accusa di non essere stati sinceri e allora come fidarsi nel momento dei “saluti e a mai più?” I due personaggi vivono una situazione che ci è comune: quanti di noi hanno subìto o causato la fine di una storia d’amore? Come ci siamo sentiti nella parte di chi ha dovuto lasciare o in quella di chi è stato abbandonato?

Avremmo voluto che qualcun altro al nostro posto dicesse quelle parole, prendesse quella decisione? Ci saremmo sentiti meglio o peggio? In questo dialogo, tutto poi si estremizza e appare la fragilità dell’interprete maschile che sceglie un proprio metodo, incapace di argomentare e di costruire vie razionali e dignitose per “perdere”. La crisi della coppia è quanto mai attuale: motivi sociologici, personali, professionali, psicologici stanno alla base di un legame che finisce. Come gestirne le conseguenze? L’autrice sceglie una modalità che lascia il lettore con il fiato sospeso fino alla fine: lo stile è semplice, schietto, sintetico, immediato. Il ritmo è veloce, trasporta il lettore da una sequenza all’altra, favorendo l’immedesimazione. I personaggi sembrano prendere forma, dalle descrizioni del verbale e del non verbale di tanto in tanto accennate. Sono entrambi “uno di noi”.
La descrizione di luci e ombre sul palcoscenico, effettuata con maestria dall’autrice Dalle Vedove, diplomata in Sceneggiatura ed esperta di lungometraggi, catapulta il lettore sulla scena. Un testo attuale, sempre valido, un faro puntato su “fatti di vita quotidiana”, ben dipanato tra un ciò che “sembra” a un ciò che “è” finale. Un’improvvisazione nella più ordinaria delle vicende umane: l’amore con le sue due facce, globalità e rapimento da un lato e, dall’altro, odio e vuoto che lascia quasi senza scampo. L’amore che estremizza e sfida l’Ego in una battaglia non sempre dagli esiti attesi.

(recensione di Maria Cristina Caccia)
Nadia Dalle Vedove, “Estranei”, collana THEATRIKA, Edizioni del Gattaccio, Milano,
2015, pp. 101. Libro euro 14,00; e-book euro 4,20.

Un libro – “Il libro nero”, di Orhan Pamuk

Della Turchia, in fondo, non sappiamo molto. E quello che sappiamo è più vicino a stereotipi da “Mille e una notte” (harem, sultani perfidi, intrighi obliqui, scimitarre) o a ideologie da nemico alle porte.
Orhan Pamuk (Nobel nel 2006) ci mette cinque anni a scrivere “Il libro nero”, il suo romanzo più famoso e profondo, e provvede a sbatterci in faccia la Turchia moderna: un oggi iniziato negli anni ‘20 da Atatürk e sempre a un passo dall’entrata nell’Unione Europea.

Ma a Pamuk non interessa sfatare ciò che noi occidentali sappiamo di loro. Scrive per i turchi stessi, affilando la tesi che neanche loro sanno granché di cosa sono. Risulta emblematico uno dei personaggi – ce n’è una folla – che vivono ne “Il libro nero”: un artigiano di manichini capace di realizzare figure incredibilmente espressive dei turchi tipici… vecchi mestieri, ghigne, modi di atteggiarsi, abbigliamento. Bene: questo genio era fallito presto, i suoi manichini non li voleva nessuno perché appunto troppo turchi, mentre i turchi veri erano angosciati dal fatto di esserlo appunto troppo e di non riuscire a somigliare ai modelli occidentali…!

La narrazione prende spunto dall’avvocato Galip. Torna a casa e non trova più la bellissima moglie Rüya, da tempo insofferente della vita famigliare. Decide di chiedere l’opinione del parente Celal, che conosce entrambi fin da bambini… ma non trova più neanche lui. Inizia una doppia ricerca attraverso una Istanbul dove storia, storie ed epoche paiono sovrapporsi e convivere a ogni girar d’angolo.

Celal non è solo buon parente di Galip, ma un famoso giornalista. I suoi fondi settimanali, da decenni, sono attesi da milioni di lettori del diffusissimo giornale Milliyet. Con ironica serietà, informa sui difetti di tutti, le ambiguità non risolte della storia recente, i modi di dire e di pensare che rallentano una vera presa di coscienza da parte della società turca… l’ammirazione aprioristica per l’Europa, la convinzione di continui intrighi, la presunta onnipresenza del potere (dai sultani ottomani all’odierna polizia segreta) e la necessità di venirne segretamente a patti a costo di diventarne complici… le mille storie di personaggi che intessono il tessuto sociale, le società segrete religiose o esoteriche… il passato bizantino… Celal, l’eroe di tutti ma anche il nemico giurato per alcuni… Celal di cui si dice mandi messaggi cifrati nei suoi articoli, a beneficio o a detrimento di chi sa solo lui… c’è più di un motivo nel fatto che Celal non si trovi più. Ma i suoi pezzi continuano a uscire, ed è molto interessante anche il viaggio in un’opinione pubblica moderna nonostante sia molto giovane, e che lui contribuisce a creare e a difendere.
Naturalmente non è cortese dire se e come Galip ritrovi Celal e Rüya. Di certo – grazie a una scrittura e uno stile grandioso quanto concreto e piacevole – sia noi che i turchi stessi possiamo ritrovare la Turchia più vera.
Uscite di casa – razza di pigri cialtroni dagli occhi annebbiati – e filate subito a comprarvi “Il libro nero”…

Un libro – “A testa in giù”, di Elena Mearini

Gioele è un ragazzo fra adolescenza e giovinezza; vive in un ospedale psichiatrico.
L’equilibrio ufficiale della sua mente si basa sulle pastiglie, sui colloqui con gli psicologi, sulle sue giornate delimitate dalle mura e dalle ore. Il suo vero equilibrio è dato dal silenzio che lui stesso vi frappone, dalla lettura attenta – talvolta divertita, spesso guardinga – delle sensazioni che vive nello spazio di pochi istanti, dagli oggetti contenuti nelle mura e dalle ore, dal cibo, dalla doccia, dalla testa che anche oggi non gli è caduta, da tante altre emozioni rattrappite e da percezioni che diventano colori. Il suo linguaggio interiore: sapori, suoni, odori, corridoi e cunicoli ignoti, persone della televisione. Tutto in ordine finché lui li traduce in un colore.
Il più bello è quello del tuorlo d’uovo, parente stretto del sole, ciò che è più importante.

Maria è anziana – parecchio – e vive sola.
È arrivata alla sua età attraversando i decenni, la povertà, la guerra e il fucile, il quotidiano di una famiglia contadina all’antica, logora di fango e di lavoro umido, di lavoro duro dal momento in cui la bimba si regge in piedi; la cena in pietroso silenzio sotto la luce fioca della cascina d’inverno; il silenzio dell’affetto privo di carezze, di abbracci, di progetti per il futuro; il silenzio ansimante dell’abbraccio violento dello zio Cesco.
Il suo linguaggio interiore è la storia, la sua, che si è fatta strada con fatica nel tempo.

Un giorno Gioele si scoccia delle ore e delle mura, trova un’auto in cortile con le chiavi inserite, mette in moto e se ne va. Una macchina gialla, che viaggio, che colore!
Nello stesso giorno, Maria gira piano la sua pianura, in bicicletta.
A momenti, a un incrocio, il giallo di Gioele la stira.

Restano vivi entrambi, e non solo perché a quell’incrocio nessuno di loro due si è fatto male, ma perché il silenzio dentro di loro finisce. Restano vivi e diventano vivi.
Ogni sguardo, ogni suono esterno, ogni forchetta, ogni marcia cambiata, ogni tuorlo spentosi dietro le nuvole diventa occasione per costruire un ponte e un’intesa. Un affetto che si basa sulle sensazioni più che sui discorsi; ci sono via via più parole orfane, che colorano il passato. La possibilità stessa di essere ascoltati, senza perdere nulla del mondo stralunato che Gioele e Maria si portano dentro.
Solo loro?
Elena Mearini ha scritto un bellissimo libro di possibilità, di affetto per le sensazioni primigenie e scrostate dal vivere medio, di lotta curiosa e tenace della parola sul silenzio.
Con uno stile poetico, unico, inedito, originale.
Guardiamo il nostro tuorlo.
Rubiamo la nostra macchina gialla.
Leggiamo questo libro.

Vacche in fiera. E io lì ad applaudire. Che non dovrei nemmeno.

I suoi ricci distraggono; le sue dita colorate li maneggiano abilmente, ravvivano appendici morte e tutti osservano il miracolo.
Pantaloni a pois gialli palpitano su tacchi a spillo fuori moda e tutti lì, ad applaudire le vacche in fiera con tanto di cocktail alla mano.
Me compresa, che non dovrei nemmeno.
Farei qualsiasi cosa purché sconveniente…
A cent’anni sarò una vecchia molto sola e ispirata.

“Tutti lì ad applaudire le vacche in fiera”. Raccolta poetica di Alessandra Piccolo.
C’è perfino il booktrailer:

https://www.youtube.com/watch?v=eYWCIjSk1Fc


Alessandra nasce il 3 marzo 1984 a Milano, giorno di Carnevale e anno bisestile. Sin da bambina mostra una spiccata propensione per le arti, inventando e scrivendo storie o creando improbabili fumetti dove la grafica lascia molto a desiderare. Ha da subito un cattivo rapporto con tutte le figure autoritarie, con le regole e la disciplina, con l’orientamento, la matematica, gli spigoli, il sole e le api.
Dal 2012 al 2015 fa parte di Carrascosa Project, collettivo di scrittori, e con il racconto lungo “EsseriUmani” ha partecipato al libro collettivo “Latinamerica”, del 2013. Nel 2015 l’avventura continua con Ilbestiario.org. Collabora anche con molte riviste letterarie indipendenti. Finalista lombarda del premio letterario nazionale “La Giara” nel 2013, con il romanzo inedito “Lacrimante cielo”. Frequenta la scuola di recitazione TeatriPossibili, è soggetta a forti sbalzi d’umore. Ha un cane, lavora per vivere, da grande suonerà la batteria.
Ha scritto, scrive, scriverà sempre.

Un libro – “L’amica geniale”, di Elena Ferrante

Elena Greco (Lenù) e Lila Cerullo (Lila) sono amiche fin da piccole, quando erano piccole nella Napoli di periferia dei primi anni Cinquanta.
Amiche forse è eccessivo, almeno a quell’epoca: nei loro primi giochi, Lila aveva buttato l’amatissima bambola di Elena in uno scantinato puteolente. Elena aveva peraltro fatto poi la stessa cosa con la bambola di Lila.
Era un’epoca dove grandi e tremende cose erano appena successe, la guerra e i tradimenti e i fatti di sangue e imbroglio fra molti abitanti del quartiere, una sorta di Mahabarata archetipo e napoletano, ancora molto presente. Una cosmologia terrigna, di viscere, con ancora conti da regolare e che accade con le due bimbe ancora bimbe, come per l’omicidio di un temutissimo personaggio del posto.

Le due crescono; o meglio: Lenù cresce, l’altra resta magra e secca e ben poco attraente per più tempo, pochissimo socievole e poco avvicinabile. Ogni anno passa, ci sono la scuola e i pomeriggi, il loro rapporto si fa complesso: Lila è quella con le proposte più audaci e il piglio già cinico per attuarle; Elena è prudente, anche fin troppo, e ammira il coraggio della socia.

Attorno a loro le famiglie: padre portiere e madre zoppa e con carattere difficile per Lenù; padre calzolaio e in perenne lotta con il figlio maggiore per Lila.
Il quartiere è sempre più affollato da giovani, da sguardi obliqui e di sospetto, soldi buttati per fare la figura migliore con i botti di Capodanno, due fratelli con un po’ più di denaro che fanno i gradassi e peggio con le ragazzine, che portano in giro sulla loro auto non si sa dove.
Fratelli di Elena e Lila più grandi e inquieti e sempre in – quasi sempre inutile – protezione delle sorelle.
Talvolta un salto in centro, giusto per fare a botte con i signorini di via Toledo.

Soprattutto la scuola. Lila pare avere molte più possibilità di Elena e del resto della classe, e per Lenù resta a lungo un modello da inseguire per le letture e – chissà – la scrittura di un romanzo insieme.
Il tempo e l’adolescenza, gli studi superiori che inaspettatamente Lila non affronta cambiano molto il loro rapporto. Elena si rende conto quanto abbia speso per somigliare all’amica, addirittura prevenendone i desiderata. Paiono perdersi, ma sarà Lenù che Lila cercherà nel periodo più significativo della sua giovinezza.

Raccontarne la trama (e questo è pochissimo, succede veramente di tutto) è comunque poca cosa rispetto all’atmosfera di quei tempi e di quei luoghi, i moti e le lotte nell’animo pubblico e privato dei protagonisti, la lotta fra le famiglie per svettare nel prestigio e nei guadagni, gli interessi, gli studi… a unire il tutto uno stile limpido, leggero ma capace di non perdere mai nulla per strada, profondo quando lo sguardo pare volto da un’altra parte.
Il gusto antico della narrazione.
Una bellissima occasione da passare con Elena Ferrante, che scrive con tempi lenti ma che ogni volta vorresti non finire mai la lettura, o che il libro proseguisse per altre migliaia di pagine. Come per fortuna è successo.

Elena Ferrante, “L’amica geniale”, Edizioni e/o, 2011.

Fra poco, il Nobel della Letteratura

Arriva tra poco ottobre.
Oltre che essere il mese in cui – come uccelli tristi – fuggono nubi pazze, si assegna il Nobel per la Letteratura.
Prepariamoci all’evento scorrendo i grandi di ieri.
E chiedendoci, come ogni anno: quanti ne ho letti?

1901 Sully Prudhomme – Francia
1902 Christian Matthias Theodor Mommsen – Germania
1903 Bjørnstjerne Martinus Bjørnson – Norvegia
1904 Frédéric Mistral – Francia e José Echegaray y Eizaguirre – Spagna
1905 Henryk Sienkiewicz – Polonia
1906 Giosuè Carducci – Italia
1907 Rudyard Kipling – Regno Unito
1908 Rudolf Christoph Eucken – Germania
1909 Selma Lagerlöf – Svezia
1910 Paul Johann Ludwig Heyse – Germania
1911 Maurice Polidore Marie Maeterlinck – Belgio
1912 Gerhart Johann Robert Hauptmann – Germania
1913 Rabindranath Tagore – India
1914 non assegnato
1915 Romain Rolland – Francia
1916 Carl Gustaf Verner von Heidenstam – Svezia
1917 Karl Adolph Kjellerup e Henrik Pontoppidan – Danimarca
1918 non assegnato
1919 Carl Friedrich Georg Spitteler – Svizzera
1920 Knut Pedersen Hamsun – Norvegia
1921 Anatole France – Francia
1922 Jacinto Benavente – Spagna
1923 William Butler Yeats – Eire
1924 Władisław Stanisław Reymont – Polonia
1925 George Bernard Shaw – Eire
1926 Grazia Deledda – Italia
1927 Henri-Louis Bergson – Francia
1928 Sigrid Undset – Norvegia
1929 Thomas Mann – Germania
1930 Sinclair Lewis – USA
1931 Erik Axel Karlfeldt – Svezia
1932 John Galsworthy – Regno Unito
1933 Ivan Alekseevič Bunin – URSS / in esilio
1934 Luigi Pirandello – Italia
1935 non assegnato
1936 Eugene Gladstone O’Neill – USA
1937 Roger Martin Du Gard – Francia
1938 Pearl Buck – USA
1939 Frans Eemil Sillanpää – Finlandia
1940 non assegnato
1941 non assegnato
1942 non assegnato
1943 non assegnato
1944 Johannes Vilhelm Jensen – Danimarca
1945 Gabriela Mistral – Cile
1946 Hermann Hesse – Germania / Svizzera
1947 André Gide – Francia
1948 Thomas Stearns Eliot – USA / Regno Unito
1949 William Faulkner – USA
1950 Bertrand Arthur William Russell – Regno Unito
1951 Pär Fabian Lagerkvist – Svezia
1952 François Mauriac – Francia
1953 Winston Leonard Spencer Churchill – Regno Unito
1954 Ernest Miller Hemingway – USA
1955 Halldór Kiljan Laxness – Islanda
1956 Juan Ramón Jiménez – Spagna
1957 Albert Camus – Francia / Algeria
1958 Boris Leonidovič Pasternak – URSS
1959 Salvatore Quasimodo – Italia
1960 Saint-John Perse – Francia
1961 Ivo Andrić – Jugoslavia
1962 John Steinbeck – USA
1963 Giorgos Seferis – Grecia
1964 Jean-Paul Sartre – Francia
1965 Michail Aleksandrovič Šolochov – URSS
1966 Shmuel Yosef Agnon – Israele e Nelly Sachs – Germania / Svezia
1967 Miguel Ángel Asturias – Guatemala
1968 Yasunari Kawabata – Giappone
1969 Samuel Beckett – Eire
1970 Aleksandr Isaevič Solženicyn – URSS
1971 Pablo Neruda – Cile
1972 Heinrich Böll – Germania
1973 Patrick White – Australia
1974 Eyvind Johnson e Harry Martinson – Svezia
1975 Eugenio Montale – Italia
1976 Saul Bellow – Canada / USA
1977 Vicente Aleixandre – Spagna
1978 Isaac Bashevis Singer – Polonia / USA
1979 Odysseus Elytis – Grecia
1980 Czesław Miłosz – Polonia
1981 Elias Canetti – Bulgaria / Regno Unito
1982 Gabriel García Márquez – Colombia
1983 William Golding – Regno Unito
1984 Jaroslav Seifert – Cecoslovacchia
1985 Claude Simon – Francia / Madagascar
1986 Wole Soyinka – Nigeria
1987 Joseph Brodsky – URSS / USA
1988 Naguib Mahfouz – Egitto
1989 Camilo José Cela – Spagna
1990 Octavio Paz – Messico
1991 Nadine Gordimer – Sud Africa
1992 Derek Walcott – Santa Lucia
1993 Toni Morrison – USA
1994 Kenzaburō Ōe – Giappone
1995 Seamus Heaney – Eire
1996 Wisława Szymborska – Polonia
1997 Dario Fo – Italia
1998 José Saramago – Portogallo
1999 Günter Grass – Germania
2000 Gao Xingjian – Cina / Francia
2001 Vidiadhar Surajprasad Naipaul – Trinidad e Tobago / Regno Unito
2002 Imre Kertész – Ungheria
2003 John Maxwell Coetzee – Sud Africa
2004 Elfriede Jelinek – Austria
2005 Harold Pinter – Regno Unito
2006 Orhan Pamuk – Turchia
2007 Doris Lessing – Regno Unito
2008 Jean-Marie Gustave Le Clézio – Francia / Mauritius
2009 Herta Müller – Romania / Germania
2010 Mario Vargas Llosa – Perù / Spagna
2011 Tomas Tranströmer – Svezia
2012 Mo Yan – Cina
2013 Alice Munro – Canada
2014 Patrick Modiano – Francia

Un libro – “Il dio dei viventi”, di Grazia Deledda

C’è un fascino sottile – come ritrovare l’amica conosciuta in una vacanza lontana nel tempo – nel leggere una scrittrice consegnata ormai alle antologie; e, con le antologie, messa a conservare nella teca del monumento letterario, dell’ammirazione rispettosa quanto timorosa, nel novero composto dei ricordi liceali.
Diciamolo pure: chi finisce in un’antologia per le scuole spesso finisce di essere letto.

Ma l’unica nostra autrice arrivata al premio Nobel della Letteratura merita invece attenzione, perché la modernità della sua lingua e la forza dei suoi personaggi sono sempre quelli. La lettura scorre agile, non c’è una parola di troppo o fuori posto, verbi e similitudini vivono di una creatività mai scontata, il continuo passare dall’azione all’interiorità e alla descrittiva di un paesaggio partecipe affascinano, non c’è dubbio, ancora adesso. Grazia Deledda è una di quelle scrittrici che, come diceva Lukács, sono tanto ricche del loro tempo da travalicarlo e mantenere significato anche in tempi successivi. E resta intatto – che poi è quello che conta – il semplice grande piacere della lettura… che senza questo ci si secca e si chiude il libro. Leggere Deledda è molto piacevole.

“Il Dio dei viventi” è stato scritto nel 1922 e narra una vicenda familiare apparentemente semplice. Basilio Barcai è un piccolo possidente terriero dell’entroterra sardo, e ha un figlio illegittimo da Lia, una donna del posto. Basilio muore, e il fratello Zebedeo deve occuparsi dei suoi beni e di ciò che il congiunto ha lasciato in sospeso… tra l’altro, appunto e sfortunatamente, della parte di ricchezze in terre e bestiame che spetterebbero all’adolescente Salvatore, figlio di Lia e Basilio. Zebedeo ha un figlio di 16 anni, Bellia, non particolarmente furbo e sempre propenso a ficcarsi nei guai; ahimé, tutt’altra cosa rispetto all’intelligente e studioso Salvatore, che se aiutato potrebbe realizzarsi bene nella vita… a differenza del rude fratellastro. A Zebedeo ovviamente tutto ciò non piace e tenta di tacitare l’irrequieta Lia con del denaro ogni tanto. Ma le difficoltà di crescere Bellia come si deve, il tarlo della coscienza, il suo egoismo quotidiano che comunque non gli risolve i problemi, lo scontro fra codici pubblici e la necessità di scelte nuove fanno sì che Zebedeo attraversi un arco di cambiamento interiore decisamente imprevedibile all’inizio. Da come considerare se stesso e le sue cose al suo ruolo di genitore.

Ci si appassiona a ciascuno dei protagonisti. Si balla nelle feste e ci si rincorre di notte o in mare con Bellia. Si stringono i pugni e si affilano strategie insieme a Lia. Si gira per le campagne in groppa a un cavallo e ingolfati di pensieri con Zebedeo. Si alzano appena gli occhi in attesa di una tempesta o di una buona notizia, con Salvatore.
Psicologie così precise che potremmo essere noi, ciascuno di noi, perché abbiamo di fronte la grande capacità di Grazia Deledda di conoscere le persone, parlarne in quanto di più vero e di più comune c’è in ognuno, senza nascondere quanto ognuno può essere nobile o gretto. Il tocco leggero di una pittura attraverso la scrittura. La precisione sfacciata di una psicanalisi. La familiarità con il proprio viso allo specchio.

Fino all’ultimo personaggio: una Sardegna cupa ma non nemica, l’abbraccio di una natura che invita in silenzio a badare al sodo dentro e fuori di sé.
Da leggere. Immediatamente.
Non neghiamoci libri e autrici così.

“Il Dio dei viventi”, Grazia Deledda, ed. Il Maestrale

In Adriatico. Ben tredici storie.

“Tredici storie di Adriatico”, di Paola Rambaldi. Le storie si svolgono tutte lungo la costa romagnola del mar Adriatico, o pochi chilometri più indietro.
Vi convivono contesti del passato remoto, come la vita contadina e le sue strategie del ragno; quelli del passato prossimo, con ricchezze recenti e coeve solitudini; il presente con i divertimenti, strade notturne che finiscono in spiaggia ma iniziano dall’Europa dell’Est, voglie balorde, lavoro lavoro lavoro da mettere su a friggere ogni giorno.
Storie di Bassa.
Storie di nera.
Storie di donne nel posto sbagliato, che non possono permettersi crisi di nervi o che l’orlo della gonna rimanga impigliato. Che vanno a dirgliele quattro. Aggrappate a quattro dita.
Che a volte finisce bene. Ma anche no.
C’è anche il booktrailer.

https://www.youtube.com/watch?v=o4cNpTmlvJ4