Un libro – “Il dio dei viventi”, di Grazia Deledda

C’è un fascino sottile – come ritrovare l’amica conosciuta in una vacanza lontana nel tempo – nel leggere una scrittrice consegnata ormai alle antologie; e, con le antologie, messa a conservare nella teca del monumento letterario, dell’ammirazione rispettosa quanto timorosa, nel novero composto dei ricordi liceali.
Diciamolo pure: chi finisce in un’antologia per le scuole spesso finisce di essere letto.

Ma l’unica nostra autrice arrivata al premio Nobel della Letteratura merita invece attenzione, perché la modernità della sua lingua e la forza dei suoi personaggi sono sempre quelli. La lettura scorre agile, non c’è una parola di troppo o fuori posto, verbi e similitudini vivono di una creatività mai scontata, il continuo passare dall’azione all’interiorità e alla descrittiva di un paesaggio partecipe affascinano, non c’è dubbio, ancora adesso. Grazia Deledda è una di quelle scrittrici che, come diceva Lukács, sono tanto ricche del loro tempo da travalicarlo e mantenere significato anche in tempi successivi. E resta intatto – che poi è quello che conta – il semplice grande piacere della lettura… che senza questo ci si secca e si chiude il libro. Leggere Deledda è molto piacevole.

“Il Dio dei viventi” è stato scritto nel 1922 e narra una vicenda familiare apparentemente semplice. Basilio Barcai è un piccolo possidente terriero dell’entroterra sardo, e ha un figlio illegittimo da Lia, una donna del posto. Basilio muore, e il fratello Zebedeo deve occuparsi dei suoi beni e di ciò che il congiunto ha lasciato in sospeso… tra l’altro, appunto e sfortunatamente, della parte di ricchezze in terre e bestiame che spetterebbero all’adolescente Salvatore, figlio di Lia e Basilio. Zebedeo ha un figlio di 16 anni, Bellia, non particolarmente furbo e sempre propenso a ficcarsi nei guai; ahimé, tutt’altra cosa rispetto all’intelligente e studioso Salvatore, che se aiutato potrebbe realizzarsi bene nella vita… a differenza del rude fratellastro. A Zebedeo ovviamente tutto ciò non piace e tenta di tacitare l’irrequieta Lia con del denaro ogni tanto. Ma le difficoltà di crescere Bellia come si deve, il tarlo della coscienza, il suo egoismo quotidiano che comunque non gli risolve i problemi, lo scontro fra codici pubblici e la necessità di scelte nuove fanno sì che Zebedeo attraversi un arco di cambiamento interiore decisamente imprevedibile all’inizio. Da come considerare se stesso e le sue cose al suo ruolo di genitore.

Ci si appassiona a ciascuno dei protagonisti. Si balla nelle feste e ci si rincorre di notte o in mare con Bellia. Si stringono i pugni e si affilano strategie insieme a Lia. Si gira per le campagne in groppa a un cavallo e ingolfati di pensieri con Zebedeo. Si alzano appena gli occhi in attesa di una tempesta o di una buona notizia, con Salvatore.
Psicologie così precise che potremmo essere noi, ciascuno di noi, perché abbiamo di fronte la grande capacità di Grazia Deledda di conoscere le persone, parlarne in quanto di più vero e di più comune c’è in ognuno, senza nascondere quanto ognuno può essere nobile o gretto. Il tocco leggero di una pittura attraverso la scrittura. La precisione sfacciata di una psicanalisi. La familiarità con il proprio viso allo specchio.

Fino all’ultimo personaggio: una Sardegna cupa ma non nemica, l’abbraccio di una natura che invita in silenzio a badare al sodo dentro e fuori di sé.
Da leggere. Immediatamente.
Non neghiamoci libri e autrici così.

“Il Dio dei viventi”, Grazia Deledda, ed. Il Maestrale

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