Lo zoo è un luogo ben preciso, legato a un immaginario lontano, infantile e giocoso fatto di animali divertenti, strani, esotici, che ti stupiscono sia per come sono che per quella vaga espressione umana che paiono avere assunto guardando a loro volta gli umani visitatori. Almeno, questa è la percezione tradizionale dell’infante, del semplice, del passante. Sappiamo invece che lo zoo reale è fatto di animali fuori dal loro ambiente, che non hanno certo scelto di essere lì; non per nulla, in molte città del mondo non ci sono più.
Lo zoo è anche una parola collettiva, che riunisce molti individui in un’unica condizione comune, quella di essere oggetto dello sguardo altrui. Uno sguardo coloniale, di superiorità distratta, di divertimento con garanzia di non identificazione, e di protezione fisica grazie alle sbarre. Una passeggiata su dei complementi oggetto in gabbia. Un gruppo di esseri con biglietto di fronte a un gruppo di esseri senza nome proprio.
“Lo zoo” di Marilù Oliva ci racconta entrambi i gruppi.
In questo romanzo chi osserva e se ne spassa è una quintessenza del potere umano: il potere dello sguardo coloniale su degli “inferiori”, cui corrisponde – fuori dallo zoo – il potere di ciascun individuo su una fetta di società. Ognuno dei visitatori è infatti a capo di un potere: quello politico, quello del bieco controllo poliziesco, quello mafioso del ricatto attraverso la droga, quello dell’arrivismo grazie a sesso a bellezza, quello fondiario; quello infine della chirurgia estetica estrema, cui si deve l’idea di creare lo zoo.
Ma chi è chiuso in gabbia a fini di moltiplicazione dello stupore non è un animale. Sono persone, acchiappate con l’inganno o la violenza e messe sotto chiave perché strane, ai margini della società e della rispettabilità per il loro troppo aspetto fisico (troppo pelo, troppa bassezza, troppa bellezza, troppo mare, troppi anni…). Stranezze che il potere della chirurgia estrema ha o vuole rendere ancora più esplicite affinché i visitatori non si annoino, stupiscano di nuovo, finanzino.
Quando capisci la cosa per intero – dopo non molte pagine, il romanzo è un capolavoro di sintesi – trattieni il fiato perché ci sono persone in balia totale di altre (e già questa non è una bella cosa) e ti preconizzi disprezzo, cattiveria, tortura, morte centellinata.
Ma ciò che dirige gli eventi verso l’imprevedibile è un elemento molto profondo.
I visitatori, quelli che hanno potere lì e fuori di lì, non cambiano, restano se stessi, non hanno né bisogno né sentore di dover uscire dal loro copione ritrito e triste. Il potere è sempre uguale a se stesso, diretto contro chi subisce il potere, soprattutto gli ultimi della società. Sempre uguali sono le sue persone.
I reclusi, gli oppressi hanno invece a loro disposizione l’arma del mutamento. Lottano per mantenersi svegli, capire con la mente, riannodare la propria vita passata e darne comunque un senso. Pensano. E poi, soprattutto: se all’inizio ognuno è chiuso nel suo dolore e nella scelta individuale (tragica od opportunista), con il tempo diventano un gruppo, una piccola comunità disposta ad aiutarsi, a non spegnere i sentimenti e farne nascere di nuovi, fondati su una relazione tra loro.
Un testo complesso per i molti fili presenti, quelli scoperti e quelli sotterranei.
Un libro scorrevole e che non si abbandona facilmente per lo stile asciutto, anche ruvido data la materia, ma sempre denso di attesa, suspence, minuzioso approfondimento psicologico di tutti i personaggi, carnefici e vittime che siano.
Un romanzo da eversione non sospetta, suggerita con passione e intelligenza.
Trovarlo e leggerlo. Subito.
L’ha ribloggato su libroguerrieroe ha commentato:
Recensione di Luciano Sartirana, raffinato editore nonché lettore strepitoso