Carta

Adesso che l’acqua aveva preso i colori del giorno e il cielo era tornato sereno, neanche ci s’immaginava il temporale e lo scompiglio portato fra le strade giusto qualche ora prima.
Attento a non fare rumore s’alzò dal letto e si mise seduto sul bordo; si girò e lanciò un’occhiata veloce alle proprie spalle. In punta di piedi andò verso le persiane di legno. Guardò fuori: il porticciolo era tutto un gremire di barche. Di sotto un cameriere passava con delle teiere sopra un vassoio d’argento che brillava come le pance all’insù delle trote galleggianti fra i legni e la banchina. Sulla sedia fuori nel balconcino, attaccata alla ringhiera, c’era la borsa di pelle che aveva posato il giorno prima. La prese e la mise sulla scrivania, vicino alla televisione. Era ancora umida.
Coprendosi lo sbadiglio con una mano si fissò sulle gambe della moglie che gli stava accanto: i piedi uscivano dal lenzuolo stropicciato, e pure le caviglie, le tibie, le ginocchia. Anche le cosce. Guardandole pensò a come il bastardo gliele avesse prese, in che modo le avesse afferrate, se dai glutei all’ingiù o subito stringendole attorno alla vita. Poi gli venne nausea e cercò nella stanza qualcosa a cui aggrapparsi. C’era il cartello Non disturbare fuori dalla porta; sempre adagio adagio lo tirò dentro, sulla maniglia interna.
Nel silenzio, appena interrotto dal ding dei cucchiaini contro le tazze sulla terrazza, tornò nel letto e cercò di dormire per far venire le nove.

Aprì gli occhi che erano le otto e mezzo o giù di lì. Si alzò di nuovo a scostare le tende: nella stanza entrava una chiara luce azzurra; azzurro il lago e la linea appena visibile di Sirmione, sull’altra sponda.
Se ne stava lì fermo, sull’uscio della finestra, con aria indecisa sul da farsi. Gli era venuta voglia. Quell’ultima dormita gli aveva fatto bene, l’aveva aiutato a liberarsi da certi pensieri. Guardava il corpo mezzo scoperto della moglie. Era sicuro d’aver agito con maturità, d’aver pensato a ogni cosa. In fondo anche la dottoressa gliel’aveva detto: “Portare via sua moglie per qualche giorno non potrà che farla sentire meglio”. Però aveva anche detto che nel giro di poco tempo si sarebbe ripresa, invece erano passati sei mesi. Sei mesi (diamine!).
“È stata solo sfortuna” aveva detto. “Le stia vicino” aveva raccomandato. “Una grande sfortuna” ripeté. “Basta un incontro sbagliato e…”
I minuti passavano. Ormai era completamente sveglio, e aveva una gran voglia.
Vinto dall’impazienza puntò le ginocchia sul letto e si curvò verso di lei, prima accarezzandole la testa, poi scuotendole le braccia. Quella fece un gran sospiro e si strofinò la faccia come a levarsi il sonno dagli occhi.
– Ma che ora è? – disse con un filo di voce
– Quasi le nove – le sussurrò con la bocca sulla guancia. – Dài, alzati. Mi hai detto alle nove ieri, e sono le nove adesso.
– Ma non ce la fai mai a dormire tu? – gli rispose girandosi verso di lui. -Sembri un bambino.
Abbozzò un sorriso e le diede due baci rapidi sul collo; poi col corpo quasi la sovrastò.
– Che fai? – chiese sempre con voce secca.
– Niente. Sta’ tranquilla – disse, mentre con la mano saliva su per la schiena fino a sentire i ganci del reggiseno.
– No, aspetta – disse lei.
– No, no – ripeté lui per gioco, sforzandosi d’essere divertente. Allora dal collo cercò le sue labbra. Quindi iniziò a sfregarsi fra le gambe nude.
– Fermati, fermati!
– Fermati un corno!
Poi gli afferrò la testa e lo allontanò.
– Ma che cazzo! – fece lui a sentirsi prendere da una cosa, un calore che gli saliva su per il petto;
e se lo ricoprì in quattro e quattr’otto insieme alle gambe e pure al resto. Lei gli stava dietro. S’era rannicchiata con la testa sul cuscino; pareva un amalgama con le lenzuola accartocciate, messa così com’era: un po’ coperta e un po’ no nel letto in disordine.
Andò dritto in bagno a lavarsi la faccia. Passava le dita sulla pelle del volto come se volesse tirarla via. Lo fece per almeno cinque o sei volte, fino a quando arrivò a bagnarsi anche i capelli. Poi rimase fermo qualche secondo davanti allo specchio a guardarsi mentre respirava profondamente con le braccia puntate sul marmo del lavabo. Uscì e prese la borsa, rimanendo all’in piedi, con la schiena poco piegata verso il basso della scrivania: le pratiche s’erano quasi tutte deformate a causa dell’acqua che aveva penetrato la pelle. Le tirò fuori con delicatezza. “Merda” fece fra sé, e scosse la testa.
– Hai visto che ho fatto? Sono stato un idiota- disse alla moglie. – Un idiota ­– ripeté. – Questo è perché si hanno tante cose per la testa e…­– e nel dirlo alzò braccia e sopracciglia con espressione divertita e rassegnata insieme. Lei non rispondeva; lo guardò un attimo, poi si coprì e chiuse di nuovo gli occhi. Sotto al lenzuolo formava come una valle.
Con la mano chiusa batteva cercando di far tornare alla normalità quel mucchio di fogli sgualciti: dai pugni passava ai palmi tentando di stendere le gobbe, le pieghe ché ormai rimanevano, e così insisteva, e quelle restavano, allora ci riprovava, inutilmente, ancora…

di Andrea Lionetti