Querebentã de Zomadônu

Querebenta do Zomadonu - per sito

Pagine: 380
Prezzo di copertina:
24,00 euro
Collana: Oxumaré
Formato: brossura
Dimensioni: B5 (18,2×25,7)
ISBN: 978-88-98914-54-8

Il libro è stato realizzato con il sostegno del Ministero alla Cultura / Fundação Biblioteca Nacional e del Ministero per le Relazioni estere del Brasile. La traduzione è della professoressa Luisa Faldini, dell’Università di Genova.

Tra il XVI e il XIX secolo, centinaia di migliaia di africani vengono rapiti dai loro villaggi e portati a forza in Brasile; i sopravvissuti alla cattura sono ammassati nelle stive dei velieri; i sopravvissuti alla traversata sono venduti all’asta al loro arrivo, chiusi in baracche e spediti a faticare per 14 ore nelle piantagioni di cotone e zucchero. Insieme alla loro disperazione, queste persone portano con sé la lingua, le storie, la cultura popolare, danza e musica; e una visione rituale dell’universo dove le divinità animiste africane sviluppano una sincretica convivenza con le fedi cristiane. Parliamo di vodu, e della sua dell’originalissima declinazione presente nella Casa das Minas di São Luís, capitale dello Stato brasiliano del Maranhão.

Riguardo a tutto ciò, informazioni spesso divulgate come immobili e indiscutibili, sottoposte allo sguardo attento dell’antropologo rivelano invece errori, pregiudizi e fallimenti metodologici. Il mito e il rito sono flessibili e adattabili quanto passibili di manipolazione; la religione e la cultura non rimangono congelate in eterno nella stessa forma e nello stesso modo di viverle nel quotidiano. Con questa ricerca, lo stesso metodo di studio segna una profonda e innovativa svolta nella materia.

Il libro  – presentato per la prima volta nel 1983 come tesi di dottorato presso l’Università del Rio Grande do Norte e successivamente approfondito e aggiornato – è la testimonianza personale e sincera di un ricercatore e di ciò che ha potuto osservare, lieto di poter trasmettere il suo sapere e le sue esperienze ad altri dopo di lui.

 

In fon (lingua africana ancora parlata nell’odierno Benin), Zomadonu significa “Non mettere il fuoco in bocca”  e indicava un tohossu, cioè un bambino deforme figlio del re Akaba (1680-1704). Una leggenda vuole che un esercito di tohossus si desse a stragi e massacri, e che vennero fermati appunto da Zomadonu, in grado con i suoi insegnamenti di far emergere il lato buono delle persone. Il suo nome è conosciuto in Africa, ma anche nel vodu di Haïti e nel Maranhão, qui come Tói Zomadônu; in Brasile non ha più deformità fisiche ed il Vodun più importante.

La Casa das Minas si trova nel centro storico di São Luís. Non ha altre case affiliate e i canti sono sempre nella lingua africana Jeje (Mina-Ewe-Fon). Fu fondata a metà dell’800 da una donna africana di nome Maria Jesuína, arrivata in Brasile come schiava. Secondo Pierre Verger, essa era in realtà la regina Agontimé del Dahomey. La Casa das Minas ha una tradizione matriarcale, e solo le  donne possono essere possedute dagli spiriti voduns. Vi vivono tre famiglie principali (la famiglia Davice, legata agli antichi regnanti del Dahomey; i Quevioçô, che restano muti durante la trance; e i Dambirá) e due famiglie ospiti (Aladanu e Savaluno). Ogni famiglia occupa una parte assegnata della casa, ha i suoi specifici canti rituali, attività da svolgere e azioni comportamenti cui attenersi.

 

“Tra i momenti più commoventi cui ho avuto occasione di presenziare in Benin nel 1993, vorrei citare quello a cui ho assistito a Ouidah durante le celebrazioni organizzate in questo posto per festeggiare le antiche relazioni fra Africa a Nuovo Mondo all’epoca del traffico degli schiavi. Tra i partecipanti c’erano anche Sérgio e Mundicarmo Ferretti, accompagnati da dona Celeste, della Casa das Minas di São Luís do Maranhão (Brasile).

Durante la nostra visita al monumento innalzato per questo, sul percorso che collega la città alla spiaggia dove i poveri schiavi venivano imbarcati, dona Celeste ebbe l’ispirazione di intonare alcuni inni di origine africana che aveva conosciuto alla Casa das Minas.

Accadde un miracolo.

La gente di Ouidah conosceva questi canti e si aggiunse in coro a lei, danzando e battendo le mani. Era un reincontrarsi, dopo due secoli, di fratelli e di sorelle che erano allora stati separati.

Quella manifestazione è stata possibile solo grazie ai dettagliati e intelligenti studi di Sérgio Ferretti, lo scolaro che conosce meglio la Casa das Minas. Numerosi ricercatori hanno avuto la curiosità di fare brevi visite a São Luís per studiare la Casa das Minas. Ma Sérgio Ferretti ha avuto la fortuna di vivere insieme a queste persone per anni e anni. Attraverso di lui abbiamo quindi uno sguardo dal di dentro di questa istituzione, che esiste da quasi due secoli. Disponiamo inoltre di uno studio realizzato con acuta intelligenza e coraggio, che restituiscono alla Casa das Minas un’immagine eccezionale quanto simpatica della vita quotidiana al suo interno.” (Pierre Verger)

Estratto

L’introduzione all’edizione italiana (prof.ssa Luisa Faldini)

Nell’agosto 2015 avevo in programma di partecipare in Brasile, a São Luís do Maranhão, al I Simpósio Internacional Brasil e Itália. Cruzamentos  transatlânticos e questões interdisciplinares, organizzato da Henrique de Paula Borralho, della UEMA con in contributo della FAPEMA e la collaborazione, fra gli altri, di Jacarandá, l’Associazione Interdisciplinare Brasilianisti Italiani, di cui sia Henrique che io facevamo parte quali soci fondatori.

In quell’occasione, qualche tempo prima scrissi a Sérgio Ferretti, che non conoscevo personalmente, ma con il quale ero in corrispondenza, chiedendogli se era possibile assistere ad alcune cerimonie del tambor de mina. Ferretti mi rispose positivamente tuttavia, qualche giorno prima della mia partenza per il Brasile, mi scrisse che tutta la parte afro di São Luís era in lutto per la morte improvvisa di Pai Euclides, pai-de-santo della Casa Fanti-Ashanti, grande personaggio della vita religiosa locale e nazionale e che quindi non sapeva se, nel periodo della mia permanenza a São Luís, vi sarebbero stati rituali.

In effetti, quella volta, a parte un tambor de crioula a cui mi condusse Padre Flavio Lazzarin e un altro che vidi casualmente al Reviver, nel centro storico di São Luís, non assistetti ad alcun rituale di tambor; però Sérgio Ferretti e sua moglie Mundicarmo, anch’essa nota antropologa, si offrirono di condurre me e la mia collega Anna Casella a fare una visita alla Casa das Minas, storicamente la più importante e celebre, in quanto la sua fondazione viene collegata con la vita e la schiavitù di Ná Agontimé, madre del re dell’antico Dahomey Ghezo.

La visita alla Casa das Minas fu fonte di grandi emozioni. Per chi si occupa di religioni afro-brasiliane, venire a contatto con le casas madri, che sfidarono i pregiudizi e riuscirono a costruire uno spazio alternativo in cui gli afrodiscendenti potessero vivere secondo le proprie regole, è qualcosa di estremamente importante, che tocca profondamente l’animo.

Ma la visita alla Casa das Minas fu qualcosa di più toccante, che riguardava i problemi che possono incontrare le casa nel loro divenire, fattori che da anni ormai stanno portando la Casa das Minas  verso l’estinzione. Nel passato, diversi studiosi hanno dibattuto questo argomento a proposito della Casa das Minas, molto chiusa e non disponibile a una flessibilità che avrebbe consentito la sua sopravvivenza. Come si evincerà dal volume che qui presentiamo, la rigidità e a volte la mancanza di prevedibilità del futuro hanno portato la Casa das Minas a una progressiva estinzione. Dal 1914 non si è più fatta la feitoria delle gonjaí e di fatto, una volta che le gonjaí esistenti sono via via scomparse, non è più stato possibile dare continuazione alla vita della Casa.

Quando nel 2015 andammo alla Casa das Minas fummo ricevuti da Euzébio, huntó, cioè tamburino capo, che da anni ormai si occupa della Casa, organizzando le feste possibili e che non necessitano della discesa dei vodun e delle tobóssi. Euzébio è trisnipote di una delle fondatrici della Casa, è nipote di Donna Amélia, molto citata in questo volume, e ha avuto un nonno un tamburino. Oggi per lui è difficile organizzare feste nella Casa, benché vi sia ancora in vita una danzante, una sua zia di ottant’anni che, tuttavia, essendo diventata evangelica, non ama partecipare alle feste e incorporare il suo vodum.

Constatai quindi direttamente ciò che paventava già Sérgio Ferretti nel 1985, al momento della prima pubblicazione di questo libro, e cioè la progressiva chiusura di questo centro religioso tanto importante a causa, come mi ribadì nel corso della nostra visita alla Casa e, successivamente, in altre occasioni, sia delle rigide norme vigenti nella Casa, che portavano a una forte chiusura verso l’esterno, sia anche per errori commessi nel passato o per una certa superficialità nel programmare iniziazioni che avrebbero potuto dare continuità a questa tradizione.

Nonostante queste problematiche e quindi della mancanza di una attualità, ho deciso di programmare la traduzione e la promozione in Italia di questo testo, pubblicato per la prima volta nel 1985 in quanto la storia della Casa das Minas ha fortemente condizionato sia i legami tra Africa e Brasile e inoltre perché è stata determinante per l’affermazione della cultura negra nella terra di approdo di tanti africani deportati. Aldilà delle problematiche relative alla crisi della Casa stessa, la sua importanza in Brasile è stata ed è ancora significativa e inoltre, essendo, come pare, la prima casa di religione afro-brasiliana a essere fondata, essa fa parte del coraggioso percorso di tante donne africane rivolto all’affermazione delle religioni afro-brasiliane e alla memoria dell’eredità africana.

Questo volume di Sérgio Ferretti è assolutamente fondamentale per la conoscenza della storia e delle dinamiche non solo della Casa das Minas, ma anche per la conoscenza dei risvolti riguardanti le dinastie fon dell’antico Dahomey e i rapporti che il Portogallo manteneva con questo regno, le cui tradizioni religiose e i cui vodun reali furono trapiantati oltre oceano. Inoltre questo volume è un percorso che in ogni pagina evidenzia l’attenzione per la ricerca di campo e le problematiche che questa comporta nell’ambito che riguarda le religioni iniziatiche. Ricerca che peraltro ancora oggi continua, pur in una Casa oramai consumata quanto a presenze, rivelando, attraverso il tempo, una contiguità con l’oggetto della ricerca, che è esemplare. A Ferretti, dopo Nunes Pereira (1947) e Costa Eduardo (1948), noi dobbiamo la maggior parte delle informazioni sulla Casa das Minas, e questo è un patrimonio di conoscenze sulla cultura negra brasiliana che è estremamente importante conservare e tramandare nonché da far conoscere anche al di fuori del Brasile.

La Casa dal Minas, dal 2002 è stata iscritta nell’elenco dell’Istituto del Patrimonio Storico e Artistico Nazionale, un importante riconoscimento che dà conto dell’apporto che questa e altre casa afro-brasiliane hanno fornito alla storia e all’identità della nazione brasiliana. Ci auguriamo che, aldilà della stretta osservanza della tradizione, che a oggi ha precluso il passaggio di vodunsi da altre casas, in futuro si possa giungere a una soluzione che dia luce e speranza a una storia che deve continuare a vivere.

Sérgio Figueiredo Ferretti

(1937-2018) era nato a Rio de Janeiro e ha vissuto e lavorato a lungo nello Stato brasiliano del Maranhão. Laureato in Storia presso l’Università di Rio e in Museologia, e poi specializzato in Sociologia dello Sviluppo all’Università Cattolica di Louvain (Belgio). Docente di Scienze Sociali all’Università Federale del Rio Grande do Norte, Dottore in Antropologia presso l’Università di São Paulo, Professore nel Programma post-laurea di Scienze della Salute all’Università Federale del Maranhão. Ha fatto inoltre parte della Commissão Maranhense de Folclore. Ha pubblicato libri e ha scritto articoli sulla religione e sulla cultura popolare. La sua tesi di dottorato, Repensando o sincretismo, è stata pubblicata da EDUSP-Editora da Universidade de São Paulo.