Pagine: 240
Prezzo di copertina:
15,00 euro
Collana: Abbey Road, diretta da Davide Verazzani
Formato: brossura
Dimensioni: A5 (15×21)
ISBN: 978-88-98914-10-4
Sub Pop Records: storia di una casa discografica dal 1988 sull’orlo della bancarotta.
Nel 1979, Bruce Pavitt, studente e dj di una college radio di Olympia (Stato di Washington, USA), fonda una fanzine dedicata alle band indipendenti americane e la chiama “Subterranean Pop”, nome che presto viene abbreviato in “Sub Pop”. Alla rivista, Bruce unisce presto l’omonima compilation su musicassetta, e una rubrica su una nota rivista di musica locale.
Nel 1986, Bruce si trasferisce a Seattle e lì pubblica la fondamentale raccolta Sub Pop 100. A lui si unisce il collega Jonathan Poneman e, insieme danno vita a una delle più innovative case discografiche del pianeta, base di lancio del cosiddetto grunge, e che avrà in scuderia nomi come Nirvana, Soundgarden e Mudhoney prima, Fleet Foxes, Iron & Wine, Beach House, e Low dopo.
Un’avventura fatta di genialità, nuovi linguaggi di comunicazione, bancarotta in continuo agguato, drammi personali e collettivi. Soprattutto, una storia che segna la musica degli ultimi decenni.
Questo è il primo libro che ne racconta la cavalcata. L’autrice ha svolto il lavoro di stesura con la piena collaborazione della Sub Pop, avendo accesso a fonti di prima mano e raccogliendo, nel corso di varie visite a Seattle, testimonianze, ricordi, immagini e dettagli inediti.
Estratto
Megan Jasper è seduta per terra, nell’unica porzione di pavimento libera che è riuscita a trovare; sta chiudendo decine di scatoloni con lo scotch. Non si sente a disagio: al contrario, è molto, molto felice di essere lì. È il suo primo giorno di lavoro in Sub Pop, dove è stata presa come intern, figura tuttofare cui spettano i compiti più essenziali e pallosi, tipo, appunto, inscatolare i dischi e spedirli alle radio.
In ufficio, in tutto, ci saranno quattro o cinque persone. Nella stanza accanto, Erika Hunter, responsabile radio e stampa, è al telefono da ore con qualcuno che chiede informazioni sui Mudhoney, come sempre. Lascia note scritte a tutti firmandosi come “Erica Hunter, the manhunter” (“Erica Hunter, la mangiatrice di uomini”).
Megan Jasper è cresciuta a Worchester, Massachussets, 45 minuti di macchina da Boston; una città, dice suo zio, bella solo nello specchietto retrovisore della macchina, quando te ne vai.
L’amore per la musica l’ha proiettata in breve tempo dai Beatles ai Buzzcocks, aprendole le porte del punk, come stile di vita e forma di ribellione. Sua madre e suo padre, entrambi insegnanti, sono persone affettuose, che conoscono l’importanza dell’arte e dell’istruzione; ma hanno avuto grossi problemi legati alle dipendenze, che spesso sfociavano in un insopportabile caos, e che hanno portato a un doloroso divorzio.
Per far fronte al caos di questa “famiglia cattolica e disfunzionale”, Megan si era fatta crescere la cresta, che nutriva e plasmava con dedizione; spendeva decine di dollari al mese in lacca, e nella sua borsetta non mancava mai una bomboletta di Aqua Net Super Extra Hold. Quando entrava nelle macchine, doveva sedersi di traverso perché la cresta sfiorava il tettuccio.
Lacca e dischi: questo era il suo binomio perfetto. Occasionalmente, rubava i vestiti per non doverli comprare, e avere qualche spicciolo in più per alimentare queste priorità.
Ogni weekend che Dio mandava in terra, prendeva un bus per Boston con Maura, sua sorella, e andava a vedere le peggiori hardcore band della zona. Poi, a un certo punto, era diventata amica dei Dinosaur Jr. e aveva deciso di seguirli in tour in qualità di roadie. Sostituiva le corde delle chitarre, e vendeva il merchandising ai baracchini, pagata in nero.
[…]
Oltre ai Mudhoney, c’è un’altra priorità in Sub Pop: la “band di Kurdt”. Ha finalmente trovato un vero nome – Nirvana – e sta per pubblicare l’ album d’esordio, intitolato Bleach.
In formazione c’è Kurdt – ora “Kurt” – Cobain, voce e chitarra, con Krist Novoselic, basso, e Chad Channing, alla batteria; è un ragazzo dalla faccia buffa e le sopracciglia foltissime, e sostituisce il precedente e provvisorio batterista, Dale Crover: il suo è uno stile più secco, più diretto rispetto a quello dei suoi predecessori.
Un primo assaggio dei Nirvana, un pezzo dal titolo Spank Thru, compare nella compilation Sub Pop 200. Nel libretto interno ci sono alcune immagini della band scattate da Charles Peterson a Bainbridge Island, dove abita Channing.
Non era stata un’esperienza memorabile per Charles: avevano preso la macchina, e girato come trottole per ore, prima di trovare il posto più congeniale. In compenso, si erano trovati, lui e Kurt: le loro due timidezze si erano fuse alla perfezione e, alla fine, erano venuti fuori degli scatti dignitosi.
Charles non li aveva ancora elaborati, i Nirvana; li aveva visti un paio di volte dal vivo, ma niente più. Per lui, erano solo strani e inconsapevoli ragazzi di campagna.
La presenza dell’ex batterista Dale Crover aleggia ancora in due pezzi di Bleach: Floyd The Barber e Paper Cuts, prelevati così come erano dal demo registrato nel gennaio 1988, e in seguito remixati e con l’aggiunta di qualche controcoro.
La grafica della copertina di Bleach è frutto del lavoro di Lisa Orth, nota graphic designer e musicista locale, e attivista nella comunità gay-lesbo di Seattle. Un lavoro nato, a dire il vero, da una serie di casualità: la foto di partenza, scattata durante un live della band a Olympia dalla ragazza di Kurt, Tracy Marander, è stata “rovesciata”, come per riprodurre un negativo.
Orth aveva poi chiesto al tipografo della rivista The Rocket, con cui anche lei collaborava, di utilizzare un carattere a caso per la scritta “Nirvana” e “Bleach”. Ed ecco che, senza particolari strategie, era nato il logo della band.
Nella foto, però, è ritratto un quarto elemento: si tratta del secondo chitarrista Jason Everman; una presenza singolare, in quanto, pur rientrando nei crediti di Bleach, non ha partecipato attivamente alle sessioni di registrazione dell’album. In realtà, lui le sessioni le ha finanziate: seicentosei (6-0-6) dollari, di tasca propria, per permettere a quelle canzoni di prendere vita.
Jason ha fatto per anni il pescatore in Alaska e ha messo da parte un discreto gruzzolo; non era stato un problema, per lui, fare un prestito a un amico. In segno di riconoscenza, Kurt aveva quindi deciso di riportare il suo nome in formazione.
I Nirvana non sono più quella band immobile e senza nerbo che aveva suonato pochi mesi prima al Central; si capisce che hanno studiato, provato, e che hanno preso esempio da Mark Arm su come comportarsi sul palco. Ora saltano tutti come palline impazzite, si lanciano in braccio alla folla, si concedono.
Non hanno più paura.
[…]
Una mattina d’inverno del 1992, a casa di Megan squilla il telefono, C’è voluto parecchio caffè per tirarsi in piedi.
Dall’altro capo del telefono c’è Jonathan Poneman.
Non sta nella pelle.
«Ti passo una cosa da fare; so che ti divertirai.»
La cosa da fare è dar retta a un giornalista del New York Times di nome Rick Marin; sta lavorando a uno speciale sulla moda flanellata, e vuole sapere quali sono le parole in voga tra il “popolo grunge”.
«Il popolo grunge?»
È il tardo 1992, sono passati pochi mesi dalla botta di Nevermind al primo posto della classifica di Billboard. Pearl Jam, Alice In Chains e Soundgarden, tutte le teste di serie di Seattle, ora hanno un contratto con una major, e passano in alta rotazione su MTV.
Il giornalista del New York Times vorrebbe che Megan gli snocciolasse alcuni termini ricorrenti nel gergo giovanile di Seattle. Lei ha lavorato alla Sub Pop: chi meglio di lei può sapere cosa indossano e come parlano i giovani grunger?
Non è la prima volta che Megan riceve una simile richiesta; pochi mesi prima, una rivista inglese, Sky Magazine, le aveva chiesto esattamente la stessa cosa; lei allora si era inventata un paio di termini inesistenti, che i Mudhoney, allora in tour in Gran Bretagna, avevano cominciato a utilizzare nelle interviste del Melody Maker.
Tutti vogliono parlare la lingua di Seattle, tutti vogliono vestirsi come ci si veste a Seattle. La città è una torta molto golosa e tutti ne vogliono una fetta.
In pochi, però, sanno cosa c’è dentro quella torta.
Se l’approccio è questo, allora meglio farli fessi, tutti quanti.
Megan ha un lampo di genio: questa proposta idiota può trasformarsi in un’occasione unica. Trova esilarante l’idea di codificare una scena che, fondamentalmente, non esiste.
Senza pensarci due volte, si inventa di sana pianta una serie di termini appartenenti a un finto slang, e ne spiega il corrispettivo in lingua corrente:
WACK SLACKS: vecchi jeans sdruciti
FUZZ: maglioni di lana pesante
KICKERS: anfibi
SWINGING ON THE FLIPPITY-FLOP: uscire e divertirsi
BOUND-AND-HAGGED: stare a casa di venerdì o sabato
SCORE!: eccezionale!
DISH: maschio desiderabile
COB NOBBLER: sfigato/loser
LAMESTAIN: individuo non-cool
BLOATED / BIG BAG OF BLOATATION: ubriaco
TOM TOM CLUB: gruppo di esclusi
ROCK ON: un felice arrivederci
Il 15 novembre del 1992, l’autorevole New York Times esce con un articolo, a firma del giornalista Rick Marin, dal titolo: “Grunge: una storia di successo”. Un’accurata ricostruzione del fenomeno di Seattle, analizzato dal punto di vista dell’abbigliamento, che si chiude proprio con il famigerato “grunge lexicon”. “Tutte le sottoculture parlano con un linguaggio in codice” – recita l’introduzione; “Megan Jasper, venticinquenne, addetta alle vendite di Caroline Records, ci ha rivelato quali sono le parole del grunge. Presto nelle scuole e nei supermercati vicini a te”.
Un paio di mesi dopo, un giornalista della rivista The Baffler rivela che il grunge lexicon è una montatura: Megan riceve una telefonata dalla direttrice del New York Times, che, infuriata, la aggredisce per aver mentito.
Una punk del Massachussets ha preso per il culo la più autorevole testata d’America, rovesciando come un calzino quell’odiosa tendenza che vuole Seattle la nuova New York.