Milanconia

L-Milanconia

Pagine: 105
Prezzo di copertina:
14,00 euro
Collana: Narrative
Formato: brossura
Dimensioni: A5 (15×21)
ISBN: 978-88-906391-8-0

Samuele, un ragazzo introverso, è impegnato in un videogioco di guerra: deve uccidere il Cinese e passare di livello. Samuele fa il filo a una donna bellissima e più anziana di lui, MGT, manager della Uno. La Uno è in crisi per una storia di tangenti: cosa sa MGT?

Benzemà – ingegnere chimico di suo e muratore clandestino qui – conosce Junior e lo avverte di non prendere la metrò domani.

Samuele lascia in giro per la città manifestini contro gli anziani, firmati CG (Contrasto Generazionale). Samuele e altri suoi giovani adepti del CG aggrediscono degli anziani sul tram. Samuele ha ricevuto per sbaglio gli sms di MGT e la ricatta.

Gira la voce che una bambina latinoamericana – la Niña – si aggiri da sola nelle gallerie del metrò.
Dove, in un giorno affollato…

Estratto

Nella 90
Vedi i corpi, senti gli odori, ascolti le voci.
Nella 90
vedi i corpi del mondo
tutti i corpi del mondo.
Corpi che desiderano corpi.
Occhi che scorrono su altri corpi
centimetro per centimetro.
Nella 90
non c’è che desiderio.
Nella 90
ci sono due ragazze.
Bionde, truccate
nude quanto posso esserlo
belle, quanto sanno di esserlo.

Siamo la Vienna di fine Impero, gli ultimi ellenisti, Berlino in attesa dei russi.

“Capo?”
“E che cazzo, Benzemà! Cosa vuoi ancora?”
“Non capisco, capo.”
“Cosa cazzo non capisci?”
“Non capisco… lui aveva contratto, no? Tutti noi abbiamo comunque contratto, no? E allora perché non hai chiamato ambulanza?”
“Vedi che sei uno stronzo? Avete tutti un contratto solo per quel giorno, chiaro? E comunque questo è il terzo che ci rimane in due mesi. Se chiamiamo l’ambulanza è la volta buona che ci mettono tutti dentro, me, te, tutti gli altri amici tuoi. Ci fanno chiudere tutto quanto, io mi trovo in un mare di guai e tu te ne devi tornare nel tuo cazzo di Paese.”
“Per questo non lo devono trovare?”
“Per questo non lo devono trovare. E adesso Benzemà stattene zitto o giuro su dio che apro la portiera e ti butto fuori.”
Non fiatò più.
Di lì a poco lasciarono quella strada e ne presero una più stretta. Dopo un po’ una ancora più stretta. A un certo punto si trovarono davanti a dei grandi capannoni e lì si fermarono.
Un’altra auto li stava aspettando.
Il capo fece un segno con i fari della macchina e i fari dell’altra macchina si accesero due volte. Allora il capo scese e gli disse di fare lo stesso.
Aprirono il bagagliaio.
Il sacco era pesante, ma fecero in fretta quel che si doveva.
Risalirono in macchina.
Allontanandosi vide nello specchietto due uomini scendere dall’altra macchina, avvicinarsi a quello che avevano scaricato.
Poi il capo prese una strada a destra e lui non vide più nulla.
Si lasciavano la grande città alle spalle. Stavano tornando a casa.
Adesso il capo era molto più rilassato, per la prima volta fu lui a rivolgergli la parola.:
“Ehi, Benzemà, senti un po’…”
“Sì capo?”
“Il tuo amico… è vero che quello era un ingegnere?”
“Sono io l’ingegnere, capo, ingegnere chimico.”
“Ah, davvero? Non si direbbe, non si direbbe proprio! Eh! Eh! Beh, ingegnere, preparati a vedere un bel po’ di fica, che al ritorno facciamo la Paullese…”

Recensioni

Intervista su OMNIMILANOLIBRI, 04 agosto 2014

Nostra intervista a GIUSEPPE NORBIG, 12 aprile 2013
Narrare la città e quelli che ci stanno

Quando hai iniziato a scrivere con intenti letterari?
Difficile parlare di intento. Durante le ferie estive tra le medie e le superiori avevo letto Hemingway, i “39 racconti”, e ho scritto alcuni brevi racconti copiandone spudoratamente stile e struttura. Negli anni del ginnasio sempre racconti, tra il surreale e l’iperrealista. Alla fine del liceo il primo romanzo: era naturalmente pieno di ingenuità e rabbia adolescenziale, ma è stato il primo lavoro che avesse una minima complessità e originalità.

Perché scrivi? Quali temi ti attirano?
Scrivo perché credo nel potere della narrazione, del racconto, che rimane uno strumento estremamente attuale di conoscenza di quello che ci circonda. Mi interessa la contemporaneità e il modo in cui le persone decidono di starne dentro o fuori.

Come è nato “Milanconia”?
“Milanconia” nasce su un desiderio, quello di raccontare una città che per me fa fatica, oggi, a essere raccontata e a raccontarsi. Nasce intorno a dei nuclei, a delle immagini che prevalentemente sono quelli che danno nome ai capitoli (paura, traiettorie, esplosioni, etc.). Nasce perché una donna, un uomo, qualcuno incontrato per strada, anche solo uno sguardo o un gesto mi hanno suscitato il desiderio di provare a scriverne la storia. Nasce infine, naturalmente, dalla mia storia personale.

Da quando lo hai scritto, Milano è cambiata?
Non saprei. I processi di cambiamento di una città credo siano in genere molto lenti e che lo spirito di una città sia qualcosa di estremamente duraturo. E, d’altra parte, Milano dà l’impressione di essere perennemente in bilico, tra lo splendore e la rovina, come se in un attimo potesse sorgere o sprofondare.

Dormi tranquillo quando scrivi un libro?
Quando scrivo sì. Quando penso a quello che scriverò la notte insonne è quasi automatica.

Cosa e chi leggi: i tuoi punti di riferimento per tematiche e stile…
Leggo di tutto, a volte scegliendo in modo abbastanza casuale e istintivo, a volte concentrandomi su un autore e leggendone l’opera completa, ma faccio fatica a collegare quello che scrivo con quello che leggio. Sicuramente sono stato influenzato da “Pastorale americana”, “La coscienza di Zeno”, “Cuori in Atlantide”, “I miei luoghi oscuri”, “Doktor Faustus”, “Le avventure di Huckleberry Finn”, “Q”, “Le operette morali”, “L’arcobaleno della gravità”, “Le cosmicomiche”, “Il signor Mani”, “Tristram Shandy”, “Milano Calibro Nove”, etc. ma ritengo importantissimi anche libri non di narrativa come “Modernità liquida”, “Armi, acciaio e malattie” o “Cultura convergente”.
Tra tutti, se dovessi scegliere un libro che vorrei aver scritto, allora direi “Infinite jest” di David Foster Wallace.

A cosa serve oggi la narrativa, rispetto ad altre forme del racconto sociale?
Credo che la narrativa sia lì a giocarsela con gli altri, con la sua specificità, che mi sembra essere quella di essere una forma tendenzialmente povera, lenta, semplice, ma che da queste caratteristiche trae la sua irraggiungibile potenza evocativa. Detto questo, oggi chi scrive (come chi fa i film, chi dipinge, etc.) è immerso in un mondo di narrazioni e non credo sia possibile né giusto cercare di difendersene, soprattutto da quelle più mainstream.

Giuseppe Norbig

39 anni, vive e lavora a Milano.

Non scrive per diletto, né per passione, ma per dura necessità.

Dopo essersi cimentato con un Bildungsroman e alcuni racconti noir ha deciso di raccontare una città, la sua città.

“Milanconia” ne è il risultato.