Dicono che qui s’incontra Dio

Dicono - COPERTINA

Pagine: 90
Prezzo di copertina:
12,00 euro
Collana: Viaggio e nomadita’
Formato: brossura
Dimensioni: A5 (15×21)
ISBN: 978-88-906391-35-7

Dalla prefazione
di Tito Squillaci, dell’Associazione Ellenofona Jalo’ tu Vua, Bova Marina (RC)

[…]
Quando si parla della nostra cultura, è quasi inevitabile sottolineare lo spirito di ospitalità che ci caratterizza, e non è retorica.
Ricordo che una sera aspettavamo a Bova Marina un gruppo di greci e ciprioti, almeno sei o sette persone. Andammo ad accoglierli all’aeroporto di Reggio, ma per problemi di sdoganamento dei bagagli perdemmo alcune ore… e, arrivati in paese all’una di notte, trovammo l’albergo dove avevamo prenotato ormai chiuso. Come fare con gli ospiti a quell’ora? Cercando disperatamente un posto dove farli alloggiare pensammo a Totò Mauro che, svegliato nel pieno del sonno, si alzò dal letto e accettò volentieri di ospitarli per la notte.

Anziché una notte, poi, gli ospiti rimasero a casa sua per tutto il tempo della loro permanenza a Bova Marina, che fu di una decina di giorni. Tra loro egli ritrovò Giorgio Alexandrou, angeli mi ndavi, che aveva conosciuto anni prima (sempre per problemi di ospitalità): la persona che, con un legame sincero, solido e profondo, avrebbe influenzato e cambiato radicalmente le sue esperienze e scelte future, aprendo al suo spirito frontiere inaspettate.

[…]
Attraverso Giorgio, Totò entrò nel mondo di quella che per i greci odierni, di ogni nazione, è la  romiosìni, l’esperienza spirituale bizantina che ancora palpita in luoghi e persone nei più svariati angoli del mondo, dalla Grecia a Cipro e alla Calabria, dalla Serbia alla Russia, all’America, all’Alaska… Della romiosìni Totò fece tanto esperienza fisica, geografica, visitando e vivendo svariati luoghi e realtà culturali e storiche; quanto spirituale, attraverso rapporti con persone e comunità vive, prima ancora che attraverso i luoghi monastici, se pure di grande spessore.
Fu questa la via che lo Spirito scelse per riportare Totò “a casa”. […] Personalmente, vedo in questo un frutto della millenaria esperienza spirituale bizantina del popolo greco-calabro, evidentemente non ancora spenta. Dal punto di vista culturale, colgo anche il senso della grande battaglia, condotta da oltre mezzo secolo ormai, per salvare la lingua greca di Calabria e, con essa, la nostra identità più antica.

La lingua greca, infatti, è stata abbandonata dai nostri vecchi nella radicata convinzione che essa costituisse un ostacolo al progresso sociale dei giovani e al loro inserimento nel mondo scolastico e lavorativo, per l’idea che essa potesse chiudere i loro orizzonti con le capre dell’Aspromonte. L’esperienza di Totò, così come quella di tanti di noi, dimostra proprio il contrario: il nostro greco ha costituito una porta che ci ha immessi in un mondo ricco di valori e cultura, che ci appartiene e al quale apparteniamo. Non ha ristretto i nostri orizzonti culturali e sociali, ma li ha dilatati e arricchiti.
Vedo, dunque, una lingua greca della Calabria che, pur nella sua piccolezza e difficilissima situazione, è ancora capace di donare respiri di vita a chi le si avvicina con rispetto e amore.                               

Estratto

Partimmo col potente fuoristrada in direzione sud-est, verso Limassol. Ci fermammo presso gli scogli dove, secondo la mitologia greca, Afrodite sedusse e fece l’amore col dio della guerra Ares. Incantati e rigenerati dalla vista di un luogo così bello, ritornammo indietro, in direzione nord-ovest.

Fin da ragazzo avevo sentito parlare delle banane cipriote. Ma questa volta mi trovavo realmente a percorrere in macchina chilometri e chilometri in mezzo a piantagioni di quest’esotico frutto. Pregai Marina di fermarsi per darmi la possibilità di scendere, e mi incamminai in mezzo ai banani, per osservare da vicino i grossi caschi. Camminai un bel po’ in mezzo a quei tronchi lisci e dalle grandi foglie che ondeggiavano delicatamente, soffiate da un leggero vento orientale. Di tanto in tanto mi fermavo per vedere se ci fosse qualche casco maturo; ne trovai uno, non ebbi la forza di resistere e ne strappai una tra le più gialle, la sbucciai e la mangiai con molto gusto. Non so se fu un furto!

Mi venne in mente il mio paesello, quando con gli amici, un po’ per fame e un po’ per gioco, andavamo a rubacchiare la frutta ai contadini. I miei amici d’infanzia mi seguivano sempre nei miei viaggi, la loro presenza è ancora indelebile dentro il mio cuore, con tutto il suo carico di ricordi, affetti, emozioni: la fame, i piedi scalzi, malvestiti, etc…

Ma, malgrado le ristrettezze economiche, ricordo sempre quanto riuscivamo a essere felici. Ci erano sconosciuti i giocattoli industriali, ma ne costruivamo con le nostre mani: le carrozzelle e i monopattini di legno, le fionde, u faddu di pezza, grande foglie di agave come slitta per scivolare sulle colline di argilla a ridosso del paese, grandi massi di pietra liscia come scivolo e i bei giochi che oggi non si usano più: u battimuru, u riganeddu, a fossitta, u campanaru, agguardativi, i cciappi, spacca e riga… Spesso, magari solo per un banale errore di pronuncia, a ognuno di noi si affibbiava un soprannome. Mi vengono in mente quelli dei miei amici più vicini: Ciocciu, Pirricìu, Carrozza, Grìnciu, Pitalaru, Sciarra, Ragnu, Spagnoletta, Sciddu, Sciorta, Caramellaru, Carrabbòmpulu, Musulinu, Sabbu, Ndrà ndrà

A bande scorrazzavamo intere giornate per le colline intorno e nei verdeggianti giardini d’agrumeti delle vallate delle fiumare, a rubare le arance, i mandarini, i fichi, i melograni, o alla ricerca dei nidi d’ape per succhiare il dolcissimo miele selvatico, con le inevitabile punture dei piccoli insetti, che giustamente cercavano di difendere il loro lavoro.

Per ore chinati sull’erba a cercare i dolcissimi baccelli di carrauci, o i teneri fili di un’erba chiamata pila vecchia, o di altre erbe, raetta, sculimbri, zucca… E, nel mese di luglio, ore e ore sulle piante di more nere a riempire le nostre vuote pance di sanguinanti e succulenti frutti.

Il parroco della chiesa dell’Immacolata che ci accoglieva sempre, le manciate di caramelle, quel prezioso fico d’india sbucciato per non sfuggire al catechismo, l’avvicinarsi del Natale, le novene mattutine, la messa di mezzanotte, le bombette della miscela di zolfo e clorato di potassio, l’arrivo della santa Pasqua, la lavanda e il bacio dei nostri piedi nudi, l’attesa della Resurrezione… Mi ritornava in mente il mio attaccamento alla chiesa, la tunica bianca di chierichetto di quando servivo la messa, la forte vocazione di farmi prete.

Nella riflessione pensavo che allora Dio fosse più vicino all’uomo, o che forse era l’uomo a essere più vicino a Dio. Ci fosse o non ci fosse Dio non lo so, ma è certo che la vicinanza del prete e il frequentare la parrocchia è stato fondamentale per la nostra educazione e per la nostra crescita umana e sociale.
Un turbine di pensieri si accavallava nella mia mente.
E ai miei occhi appariva il mare.

Antonio Mauro

E’ nato e vive a Bova Marina (RC) il 3 maggio 1944.
Di famiglia proletaria, frequenta fin da ragazzo la Camera del Lavoro e si iscrive alla Federazione giovanile socialista. Dopo l’ingresso del PSI nel governo (1963), Mauro passa alla FGCI.
Nel frattempo emigra nel Nord Italia per lavoro; tornerà in Calabria molti anni dopo.
Dal 1973 al 1976 ha diretto la Camera del Lavoro della sua cittadina. Nel 1988 è stato eletto consigliere comunale, occupandosi soprattutto di ambiente.In quegli anni inizia a scrivere, ed escono i libri Stidda, Ciccu Baccu e Non mi fai paura. Testi che – con una prosa asciutta ed efficace – narrano l’ambiente umano, le condizioni e le speranze che hanno animato nel dopoguerra il mondo contadino meridionale e le lotte operaie a Milano, che ha conosciuto per esperienza diretta.
Nel 2012 ha pubblicato il romanzo Distruggi questa gabbia (Edizioni del Gattaccio).