Chiamarsi Optì Pobà

L-Chiamarsi Opti Poba

Pagine: 120
Prezzo di copertina:
14,00 euro
Collana: Racconti di sport
Formato: brossura
Dimensioni: A5 (15×21)
ISBN: 978-88-98914-22-7

Il libro racconta l’esperienza umana e sportiva di una squadra di calcio composta da richiedenti asilo e che ha sede a Potenza.

C’è una palla che rotola, certo. Ma – soprattutto – c’è lo straordinario racconto di vite vissute (pericolosamente, poveramente ma con grande fierezza), narrate in prima persona e con dettagli incredibili eppure veri, e ben al di là dell’idea generica che ne abbiamo dai media. In Basilicata l’idea piace, qualcuno inizia a dare una mano e – quando in campo compare il pallone – lingue nazionalità e fedi si mescolano felicemente. La squadra è iscritta a un regolare campionato e vanta buonissimi risultati..

Le situazioni tremende quanto assurde che li ha fatti decidere di partire, i rischi che ciascuno di loro ha corso per arrivare in Italia, le difficoltà e l’ostracismo della burocrazia non hanno scalfito la loro determinazione e la loro voglia di giocare. Sono calciatori corretti, non meriteranno mai l’espulsione. Che, nel loro caso, avrebbe un significato terribile.

Aspettano solo il fischio d’inizio.

Optì Pobà vuol dire scommettere su un futuro migliore, dove non ci sia posto per una cultura della discriminazione. Scommettere che le nuove generazioni possano essere migliori di chi le ha precedute ed evitare i loro stessi errori. Scommettere che l’ignoranza alla fine perde.

Optì Pobà ci mostra i goal, fragorose strette di mano, cinque battuti con forza. Un continente maestoso come l’Africa condensato in quattro mura di uno spogliatoio, o racchiuso da quattro linee di delimitazione di un campo di provincia. E come giocano…

Optì Pobà è un’associazione che opera anche fuori dal rettangolo di gioco, attraverso un centro di accoglienza, campagne di sensibilizzazione e inclusione, la creazione di scambi a fini di arricchimento reciproco; e nell’assistenza nei documenti e nelle opportunità. Un muro indistruttibile contro le ruspe dei giorni nostri.

Il calcio è un ottimo strumento per veicolare messaggi. Un calcio giocato ogni settimana lontano dai riflettori, dalla violenza e dal business; fatto di persone, di storie, ma anche di impegno civile, di integrazione, di educazione ai valori della vita. Il calcio per cui possiamo ancora emozionarci.

Il centro ospita 130 richiedenti asilo. 70 di loro decidono di partecipare al progetto della squadra e il proprietario della struttura concede gratuitamente l’utilizzo del campo e degli spogliatoi.

Trovare il nome era stato facile.

Carlo Tavecchio, presidente della Figc, aveva detto: «Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco sono un altro. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Invece noi in Italia diciamo che Optì Pobà è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così… in Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree…».

Estratto

Nel nome del padre
di Sunday. Nigeria, 28 anni. Vice allenatore Optì Pobà

In molti Paesi dell’Africa subsahariana, animismo e forme ancestrali di spiritualità sono molto radicati nel tessuto sociale, nonostante il colonialismo (anche religioso) delle potenze europee e l’influenza islamica sempre più pressante.

Figlio unico dello sciamano di un villaggio nei presi di Benin City, Sunday perde la madre all’età di sei anni. Un dramma che segna una svolta nella vita della sua famiglia. Il padre infatti, sopraffatto dal dolore per la morte della moglie, inizia a interrogarsi sui suoi poteri, sul ruolo che gli viene riconosciuto, sul suo rapporto con il villaggio, ma soprattutto su se stesso. Domande a cui la cultura animista non riesce a dare risposte e la profonda crisi spirituale che attraversa lo porta a convertirsi al cattolicesimo.

Gli abitanti del villaggio, però, non gli consentono di abbandonare il suo ruolo di guaritore per cui è costretto a continuare la sua attività di sciamano fino alla morte, nel 2010, senza poter ufficializzare la sua conversione. Ma questo non gli impedisce di educare il figlio alla religione cattolica, e prima di morire, raccomanda a Sunday di non intraprendere la sua strada di guaritore, ma di perseverare nella fede cristiana.

«Avrei semplicemente voluto rispettare le volontà di mio padre e continuare il mio cammino di fede, ma per gli abitanti del villaggio era inconcepibile che io non prendessi il posto di sciamano che apparteneva di diritto alla mia famiglia. Al mio rifiuto sono stato cacciato e privato di tutti i beni ereditati da mio padre, che sono stati requisiti e divisi fra le famiglie importanti della comunità. Sono quindi stato costretto a trasferirmi in un villaggio vicino, dove ho iniziato a lavorare come contadino. Da solo mi occupavo di quattro ettari di terreno dove coltivavo pomodori, peperoni, granturco, pepe, spezie che vendevo a commercianti che portavano i prodotti in città o a clienti che compravano direttamente da me.»

Della famiglia di Sunday non resta più nessuno. Solo, in un villaggio sconosciuto, cerca di ricostruire la sua vita. Per due anni la sua esistenza scorre tranquilla assorbita dal lavoro nei campi. È una quotidianità fatta di fatica, impegno, poche relazioni se non con i clienti con i quali ha contatti… ma è quello che a Sunday serve per essere sereno.

Finché nel 2012, nel villaggio di origine, viene nominato il nuovo sciamano. Una soluzione che dovrebbe finalmente tranquillizzare gli abitanti e sciogliere definitivamente le tensioni, ma non è così. Il nuovo sciamano ritiene infatti che Sunday sia troppo vicino e che la sua presenza possa rappresentare una minaccia per lui: teme che possa essere messo in discussione il riconoscimento dei suoi poteri e il suo stesso prestigio da parte della comunità. La questione viene portata all’attenzione dei capi dei due villaggi che si consultano e concordano che Sunday debba essere allontanato.

«Sono stato obbligato a lasciare quella che ormai era diventata casa mia. Ho preso un autobus per raggiungere Agadès, in Niger. Eravamo in 200 a bordo, c’erano persone sul tetto, nei bagagliai, nei vani delle ruote di scorta, abbiamo viaggiato così per quattordici giorni. Da lì ho viaggiato per altri cinque giorni fino ad arrivare a Tripoli dove ho conosciuto l’unica persona che mi ha aiutato, l’unico amico che ho avuto in Africa. Quest’uomo mi ha dato lavoro nel suo autolavaggio. Non avevo uno stipendio, ma mi garantiva i pasti e un alloggio e questo era già molto per me. Ho lavorato all’autolavaggio per sei mesi, poi purtroppo il proprietario è venuto a mancare e coloro che hanno rilevato l’attività non hanno rinnovato l’accordo. Mi sono quindi arrangiato con lavoretti vari fino a mettere insieme la cifra necessaria per venire in Italia, mille dollari e sono partito su una nave con altre ottanta persone.»

La traversata è dura, resa ancora più difficile dagli scafisti che vietano ai passeggeri di fare bisogni fuori bordo o buttare resti di cibo in mare perché, a loro dire, avrebbero attirato pesci e creature marine rendendo pericolosa la navigazione. Non sappiamo se per cattiveria o per ignoranza, è una situazione che anche i sopravvissuti di altre traversate ci hanno riportato. Sta di fatto che le condizioni igieniche a bordo diventano presto invivibili. La nave è una delle tipiche carrette del mare che ormai abbiamo tristemente imparato a conoscere per le innumerevoli tragedie di cui sono protagoniste.

«Imbarcavamo acqua in modo copioso, un lato della barca era quasi sommerso e avevamo abbandonato ogni speranza. Io e i miei compagni pensavamo che il mare sarebbe stato l’ultima cosa che avremmo visto prima di morire. Avevamo ormai abbandonato ogni speranza di farcela quando siamo stato avvicinati da una nave della Guardia Costiera che ci ha dato soccorso. Ero certo di morire: una volta sbarcato a Taranto, per prima cosa ho baciato la terra.»

Sunday è, con Momodou, l’altro vice allenatore della squadra e segue i ragazzi in ogni incontro, in casa e in trasferta. Durante lo scorso campionato, mentre si recava alla partita in macchina con uno dei volontari dell’associazione, Sunday ha avuto un incidente da cui ha riportato una serie di brutte fratture al braccio e alla mano. Dopo un lungo percorso di fisioterapia ha recuperato il pieno uso dell’arto.

In attesa dell’incontro con la Commissione che dovrà decidere se concedere lo status di rifugiato politico, Sunday rimette insieme i pezzi della sua esistenza, con nuovi compagni, nuovi sogni, nuove speranze. Ma c’è ancora qualcosa di importante da fare.

L’Associazione Optì Pobà cerca di dare anche un’assistenza spirituale agli ospiti del centro di accoglienza. Durante la prima cerimonia religiosa organizzata a Rifreddo, Sunday chiede di essere battezzato. Era la volontà di suo padre e per Sunday è finalmente un punto fermo da cui ricominciare.

Recensioni

Paola Gallas

Giornalista, si occupa di sostenibilità sociale e di sport come strumento per abbattere frontiere e costruire diritti.

Francesco Giuzio

28enne di Potenza, è l’ideatore del progetto sociale Optì Pobà. Ha una laurea in Scienze politiche e Relazioni internazionali, con esperienze di volontariato in Madagascar. È anche allenatore di calcio a cinque.