(di Monica Frigerio)
Se l’eroe di Lermontov, aristocratico tutto proteso verso la prevaricazione altrui, si muove in scenari storici dominati ancora dallo zarismo, quello del romanzo di Vladimir Makanin (Underground, ovvero un eroe del nostro tempo, Jaca Book, traduzione di Sergio Rapetti) è un uomo qualunque, e degli uomini qualunque possiede la bontà e spontaneità e d’animo, colto nel momento di collasso dello Stato a falce e martello che a sua volta aveva posto fine all’edificio zarista. Non un momento indolore, come la manifestazione di collettivo buon senso, quasi che i russi avessero voluto esorcizzare il pericolo di un nuovo conflitto civile, fece apparire in un primo tempo. Questa tacita rassegnazione era una maschera che nascondeva una combinazione di sentimenti contraddittori: smarrimento, amarezza e soprattutto una grande incertezza su cosa sarebbe venuto dopo.
Il romanzo è un tentativo di raccontare questa realtà, di comprendere questo cruciale passaggio dall’età sovietica al postcomunismo.
L’azione si svolge nell’arco di poco più di un anno, tra il 1991 e il 1992, nel cinquantesimo anno di vita del protagonista Petrovič, l’alter ego di Makanin che narra in prima persona.
Solo il patronimico, lui e gli altri non ricordano più il suo nome.
Luogo d’azione: Mosca, o meglio un’obščaga a Mosca, ossia la casalbergo, residenza per lavoratori costituita da numerose camerate o stanza singole. Ex falansterio socialista, relitto dei tempi del collettivismo, simbolo della vita in comune.
Petrovič è il custode di questi metri quadrati, uno scrittore mai pubblicato, senza fissa dimora, un autentico interprete dell’underground russo, l’altro importante luogo (non) fisico che fa da sfondo all’opera. Underground nel senso di non conformismo e libertà, subconscio sociale, spazio dedito alla circolazione della poesia, della letteratura e di tutte le altre arti proscritte contro il potere e la censura.
La sua ostinata volontà di rimanere ai margini della società, di non volersi collocare entro i canoni di una vita ordinaria, l’incapacità “di respirare l’aria delle vette”, rappresentano una ben determinata scelta filosofica ed estetica che costituisce la quintessenza dell’io narrante.
Egli tiene moltissimo al suo umile mestiere di guardiano degli appartamenti, questo gli permette di entrare in contatto, corridoio dopo corridoio, con un’umanità in affanno piena di grandi slanci ideali controbilanciati da misere abiezioni, che si vede costretta ad affrontare le conseguenze dell’affermarsi di un capitalismo sfrenato. Dà loro ascolto, se ne prenda cura, presta attenzione alle loro lagnanze di fronte a una tazza di tè presa in cucina, ogni tanto si innamora di una donna che il più delle volte finisce per abbandonarlo perché non riesce a concepire la sua vita di “disadattato”, ma anche qualora venga ripagato con disprezzo e indifferenza non se la prende, l’idea stessa del curarsi delle persone lo riempie di un amore senza pari.
Petrovič si muove sulla scia di alcuni dei grandi eroi della letteratura russa, nella tradizione degli impiegati pietroburghesi di Gogol’ o di molta parte dell’opera di Dostoevskij che si fonda sull’empatia, sul sentire la sofferenza degli altri, puntellata da motivi come l’attenzione verso i diseredati del sottosuolo, la purificazione morale e personale, il pentirsi delle proprie colpe.
Ma c’è anche qualcosa di nuovo, sintomo identificativo della realtà dei primi anni ’90 in Russia. La sua tacita ribellione. Quella di un personaggio che non accetta nessun compromesso con il potere e prova odio/indifferenza verso i soldi o qualsiasi altro tipo di bene materiale, proprio nel momento in cui per le strade della Russia iniziano a circolare le prime Mercedes e nei negozi a comparire i primi jeans griffati insieme a tanti altri oggetti che diventano l’ambizione e l’ossessione di un popolo spinto al consumismo (represso) più sfrenato nel giro di pochi anni.
In questo senso il protagonista diventa simbolo di una fierezza e di un’onestà intellettuale senza macchie, il resto non gli interessa: l’unico bene che trascina con sé nei suoi tragitti per il sottosuolo moscovita è la macchina da scrivere di cui peraltro non fa più uso. Ma sui suoi tasti ha allenato le dita, si è fatto venire i muscoli, utili nelle risse, o quando si usa il coltello, come nel momento in cui si ritrova a commettere due omicidi proprio a causa di quell’ “io” ingovernabile che la letteratura ha aiutato a maturare. Per difenderlo. Per difendere la sua nicchia impenetrabile che un’altra persona non arriverà mai a comprendere del tutto.
E qui c’è ancora tanto Dostoevskij, ma non solo.
Makanin si insinua tra le pieghe anche di un’altra tradizione letteraria, quella iniziata a partire dagli anni Settanta in Russia e che va a delinearsi sempre di più nell’ultimo ventennio del Novecento.
La Drugaja Proza (la prosa alternativa), di cui l’autore è un esponente, propone una prospettiva artistica nuova con la quale raccontare la realtà. Questa nuova prosa ha l’impeto di un fiume in piena e l’idea è quella di non partecipare più alla Storia che ha solo deluso, ma di cercare la propria piccola nicchia nel mondo e lì tenersi al riparo dalla violenza dello stesso. Una nicchia che assomiglia, per esempio, agli scarsi metri quadri di un appartamento dell’obščaga. I nuovi canoni sono l’ironia e la parodia, il disinteressa verso la vita politica e scetticismo verso la possibilità stessa di avere un ideale sociale.
Petrovič incarna perciò il tipo letterario di questo nuovo modo di concepire la scrittura, uno dei tanti outsider che popolano le pagine del samizdat russo, e al suo fianco ha un compagno speciale, che anche quando non gli è fisicamente vicino non abbandona mai i suoi pensieri, il fratello più giovane Venedikt Petrovič che, oltre al patronimico, merita di avere anche un nome.
Venja è l’Eroe puro dell’underground russo, pittore geniale che, a differenza del fratello, ha sì portato fino alle estreme conseguenze la sfida al sistema. Per questo motivo si è trovato confinato all’interno di un mondo parallelo, quello della psichuška (ospedale psichiatrico), da ormai trent’anni, ridotto quasi a un vegetale a causa di tutti i farmaci che è costretto ad assumere quotidianamente. Un fenomeno tragicamente noto nella Russia sovietica degli anni Settanta e Ottanta, la stessa sorte toccò infatti a diversi artisti e dissidenti che non condividevano le idee del Partito.
Il fratello maggiore non può fare a meno di sentirsi in colpa per lui, quasi volesse essere al suo posto, e verso la fine del romanzo, mentre il pensiero di Venja si radica sempre più nella coscienza del fratello, quest’ultimo riconosce a lui, a questa creatura “umiliata, strattonata, sporca di merda” – all’artista che non riesce ad accettare l’idea che la vita basti a se stessa, che non si possa fare a meno dell’arte (e della letteratura), della “Parola” intesa come sentimento che prende vita – e che ora somiglia a un bambino inconsapevole, il ruolo di portavoce della dignità umana, contro i soprusi e le violenze del potere.