(di Francesca Ferrara)
Quando si scrive una fanfiction, le strade percorribili sono due. Quella conservatrice, in cui si mantiene l’integrità originale dei personaggi e si arricchiscono alcuni passaggi della trama senza comunque metterne in discussione i pilastri. E’ una strada a basso rischio; nel peggiore dei casi la reazione del pubblico sarà di indifferenza.
La seconda via è quella critica e creativa. Ciò che nella storia originale si era dato per scontato viene deposto dalla sua mensola ed esaminato nel suo prima e nel suo perché. Operazione rischiosa, perché non tutti gli ammiratori dell’opera originale potranno trovarsi d’accordo.
L’idealista (March in originale e nella seconda edizione italiana), romanzo premio Pulitzer scritto da Geraldine Brooks ed edito in Italia nel 2005 da Neri Pozza, si muove entro una precisa finestra temporale: da quando il padre delle piccole donne inizia la sua esperienza fra le truppe dell’Unione a quando viene ricoverato nell’ospedale di guerra di Washington e fa ritorno a Concord. Fin qui nulla di sovversivo.
Il suo personaggio è ricalcato su quello dell’educatore Bronson Alcott, padre di Louisa May, la cui intera famiglia è stata il cartamodello per il romanzo del 1868. Abolizionista, fra i padri del trascendentalismo, insieme a Henry David Thoureau e Ralph Waldo Emerson, e innovatore nei metodi di insegnamento scolastico, ma anche precursore del veganesimo, fondatore di una comune (Fruitlands) e contrario ad indossare i tessuti ricavati dagli animali, come seta e lana. Un dettaglio non trascurabile durante gli inverni nel Massachusetts.
Il problema risiede nell’involucro. Non posso pronunciarmi su Bronson Alcott, ma il cappellano March, io narrante, è noioso, melenso e grondante autocompiacimento. E lo dico con un certo senso di colpa, perché ho amato L’isola dei due mondi della stessa Brooks.
March manca, inevitabilmente, di tensione narrativa. E questo sebbene si alternino due piani temporali, il presente della guerra e il passato della giovinezza. Per quanto possa avvicinarsi alla morte in più occasioni, sappiamo a priori che non morirà qui e ora. Così come sappiamo già che l’infatuazione per la schiava Grace Clement non lo strapperà al suo matrimonio.
Nell’intenzione di mantenere una continuità con la scrittura di Piccole donne, inoltre, Brooks usa uno stile che pur non sacrificando la scorrevolezza moderna emula per dovizia di dettagli e aggettivazione quello ottocentesco. Una scelta sensata, ma che non aiuta una trama e un protagonista poco incalzanti.
La tensione quindi può essere soltanto interiore e la maggior parte del libro non è altro che una lenta, lenta preparazione al momento in cui le contraddizioni della guerra e i l’impotenza dei suoi ideali prenderanno a schiaffi il volto emaciato del cappellano.
Schiaffi metaforici, a differenza di quelli con cui cerca di addomesticare sua moglie, Margaret “Marmee” March, che ha l’abitudine di infervorarsi troppo in pubblico per la causa degli schiavi. Un comportamento inaccettabile da parte di una moglie e una madre, frutto della penna di Brooks, che ha voluto intaccare l’aura di santità del personaggio originale. Intento apprezzabile, esito che lascia contrariati.
Finché… March perde conoscenza e, fino al suo risveglio, proprio Marmee è la nuova voce narrante. Primo colpo di scena. Mentre raggiunge Washington, nel suo monologo interiore, l’unico spazio in cui possa parlare apertamente, smonta una dopo l’altra tutte le brillanti iniziative del marito. Non è mai stata d’accordo con il voto alla povertà per scelta e tantomeno con la sua decisione di partire come cappellano di guerra (!). Secondo colpo di scena. Marmee parla per appena quattro capitoli, ma sono bastati per farmi rivalutare questo romanzo.
Qual è il suo cuore, dunque? Ebbene, a conti fatti, tutto ciò che March dava per scontato, nel suo sistema di valori quanto nella sfera domestica, è stato ribaltato. Si è recato al fronte per portare conforto e insegnare agli schiavi liberati, ma ha causato, in modo più o meno diretto, la morte delle persone con cui ha interagito. Che cosa resta? L’accettazione dei propri limiti a scapito di qualsiasi eroica intraprendenza, ma soprattutto i legami. Con i vivi che hanno sacrificato la propria libertà per dargli la salvezza e con quelli che lo reclamano a casa. Con i morti che continuano a stargli accanto, memento del suo fallimento ma riconoscenti per avere incrociato il suo cammino.