Pagine: 180
Prezzo di copertina:
15,00 euro
Collana: Le donne
Formato: brossura
Dimensioni: A5 (15×21)
ISBN: 978-88-98914-28-9
Ti dico subito, caro Lettore, quello che non troverai nelle pagine che seguono: una definizione dell’arte. Quello che ci troverai invece, almeno me lo auguro, sono delle indicazioni per cominciare a esplorare un territorio vivo e purtroppo, ti avverto, pieno di trabocchetti. “Territorio”, qui, sta ovviamente per arte contemporanea – il titolo del libro dovrebbe già averti messo sull’avviso. Mentre “trabocchetti” sta per… be’, perché privarti del gusto dell’avventura?
Io per me ci ho messo appena il piede, in questa plaga. Nello zaino avevo stipato: tre anni di interviste ad artisti e sedicenti tali; un’idea personale dell’arte che avrebbe bisogno altro che di un libro; la frustrazione di un vuoto tra chi fa arte, si occupa di arte, e me: the woman/man in the street.
A dire il vero non avevo molto altro quando sono partita, ma un piccolo extra di equipaggiamento me l’ero concesso: avevo ingaggiato due angeli custodi, non si sa mai. Uno era Wim Wenders, l’altro Chuck Palahniuk. Bella coppia, mi dirai: il primo un regista tedesco per palati raffinati, il secondo uno scrittore statunitense classificato fe-ro-ce-men-te horror. Avrei potuto fare altre scelte, lo ammetto, magari più ponderate. Tuttavia…
Tuttavia con Wim mi era capitato di passare una notte fantastica – no, ti prego, risparmiami la battuta! E se questo progetto è arrivato alla fine lo devo a lui. Precisamente a Il sale della terra, il suo film su e con Sebastião Salgado, realizzato in collaborazione con il figlio del grande fotografo brasiliano, Juliano Ribeiro. Guardalo e capirai perché ho scelto di parlare con le cinque artiste presentate in questo libro. Comunque, giusto per darti un’idea di quello che intendo, ché non è mai carino lasciare un lettore in sospeso – e io da lettore in questo caso sono proprio d’accordo con me stessa – la storia parte da qui: Wim Wenders aveva comprato per caso delle foto di Salgado; queste foto se le era guardate e riguardate, ma guardarle e riguardarle non gli era bastato; a un certo punto ha avuto un lampo, ha preso ed è partito: Salgado è andato a conoscerlo di persona. Ecco perché lo volevo assolutamente con me, Wim. Perché l’aveva vista giusta: se una cosa ti interessa, devi prender su e andare. Punto.
Quindi è arrivato Palahniuk. Nel suo Diary ho inciampato in queste parole:
Sei condannato a essere te stesso.
[…]
La calligrafia.
Il modo di camminare.
Il motivo decorativo delle porcellane che scegli.
Sei sempre tu che ti tradisci.
Ogni cosa che fai rivela la tua mano.
Ogni cosa è un autoritratto.
Ogni cosa è un diario.
(Chuck Palahniuk, Diary, Milano, 2008, Oscar Mondadori, trad. di Matteo Colombo.)
Perfetto, mi sono detta: è esattamente quello che penso io, e Palahniuk lo dice dritto. Perché se la semplicità è una complessità risolta – definizione colta al volo una sera tardi, che a Radio 3 parlavano del teatro di Paolo Grassi – Chuck ha risolto alla grande. Il che, nel contesto di questo libro, vuole dire che delle cinque artiste che sono andata a cercare troverai un ritratto – mica fedelissimo eh, non contarci, perché oggi non è più ieri… Diciamo che potrai recuperare una loro polaroid. Appiccicala al frigo, se ti pare: è solo uno start, quanto basta per cominciare a conoscerle, queste donne, e quindi conoscere il loro lavoro, che permette loro di continuare a conoscersi. Un filino ingarbugliato? Può darsi. Ma ti assicuro che funziona così, il Famoso Processo Creativo: fattene una ragione!
Perché se detesti i blablabla almeno quanto me e i libri te li porti dietro anche nella métro, ok, Chuck docet – non per niente l’ho assoldato come secondo angelo custode. Ma se pensi di cavartela con poco, chiudiamola qui: hai sbagliato libro.
Infine: perché Elvezia, Pietrina, Monica, Patrizia e Francesca?
Perché mi piaceva il loro lavoro.
Perché sono legate da un fil rouge.
Non mostra però, e non può mostrare, la prova decisiva del potere creativo femminile, poiché esso, per la maggior parte, non fu espresso nella pittura, ma nelle cosiddette arti minori.
(Germaine Greer, Le tele di Penelope, Milano, 1979, Bompiani, trad. di Grazia Lanzillo.)
Sì, ci siamo: il fil rouge che tiene insieme le artiste di cui sopra è che si esprimono tutte in prevalenza – non esclusivamente – coi medium delle cosiddette arti minori (minori?): intreccio, ricamo, crochet ecc.
E sì, se ho fatto questa scelta di campo, anche qui ho da saldare pubblicamente un debito. Ebbene, devo la mia decisione a Germaine Greer, scrittrice e giornalista australiana etichettata “femminista” (e pure d’antan) – ma tu non farci caso, Lettore: le etichette sono esacamotage per gente che la fa facile, e noi no, a noi il facile non ci piace nemmeno per scherzo… Vero?
(Ripensandoci… è straordinario come certe cose che leggi ti lavorino dentro per anni, finché un giorno… “Arrrgh! Ma da quant’è che ci sto girando attorno?” ti chiedi, sarà mica il caso di darmi una mossa?)
Infine, sul serio:
Se volete un’opera letteraria o artistica, fareste meglio a leggere quelle scritte dagli antichi greci. Perché sono necessari degli schiavi per produrre vera arte. […] Persone che alle tre del mattino rovistano nel frigo stipato di roba, possono scrivere solo futilità. Io sono una di quelle.
(Haruki Murakami, Ascolta la canzone del vento, in Vento & Flipper, Torino, 2016, Einaudi, trad. di Antonietta Pastore.)
Ora, non è per mettere le mani avanti: se uno scrive futilità, scrive futilità. Però. Però in quel che dice Murakami c’è del vero: sono una che rovista nel frigo alle tre del mattino.
Naturalmente ringrazio loro, le artiste, che mi hanno dato fiducia: Elvezia Allari, Pietrina Atzori, Monica Gorza, Patrizia Polese e Francesca Porro. Le ringrazio per avermi permesso di entrare nelle loro vite e nella loro arte, per avermi sostenuto, e per molto altro ancora – robetta tipo empatia, rispetto e stima – che per quanto mi riguarda resterà nel tempo.
Emanuela Scuccato
In quanto a vita sociale sto a metà strada tra Jane Austin ed Emily Dickinson. Intendo dire che la mia vita non ha niente di clamoroso (Jane Austen), e anzi da alcuni anni vivo quasi da eremita (Emily Dickinson). Non mi interessa apparire né raccontarmi. Forse sono un po’ snob, ma mi va bene così. Quello che sono è in quello che scrivo. E cambia sempre. Un indizio? Sono del Sagittario, ascendente Cancro.
Ho scritto su: “IoDonna.it” (interviste ad artisti e su appuntamenti e luoghi del DIY di tendenza); “A. Rivista Anarchica” (inchieste su tematiche sociali: carcere, prostituzione, donne e scienza ecc.); “PULP Libri” (recensioni libri bambini e young adults).
Ho scritto inoltre un saggio pubblicato su “Diotima”, la rivista on-line della Comunità filosofica femminile di Verona (Santa Caterina da Siena ovvero il rifiuto dello specchio opaco – Digressioni sulla letteratura), due saggi su Colette e George Sand (nel libro Donne di fiori), racconti per “Confidenze” e “Avvenire”, e testi per video (Epifàneia e A Corpo Libero). Ho pubblicato una Guida ai nomi e ai luoghi della Divina Commedia e curato l’edizione di alcuni libretti d’opera (per Demetra); ho vinto il premio nazionale “Maria Attanasio”, promosso da “Il Manifesto” e “LUD- Libera Università delle Donne” di Milano col racconto La Signora Meneguzzo e mi sono classificata al secondo posto al concorso nazionale “Le Buoneparole” col racconto L’orologio d’oro (incipit di Dacia Maraini).
Sul mio lavoro come ghostwriter non troverete invece niente, ovvio! Ma è tanto: credetemi sulla parola.