Passavamo tutto il giorno tirati da elastico, tutte le mattine ancora a scuola e tutto il pomeriggio a studiare storia, italiano, greco come non mai, perché fra un mese e mezzo c’era la maturità.
Passavamo ogni sera a diluire l’elastico giocando una partita di calcio dopo ogni cena, che risultava comunque bella tirata anche quella, sempre di corsa e tanti gol.
Da tre anni vivevo a Padova, studiavo dai Padri Comboniani e andavo al liceo classico Barbarigo. Da lì a poco, con la maturità, sarebbe finito anche il soggiorno in Veneto. La partita di quella sera l’abbiamo giocata con un’accogliente aria dolce attorno, un bel teporino di primavera piena aumentato dal profumo dei fiori di tanti giardini e cortili. Vi si mettevano tanti fiori, all’epoca.
Era finita 7-3 per noi, avevo fatto tre gol e giocato alla grande. Sentivo i muscoli che giravano da soli, la palla che mi si calamitava tra i piedi e andava dritta al punto. Sentivo di avere diciotto anni. Giocavamo un’ora e mezza senza intervallo.
L’unica interruzione è stata quando la palla è finita oltre il campo e si è infilata sotto un auto parcheggiata in fondo. Mentre due di noi andavano a recuperarla, mi è parso di vivere alcuni istanti di quelli sospesi, e ricordo di avere pensato: “Che momento unico, irripetibile… che bella serata… sta finendo un’epoca importante della mia vita!”
“Me li ricorderò, questo momento e questa serata…”
Il mio pensiero si mescola alla visione della palla che torna in campo, ma anche al chiasso indiavolato di molti cani di tutto il quartiere. Ci sono sempre stati, tutti questi cani ad abbaiare come tarantolati?
Dopo la partita mi sento i muscoli piacevolmente stanchi, duri. Salgo nel palazzo, vado a farmi un bagno. La finestra è aperta, sento ancora l’aroma dei fiori attorno.
Resto sdraiato in acqua a lungo, poi mi metto in ginocchio per lavarmi come si deve.
Sento un crampo, un tremore forte alle cosce. Lo attribuisco alla stanchezza, ma è un pensiero che non basta e dura molto poco. Mi osservo le gambe.
La vasca prende a muoversi lateralmente, l’acqua monta in onde sempre più alte, finché non ne esce gran parte dal bordo. Non riesco a muovermi, mi accorgo che – non so da quanto – ho le mani strette da far male ai bordi della vasca stessa.
Alzo gli occhi dall’acqua e dalle mie gambe.
Quello che vedo mi gela.
I muri giallini della stanza ondeggiano vistosamente, almeno dieci centimetri da una parte e dall’altra. Cala la luce. Si riprende. Qualche secondo di buio pieno, poi torna.
Le mura sono impazzite e in balia della loro danza.
Non riesco a muovere niente di me, il corpo mi si stritola per la tensione muscolare ma soprattutto per la paura.
Penso che sta per crollare tutto, non farò la maturità, non tornerò a Milano, la mia vita è stata breve. Non riesco neanche a urlare, mi figuro una pallina d’acciaio in gola.
Poi i muri riducono l’onda, fino a tornare fermi e verticali come lo sono stati tutti i muri visti fino a quella sera.
Ci metto un quarto d’ora prima di lasciare la stanza da bagno, a ogni movimento ho paura di provocare qualcosa, di tornare a prima, anche se mi dico che è ridicolo. Mi affaccio infine sul campo di calcio, dove ci sono tutti i miei amici. Sono stato l’unico a restare dentro. Agghiacciato da una paura che non ho più provato – per fortuna – in tutta la mia vita di poi.
Era la sera del 6 maggio 1976. Padova non è lontana dal Friuli.
Per un mese non ho dormito più di un paio d’ore a notte.
quella sera ero in camera mia, ascoltavo Genesis Live, un disco bellissimo. A un certo punto, credo mancassero 5 minuti alle nove, ho sentito un grande boato, in crescendo. In un primo momento ho pensato alla caldaia proprio sotto la mia stanza, ma poi… ho infilato il corridoio per scappare fuori e sembrava che quei sette otto metri non finissero mai. Per un minuto buono abbiamo guardato la casa sbattuta come una nave in tempesta, che non si sa come è rimasta in piedi. (Fiume Veneto, Bassa friulana)