(di Luciano Sartirana)
Oggi divoro migliaia di pagine di narrativa ogni anno, una quota minore di varia saggistica, poesia il giusto. Ma quando è iniziato tutto questo? Come? Perché?
Noi – lettori assoluti – abbiamo avuto una parte della vita antecedente il primo libro che abbiamo letto?
Ho iniziato a leggere e scrivere da solo a quattro anni, seguendo la trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi”, una delle cose migliori mai fatte dalla tv italiana, a beneficio dei molti analfabeti ancora presenti allora. I motivi erano tre: non avevo più voglia di attendere la sera che mamma o papà mi leggessero le favole prima di dormire; ero curiosissimo di sapere cosa ci fosse scritto sui giornali e le riviste che giravano per casa; il maestro Manzi, che conduceva la trasmissione, era un adulto simpatico e che trasmetteva calma e sorriso, oltre che un sapere fondamentale.
Una volta impadronitomi delle parole leggevo tutto quello che trovavo. In casa di narrativa quasi non ce n’era, o io non la vedevo. Ma c’erano la “Domenica del Corriere” e il “Corriere della sera”. C’era un’enciclopedia, la mia lettura preferita perché divisa per argomenti e a capitoli abbastanza brevi e intervallati da foto.
In seconda elementare – inutile dire che in prima mi sono scocciato molto, sapendo già leggere – ho trovato un vecchio libro di scuola di mia madre, una storia di Roma… di quelle molto narrate, con le vicende epiche di individui come Annibale, Scipione, Attilio Regolo, Brenno e Camillo… era narrativa pura, l’avrò letto una decina di volte.
Poi, naturalmente, molti fumetti. A parte i classici Topolino e Tiramolla, ogni tanto mi regalavano libricini di una strana serie: classici per ragazzi ridotti a fumetti. In questo modo mi sono appassionato a grandi storie, apprezzando quindi la trama ma non avendo esperienza dello stile… “I ragazzi della via Pal” (tremendo e lacrimevole), “Dalla Terra alla luna” (un sogno) e “L’isola del tesoro” (bellissimo) erano i miei preferiti.
La mia frequentazione dell’oratorio mi porta a leggere il Vangelo e alcune storie della Bibbia, ma mi ci accostavo in modo devoto e rispettoso, non riuscivo a farmeli passare per narrazioni da gustare, c’erano troppe altre cose dietro. E – solo tra me, non si sa mai – ponevo troppe domande: è scemo, Abramo, ad accettare di sacrificare Isacco? Come potevano Adamo ed Eva accettare di stare in posto noioso come il Paradiso Terrestre? Gesù non poteva scappare e non farsi più trovare, altro che andare in croce per gli altri?
In quinta elementare ho letto il primo romanzo della mia vita. Ero allenzuolato con febbre e influenza, avevo finito tutti i fumetti a disposizione, la “Domenica del Corriere” della settimana la stava leggendo ancora mio padre. Scovo un libretto nello scaffale sotto l’enciclopedia… “Il fiore delle perle”, di Emilio Salgari… una storia tra Cina e Indocina, barconi lungo un fiume, riso a colazione e pranzo e cena (tanto che la sera ho faticato a ingollarmi il mio riso in bianco, non ne potevo già più…). Un libro che mi sono bevuto in un giorno, con l’intensa sensazione di avere scoperto qualcosa di grande: si poteva raccontare una storia solo con delle parole; era bello appassionarsi alla trama; era bello godersi la scrittura e lo stile di un particolare scrittore. Poi, nelle medie, dalla biblioteca comunale sono arrivati tutti i romanzi di Jules Verne (ho riletto quattro volte “Viaggio al centro della Terra”!), “Marcovaldo” a scuola, “L’isola del tesoro” e “I ragazzi della via Pal” come testi scritti.
Dai quattordici anni, incredibilmente, ho letto solo cose di storia, politica, psicologia. A sedici addirittura “La fenomenologia dello spirito” (ovviamente non capendo nulla) e scritti di Freud e Groddeck, che avevano l’effetto di mostrarmi a me stesso come un ricettacolo di nevrosi.
Fino a che, al primo anno di Università, per fortuna ho ripreso in mano il filo lanciatomi anni addietro da Salgari e Verne… “Un amore di Swann”, Marcel Proust, scelto del tutto a caso in una libreria. Da allora, le serate senza un romanzo sono state davvero poche.