L’andatura di Bernhard è così non semplicemente spiraliforme, ma discontinua nella sua commuovente coerenza – avanza, incontra l’ostacolo, ci si avvolge intorno con una pazienza e una diligenza che possono durare pagine e pagine (le quali, essendo necessarie a superare l’ostacolo in questione, difficilmente potranno risultare di conseguenza anche eccessive) ruminandolo finché non ne resti più niente – fino a quando cioè, visto che il male è eterno, un ostacolo di tipo nuovo si sia già ricomposto come una nera concrezione qualche passo più avanti. (https://www.minimaetmoralia.it/wp/approfondimenti/lautobiografia-di-thomas-bernhard/)Si tratta di arrivare alla meta consunti, è vero, ma Bernhard non risulta mai stucchevole, mai eccessivo nelle sue invettive, che in effetti sono eccessive, perché si è conquistato a fatica ogni parola, e ha evitato in qualsiasi modo che il suo nucleo venisse intaccato, ancora una volta temperamento e coerenza. Ogni pensiero, ogni fatto o azione vengono spremuti, ribaltati, osservati da tutte le angolazioni possibili e di continuo per improvvise analogie o salti inspiegabili si passa da un argomento all’altro, niente viene veramente esaurito perché la verità, in fondo semplice e complicatissimo filo motrice di tutta la sua produzione, è inafferrabile quindi non si può fare altro che andare avanti, pur sfiancante che sia, parlare, parlare, ancora parlare, con un Gambetti che sia, e camminare. Camminare è il romanzo secondo Bernahrd che, sotto tutti gli aspetti, meglio gli sia riuscito. Termina così e così vorrei terminare qui:
L’intensità va accresciuta sempre di più, può essere che un giorno questo esercizio oltrepassi il limite della pazzia, ma, in merito, non posso avere alcun riguardo, così Karrer. Il tempo in cui usavo riguardi è passato, non uso più alcun riguardo, così Karrer. Lo stato di indifferenza in cui mi trovo, così Karrer, è uno stato filosofico da cima a fondo. (Camminare, Thomas Bernhard, edizione Adelphi 2018)


Mentre eravamo lì, io con le mie foto e tu con i tuoi pupazzetti, ti sei voltata a guardare un’immagine sul mio computer, per due secondi o tre. Era la foto di un bambino su un autobus mentre guarda da un finestrino chiuso. Il bambino era in collo alla mamma, che aveva un velo in testa. Accanto a loro un uomo, penso il babbo. Tu, Caterina, ti concentri sul bambino e mi chiedi l’ovvio: “È un bambino?”
In scena quattro attori. E un animale. L’animale è uno di loro, è una maschera di gomma, ma ha due occhi neri che sono due specchi. Come i vetri della scenografia, che è minima, semplice, rotta. Tutto sul palco ha subito uno schianto e tutto è diventato frammento, perfino le parole dei protagonisti, le scene, la storia. Il linguaggio è contemporaneo, con una presa forte sulla realtà, ma l’immediatezza è solo apparente.